P d L / Sergio ROSSI
–Il tuo libro, che “si legge come un romanzo”, come recita il quarto di copertina, si sviluppa attraverso un Prologo, quattro capitoli e un Epilogo. Entrando più nel dettaglio, del Prologo: Caravaggio e le fonti, mi ha colpito soprattutto la tua analisi del concetto aristotelico dell’imitazione del migliore, del simile e del peggiore applicato dai teorici seicenteschi alla pittura di Caravaggio.
In effetti nella Poetica Aristotele scrive: [1448 a] «Poiché quelli che imitano, imitano uomini che agiscono ed è necessario che questi siano persone o nobili o spregevoli…imiteranno uomini o migliori dell’ordinario o peggiori o quali noi siamo, come fanno i pittori. Polignoto infatti rappresenta uomini migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili». Concetto ripreso quasi alla lettera dal Bellori:
«Demetrio ricevé nota di essere troppo naturale, Dionisio fu biasimato per aver dipinto uomini simili a noi, comunemente chiamato antropografo, cioè pittore di uomini. Pausone e Pirreico furono condannati maggiormente, per aver imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili, e ‘l Bamboccio i peggiori».
E più avanti conclude:
«Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura & veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire un estremo s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando ne gli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione».
-Passando al primo capitolo: Nato sotto Saturno, già il suo titolo mi sembra molto significativo.
Perno centrale della mia analisi è il cosiddetto Bacchino malato della Galleria Borghese [fig.1], che assolutamente malato non è e in cui l’artista si raffigura contemporaneamente come Bacco, come “nato sotto Saturno” e come Gesù Cristo, come già sostenuto a suo tempo da Maurizio Calvesi e da Kristina Herrmann Fiore e come io stesso ho ribadito e precisato, con nuove considerazioni, in alcuni miei recenti contributi. Si tratta di un’immagine semanticamente ambigua, sospesa tra sacro e profano, tanto naturale quanto piena di mistero e che presenta un giovane dal colorito quasi “lunare” e cinto da una corona di edera che spreme un grappolo d’uva bianca ed è seduto dietro una lastra di pietra, simile ad un tavolo in primo piano, contenente due pesche e un grappolo d’uva nera. Ma è soprattutto la luce del quadro, che sembra provenire dalla chiarità dell’alba ed è carica di profondi sottintesi ermetici a smentire coloro che ancora si ostinano a considerare Caravaggio il prototipo del “pittore del vero” e solo di quello.
Aggiungo che nel capitolo mi occuperò anche nel dettaglio, con nuove ipotesi e nel caso di un dipinto in particolare anche con nuove analisi tecnico-scientifiche, di quelle che considero le due versioni autografe del primo dipinto del Merisi e cioè del cosiddetto Mondafrutto [fig.2];
poi ancora del Ragazzo col cesto di frutta della Galleria Borghese [fig.3]
e delle due versioni autografe (sempre a mio parere) del Ragazzo che da una lucerta era morso [fig. 4 e 5].
–Nel secondo capitolo: Caravaggio i Mattei e il mecenatismo a Roma nel primo Seicento tu dedichi particolare attenzione a questa importante famiglia nobiliare romana; puoi dirci perché?
Naturalmente io rendo conto anche di alcuni importati dipinti eseguiti per il cardinal del Monte, per il marchese Giustiniani, per il principe Massimo; ma in particolare sul rapporto tra il Merisi ed i Mattei sono emerse di recente alcune importanti novità. Ad esempio io sono convinto che la prima versione del San Matteo in contemplazione è stata eseguita proprio per i Mattei e lo stesso può dirsi de L’incredulità di San Tommaso ora in collezione privata che precede [fig.6], sia pur di poco, quella ora a Potsdam, come del resto hanno sostenuto autorevolissimi studiosi come Maurizio Marini, Mina Gregori, Bert Treffers, Claudio Strinati, Fabio Scaletti.
Ma nel capitolo io mi soffermo anche, dimostrandone la non corrispondenza al vero, sulla spinosa questione del Caravaggio che dipingerebbe solo quello che ha davanti agli occhi.
E come prova porto proprio il cesto di frutta presente nella Cena in Emmaus ora a Londra [fig. 7] dove compaiono una serie di frutti che vanno da fine luglio a novembre e che quindi non era possibile che il pittore avesse riuniti tutti insieme mentre dipingeva; e lo stesso può dirsi della Fiscella dell’Ambrosiana, per la quale è ormai impossibile negare il profondo significato cristologico che la caratterizza [fig. 8].
-Veniamo ora al terzo capitolo: Caravaggio cattolico e peccatore, il cui titolo sembrerebbe essere in antitesi con Nato sotto Saturno; ed invece è proprio questa complessità del nostro artista, “ai limiti della schizofrenia”, come tu stesso scrivi, ad essere un po’ la chiave di lettura più nuova ed interessante del libro.
Infatti su Michelangelo è stato scritto tutto e il contrario di tutto ed egli è stato presentato di volta come un disadattato, un violento, un assassino, cose in parte vere anche se vanno contestualizzate all’interno dell’epoca in cui egli visse, ma anche come un ateo miscredente o un filo luterano, cosa assolutamente falsa, perché egli era, al di là di ogni ragionevole dubbio, un cattolico e un peccatore alla continua ricerca della Grazia e della redenzione. E perno centrale del mio ragionamento è l’analisi del David e Golia della Galleria Borghese [fig.9]. Si tratta in effetti di un doppio autoritratto, anzi una doppia autoidentificazione in cui il Caravaggio/David, ancora puro e non tocco dal peccato uccide il Caravaggio/Golia il cui volto è invece come devastato, dimostrando così il proprio pentimento ed avanzando una drammatica richiesta di grazia e di perdono.
Sublime pendant di questa tela, eseguito anch’esso nel 1610, è il S. Giovannino disteso, forse il suo ultimo capolavoro [fig.10], in cui il giovane protagonista, malinconico e meditativo, sembra consapevole che la Grazia, cui allude il chiarore aurorale che si intravede nel fondo della scena, potrà essere raggiunta solo dopo il suo estremo sacrificio, che egli accetterà volentieri ad imitationem Christi.
Ed è anche quello che in qualche modo intende fare Caravaggio, che abbiamo già visto identificarsi spiritualmente col Battista nella Decollazione di Malta [foto 11 copertina del libro].
E a questo proposito posso aggiungere un particolare che sono stato il primo a notare: nel fondo di questa grande tela, dietro quella che a tutti gli effetti sembra essere la grata di una prigione, ad assistere al martirio del santo appare una figura con una benda e una ferita alla fronte proprio come quella che il nostro pittore aveva subito nel suo mortale scontro con il Tomassoni: ancora una volta dunque Michelangelo si raffigura insieme come spettatore e protagonista di un tragico evento. E non è un caso se ho scelto questo particolare per la copertina del mio libro. Tornando al David e Golia della Borghese, il nostro artista compie una sorta di auto decapitazione virtuale o metaforica tesa a cancellare i propri delitti e presentarsi come un peccatore penitente davanti al giudizio di Dio e degli uomini.
–Il tuo quarto capitolo si intitola Caravaggio e l’immagine “scandalosa” della Vergine. Dunque è vera la leggenda che egli usava come modelle per l’immagine della Madonna prostitute o addirittura una giovane appena pescata dal Tevere?
Si tratta appunto di leggende messe in giro ad arte dai biografi a lui ostili, come il Baglione o il Bellori. Altra cosa è chiedersi perché Caravaggio avesse l’abitudine di conferire a quasi tutte le Madonne da lui dipinte un aspetto “umano, troppo umano”, anche se per nulla sconveniente. La risposta non può ridursi al puro gusto della provocazione e dello scandalo, come appunto i biografi sei e settecenteschi (e non solo) tendono ad affermare e va piuttosto ricondotta alla vicinanza del nostro pittore a quegli ambienti pauperistici, borromaici ed oratoriani che volevano dare della Chiesa un’immagine caritatevole e “misericordiosa”. Infatti la Vergine è anche, indiscutibilmente, una ‘figura’ della Chiesa: ma più esattamente di quale Chiesa? Non certo quella dello sfarzo e del lusso ostentati senza pudore, ma al contrario quella degli umili, dei bisognosi, dei pellegrini; quella vagheggiata appunto da San Filippo Neri e dagli Oratoriani, come dimostra su tutte la meravigliosa tela della Morte della Vergine ora al Louvre.
-Ed eccoci arrivati all’epilogo Epilogo: Caravaggio e Van Gogh. Cosa hanno in comune per te questi due artisti?
Quasi a tre secoli di distanza da Caravaggio Van Gogh ne riprenderà alcuni temi poetici ed esistenziali attuando però una sorta di rovesciamento romantico dell’estetica caravaggesca. Anche il pittore olandese, ha infatti un rapporto totalizzante con il colore: solo che qui si passa dal troppo scuro delle prime opere, quasi impastate con la pece, ai bagliori esplosivi dell’ultimo periodo. Come se Van Gogh, dopo aver saputo controllare la materia al nero, attraverso gli impasti densi e pieni che richiamano anche la pittura olandese del Seicento, dopo essersi impadronito di tutti i segreti delle mezze luci, dopo aver saputo ottenere la padronanza assoluta delle tenebre, novello Orfeo alla rovescia, abbia voluto guadagnare la luce del sole, inseguendo, fino all’autodistruzione, il sogno della luce assoluta, del giallo puro. Paradossalmente però, per lui le tenebre corrisposero alla vita e la luce alla morte, ribaltando, appunto, il messaggio caravaggesco che identificava le tenebre con il male e la luce con la salvezza.
D’altro canto, è ormai accertato come una delle più straordinarie caratteristiche del Caravaggio consista nell’essere un profondo innovatore di iconologie e i suoi dipinti, per quanto analizzati in molteplici aspetti, continuano a riservare sorprese ed essere suscettibili di letture sempre nuove e stimolanti. Anche perché egli è il pittore della notte e dell’alba, della luce e delle tenebre, del peccato e della salvazione, cioè il pittore della dualità seicentesca, ma che sa interpretare anche valori unversali che vanno ben oltre l’epoca in cui è vissuto. Ed è forse per questo che, non ostante i tantissimi documenti e gli ancor più numerosi saggi e volumi che lo riguardano, egli rimane sostanzialmente un affascinante mistero.
Molto dipende, probabilmente, dall’estrema complessità della sua personalità umana ed artistica: violento fino all’omicidio eppure fervente credente, come recenti studi hanno dimostrato in modo ormai inequivocabile; ammirato soprattutto dai giovani artisti, apprezzato e protetto da influenti mecenati ma anche inviso a una parte consistente della cosiddetta cultura ufficiale e da tutta la critica di orientamento accademico; moltissimo ha guadagnato (anche qui contrariamente a quanto si è voluto far credere) e altrettanto ha dilapidato; moltissimo ha peccato e costantemente ha cercato la “grazia “e il perdono, come tanti altri grandi artisti prima e dopo di lui.
Roma 12 Gennaio 2022
Comunicazione: Sira v. Waldner – AION.ART
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