di Marta ROSSETTI
A mio padre, che nel volto del Cristo rivedo.
Nel Palazzo Ducale di Gubbio si conserva in comodato d’uso un Cristo deriso (fig. 1) di media grandezza (olio su tela, 98 x 74 cm) di proprietà del comune eugubino (inv. 270) con un’attribuzione ad anonimo pittore napoletano della prima metà del Seicento.
Il dipinto è in verità opera autografa ed originale del pittore romano Angelo Caroselli (1585-1652) (M. Rossetti, 2015), generalmente incluso nel novero dei cosiddetti “caravaggeschi”.
Segnalatami dall’acuto Patrizio Basso Bondini, presento qui per la prima volta la tela, anche sotto la spinta di Paola Mercurelli Salari (direttrice del Palazzo Ducale di Gubbio, della Rocca Albornoz di Spoleto e del Tempietto sul Clitunno) che ne suggerisce l’annuncio in tempi brevi, riservandomi di discuterne ancora in un articolo in corso d’opera che include altri inediti di Angelo Caroselli e del suo “alter ego”, lo Pseudo Caroselli (V. Sgarbi, 2012 e, da ultimo, M. Rossetti, Pseudo Caroselli in I pittori, 2021, pp. 240-243; sono grata, dunque, al dott. Patrizio Basso Bondini, alla dott.ssa Paola Mercurelli Salari e al dott. Roberto Borsellini, quest’ultimo dell’Ufficio Cultura del Comune di Gubbio).
Il dipinto, che nel catalogo del pittore s’inquadra in un tempo non tardo, verosimilmente tra la seconda metà del primo decennio e la prima metà del secondo decennio del Seicento, è composto di tre mezze figure: il Cristo al centro con la corona di spine, il volto segnato dalle gocce di sangue, i polsi legati da una corda e la canna nella mano destra, e due sgherri in posizione laterale, quello a sinistra con un copricapo (che nella posa risente delle giovanili esercitazioni allo specchio del pittore) sembra “svelare” il Cristo discostando il mantello di porpora ed accompagnando tale azione con un gesto dimostrativo, quello a destra pare trattenere il condannato stringendo tra le mani due lembi dello stesso mantello purpureo. In alto il fondale è scuro, mentre in basso la presenza del parapetto lapideo porta alla mente l’edificio del pretorio presso il quale il Cristo è condotto e deriso (Matteo, 27, 27-30; Marco, 15, 16-19; Giovanni, 19, 2-3).
La dimensione dell’ingombro delle figure nel campo fa sì che la tela possa essere accostata al Cristo e il Centurione a Cafarnao (fig. 2) della Galéria Mesta Bratislavy di Bratislavia,
mentre il volto dello sgherro di sinistra sembra essere quello del San Sebastiano curato da Irene (fig. 3) (London, Robilant+Voena),
della figura che indica l’Adultera in Cristo e l’Adultera (fig. 4) (Roma, Bertolami Fine Art),
de’ Il Figliol prodigo rimpiange il suo passato e prega (fig. 5) oggi alla Galleria Spada
oppure quello maschile della Lesbia piange la morte del suo passero alla presenza di un suonatore di lira da braccio (fig. 6) (London, collezione privata),
tutti probabili autoritratti del pittore, compreso lo sgherro del presente dipinto che ha il privilegio di “svelare” il Cristo (M. Rossetti, 2015, schede e figg. 57, 21, 56, 60, 74).
Il dipinto di Gubbio s’insinua, volente o nolente, nella “vexata quaestio” “Caravaggio”, sia perché esso è realizzato “alla maniera” del Merisi, ovvero nello “stile” del maestro lombardo (e Filippo Baldinucci, 1681-1728, rammenta che un soggetto simile del Caroselli
“una tela di pochi palmi, in cui era nostro Signore battuto alla colonna”, è al tempo “comprata per opera del Caravaggio” da un “grandissimo prelato”,
sia perché richiama alla mente gli Ecce Homo di Ludovico Cardi il Cigoli (fig. 7) (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina),
di Domenico Cresti il Passignano (disperso) e di Michelangelo Merisi (fig. 8) (Genova, Galleria di Palazzo Bianco), per l’appunto,
e, assieme ad essi, il noto “paragone” tra le tre opere messo in atto da Massimo Massimi tra il 1605 e il 1607, paragone ricordato dalle fonti e dai documenti seicenteschi (per il “paragone” si rinvia a M. Marini, 2005, n. e fig. 70, pp. 496-499, 268-269; per un chiarimento sui documenti e sulle fonti letterarie riguardanti i diversi Ecce Homo del Merisi: F. Curti, Gli “Ecce Homo” di Caravaggio nei documenti e nelle fonti letterarie, in Ecce Caravaggio, 2021, pp. 36-59; si consulti anche S. Macioce, 2023). Che sia l’esemplare (fig. 8) di Genova quello già di proprietà del Massimi (e il confronto con la tela del Caroselli farebbe propendere proprio per questo, a meno che esista un precedente e comune modello), oppure sia quello (fig. 9) della collezione Pérez de Castro Méndez di Madrid,
riconosciuto di recente come opera del Caravaggio e per questo ritirato dall’asta madrilena dell’8 aprile 2021 (Ansorena, lotto 229) ove è presentato come lavoro della cerchia di Jusepe de Ribera, poco importa in questa sede, perché è soprattutto l’avvenimento del “paragone”dell’operato dei tre pittori ad interessare certamente il Caroselli (per l’Ecce Homo di Madrid si legga il denso affondo di M. C. Terzaghi, Caravaggio “millennial”. Un nuovo “Ecce Homo” del Merisi, in Caravaggio, 2021, pp. 188-211; a seguire: Caravaggio, 2023).
Il pittore romano, infatti, è conosciuto nell’Urbe per il suo mestiere di copista e di pasticheur – ovvero di colui che produce dipinti nella “tecnica” e nello “stile” di un determinato tempo artistico o di un determinato autore, ma anche assemblando “parti” tratte da fonti pittoriche differenti – ed in alcune occasioni, come rammenta Filippo Baldinucci (1681-1728), si trova a svelare ai proprietari di opere realizzate in stile caravaggesco o nei modi del Cinquecento veneto credute originali “la sua solita cifra, cioè un A e un C” sul “piano del quadro”, dimostrando, attraverso tale spontanea indicazione, di avere più un’intenzione virtuosistica o comunque rispondente alle richieste del mercato del tempo, che fraudolenta (Caravaggio, Tiziano, Correggio, Raffaello, Annibale Carracci, ma anche Veronese e Sebastiano del Piombo sarebbero replicati dal Caroselli, si legga, oltre le biografie di G. B. Passeri e di F. Baldinucci: M. Rossetti, “Il mestiere di conoscer le maniere esattamente, et il conoscer una copia quando è ben fatta dall’originale: “li ueri oracoli” Angelo Caroselli (1585-1652) e Antonio Mariani Della Cornia (1584c.-1654) – intenditori, copisti, “pasticheurs”- nella corrispondenza Orsini-Imperiale, in Originali, 2018, pp. 137-146; M. Rossetti, L’inventario della rigatteria di Achille padre di Angelo Caroselli e un dipinto con Raffaello Menicucci, in L’Archivio, 2021, pp. 305-323). Nelle Considerazioni sulla pittura (1617-1621), inoltre, Giulio Mancini informa sulla produzione di copie da parte dei pittori del tempo per “zelo d’honore”, per “farsi conoscere e reputare”, e tale notizia può essere messa in relazione sia con la pratica già descritta del Caroselli, sia con il “paragone” tra pittori messo in atto dal Massimi che non deve intendersi, dunque, come esclusivo topos letterario, ma come prassi in voga negli ambienti artistici, mercantili e collezionistici dei secoli passati, compreso il primo Seicento.
La fissità iconica del volto del Cristo dipinto dal Caroselli, con lo sguardo diretto al fruitore come negli esempi popolari (fig. 10) di Antonello da Messina, non è casuale: seppur possa in qualche modo meravigliare in tale contesto, essa rimanda certamente al celebre Volto Santo o Vera Icona o Santo Sudario. Se si considerano gli esempi pittorici più “somiglianti” all’effige dipinta dal Caroselli – la Testa di Cristo (fig. 11) (New York, Metropolitan Museum of Art) del fiammingo Petrus Christus realizzata nel 1445 circa sul modello delle due perdute di Jan van Eyck (firmate e datate 1438 e 1440) – è forse con difficoltà che può profilarsi un’influenza diretta dell’opera nordica su quella del pittore romano a distanza di quasi due secoli
(si ricordi, tuttavia, il ruolo cardine svolto dalle incisioni nella circolazione dei modelli e, contestualmente, il mestiere di stampatore esercitato da Giovanni Antonio Gallina, il marito della sorella del pittore, con possibilità di entrare in contatto più facilmente con testi illustrati o stampe di traduzione; si legga infra e M. Rossetti, 2015, p. 448). Tuttavia è piuttosto verosimile che il Caroselli sia a conoscenza di quella celebre reliquia che dal XII secolo e sino al Sacco di Roma (1527) era conservata in San Pietro, che era portata in processione dal 1208 (papa Innocenzo III) ogni anno la seconda domenica dopo l’Epifania dalla basilica suddetta all’Ospedale Santo Spirito (Matthew Paris, Chronica majora, 1245 circa; A. Sand, 2014, pp. 27-83), cui erano dedicate preghiere come Salve sancta facies (papa Giovanni XXII) o Ave facies praeclara (papa Innocenzo IV) e la cui venerazione attraverso pellegrinaggi reali o mentali, questi ultimi mediati dalle immagini miniate o dipinte, era fortemente promossa ed era motivo di concessione dell’indulgenza da parte dei pontefici susseguitisi in quell’arco temporale (per una sintesi sul Volto Santo e sulle pratiche connesse, con bibliografia precedente: M. Sugiyama, 2017; G. Wolf, “Pinta della nostra effige”. La Veronica come richiamo dei Romei, in Romei e Giubilei, 1999, pp. 211-218; nel Seicento, nella Basilica Vaticana si conserva comunque una copia dell’icona originaria come testimonia, per esempio, G. Finugio, 1645, p. 13: “c’è il Volto Santo, che Giesù di sé stesso inpresse in un Velo, e diede à S. Veronica”).
La presenza del parapetto lapideo nel dipinto in questione, rimanda sì alla canonica citazione dell’edificio evangelico del pretorio, come già ricordato, ma potrebbe anche riferire della tribuna in San Pietro dalla quale veniva effettuata l’Ostensione della Veronica (fig. 12), così come mostrano alcune incisioni della seconda metà del Quattrocento (per le incisioni si confronti: G. Wolf, “Pinta della nostra effige”. La Veronica come richiamo dei Romei, in Romei e Giubilei, 1999, figg. alle pp. 215, 217).
Il Caroselli, che è pittore colto come rammenta Giovanni Battista Passeri (ante 1679), può conoscere pure le fonti letterarie che narrano del celebre Volto Santo della Veronica: i contenuti della Cura Sanitatis Tiberii (VII-VIII sec.), della Vindicta Salvatoris (VIII-IX sec.) o della Bible en français di Roger d’Argenteuil (XIII sec.) (La vengeance, 1993), scritti apocrifi cui si attribuisce il merito della circolazione della leggenda, infatti, sono condivisi da opere più note agli artisti del Seicento mediante edizioni a stampa, le Antiquitates iudaicae (93-94 d.C. circa) dello storico ebreo Giuseppe Flavio e la Legenda Aurea (1252-1265 circa) di Jacopo da Varagine (si rammenti anche Robert de Boron, Joseph d’Arimathie, 1183).
Oltre a questi testi, deve ricordarsi in tale contesto l’Epistula Lentuli ad Romanos de Christo Jesu (XIV-XV sec.) in cui è descritto fisicamente il Cristo e che è molto utilizzata dai pittori nordici del Quattrocento e del Cinquecento (tra questi, è incluso il già citato Jan van Eyck per i due esemplari di Testa di Cristo perduti, M. Sugiyama, 2017, pp. 9-10):
“Hoc tempore vir apparuit, et adhuc vivit vir praeditus potentia magna, nomen ejus Jesus Christus. Homines eum prophetam potentem dicunt, discipuli ejus, filium Dei vocant. Mortuos vivificat, et aegros ab omnis generis aegritudinibus et morbis sanat. Vir est altae staturae proportionate, et conspectus vultus ejus cum severitate, et plenus efficacia, ut spectatores amare eum possint et rursus timere. Pili capitis ejus, vinei coloris usque ad fundamentum aurium, sine radiatione et erecti, et a fundamento aurium usque ad humeros contorti, ac lucidi, et ab humeris deorsum pendentes, bifido vertice disposti in morem Nazaraeorum. Frons plana et pura, facies ejus sine macula quam rubor quidam temperatus ornat. Aspectus ejus ingenuus et gratus. Nasus et os ejus nullo modo reprehensibilia. Barba ejus multa, et colore pilorum capitis bifurcata. Oculi ejus caerulei et extreme lucidi. In reprehendendo et objurgando formidabilis, in docendo et exhortando blandae linguae et amabilis. Gratia miranda vultus, cum gravitate. Vel semel eum ridentem nemo vidit, sed flentem imo. Protracta statura corporis, manus ejus rectae, et erectae, brachia ejus delectabilia. In loquendo ponderans et gravis, et parcus loquela. Pulcherrimus vultu inter homines satos.” (R. Taylor, 1845, pp. 360-361).
D’altronde, anche la più nota versione “orientale” del Volto Santo, il Mandylion di Edessa (Mandylion, 2004), è nota nel Seicento ai pittori attivi in Occidente e nell’Urbe, come ben dimostra il dipinto con Cristo consegna il Mandylion al messaggero del Re Abgar (fig. 13), recentemente attribuito a Bartolomeo Mendozzi (M. Pulini, 2022, n. e fig. 91, pp. 141-143), probabilmente già nella collezione di Vincenzo Giustiniani e oggi nel Museo Diocesano di Ferentino
(la stessa iconografia che include il Mandylion è presente nel catalogo dei pittori seicenteschi Giovanni Battista Paggi ed Alessandro Tiarini; della celebre immagine edessena, che a differenza del Volto Santo è priva degli attributi connessi alla passione, ovvero la corona di spine ed il sangue, si conservava nel Seicento una copia in San Silvestro in Capite, trasferita in Vaticano nel 1870 ed oggi presso la Lipsanoteca dei Palazzi Pontifici: H. L. Kessler, Mandylion con cornice-reliquiario di Francesco Comi, in Il volto, 2000, scheda e fig. III.1, pp. 91, 78).
A tale proposito, è interessante ricordare che dalla stessa collezione Giustiniani provengono tre dipinti del Caroselli, un disperso “quadretto piccolo di San Matteo … ad imitation del Caravaggio”, il citato Figliol prodigo (vedi fig. 5) della Galleria Spada e il perduto Pigmalione e Galatea, già al Neues Palais von Sanssouci di Potsdam (inventario 1638; L. Salerno, 1960, III, n. 233, p. 146; Idem, II, nn. 99, 101, p. 97), a documentare i rapporti tra la nobile famiglia di origine genovese residente nell’Urbe e il pittore romano che, peraltro, riproduce spesso nei suoi dipinti rilievi e sculture dalla di loro raccolta di antichità, incisa nella celebre Galleria Giustiniana (post 1631).
Il fratello del marchese Vincenzo, poi, il cardinale Benedetto Giustiniani, deve prediligere l’iconografia della testa del Cristo, visto che al 1621 ha esposti nel suo studio sia
“un quadro con la testa di Christo resurgente dipinto in tela alto palmi 2 largo palmi 1 ½ in circa senza cornice di mano di Gioseppe Darpina”,
identificato con quello conservato a Potsdam (Neues Palais von Sanssouci) attribuito a Cesare Rossetti, sia un disperso
“quadro picciolo con la testa del Salvatore giovine con raggi di splendore dipinto in tavola si crede nella scuola del Correggio alto palmi 2 largo palmi 2 incirca con cornice intagliata e parte dorata”,
mentre nella camera da letto conserva un perduto
“quadro con la testa del Salvatore dipinto in tavola di mano di Raffael d’Urbino alto palmi 3 di scarza misura, e largo palmi 2 in circa con sua cornice dorata”,
tutte immagini del solo volto del Cristo o del suo mezzo busto, come lo sono anche le altre teste del Cristo della stessa raccolta oggi disperse in cui sono presenti gli attributi del dolore (Annibale Carracci; pittore “nel tempo del Pordenone”) (inventario 1638, già 1621; S. Pierguidi, 2011, pp. 121-133, in part. pp. 122-124; S. Danesi Squarzina, 2003, I, figg. 77, 81, 97, 87-88, 90 e relativi rimandi). Anche in ambito collezionistico romano, dunque, e proprio presso la nobile famiglia Giustiniani con la quale il Caroselli è in stretto contatto, l’icona sola del Cristo può essere fruita dal pittore.
Esempi pittorici, musivi e scultorei del Volto Santo sono presenti a Roma nel Medioevo e nel Rinascimento sia in Vaticano, per la cui basilica il Caroselli dipinge tra il 1627 e il 1631 il San Venceslao oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, che in San Giovanni in Laterano (M. Rossetti, 2015, scheda e fig. 27; per i diversi esempi: Il volto, 2000, pp. 39-52, 103-114 e relative schede; G. Morello, Il Salvatore del Bramante e le postille di padre Resta, in L’immagine, 2006, pp. 167-185; M. Falla Castelfranchi, Il “Mandylion” nel Mezzogiorno medioevale, in Intorno al Sacro Volto, 2007, pp. 187-208, in part. pp. 200-201, fig. 12), basilica, quest’ultima, ove il Caroselli riceve la cresima il 31 maggio 1594 (M. Rossetti, 2015, doc. 4, p. 498).
Diversi sono anche quelli incisi che devono circolare nell’Urbe, come la Santa Veronica con il Volto Santo tra i Santi Pietro e Paolo (fig. 14)
e il Volto Santo sorretto da due angeli in volo (fig. 15) di Albrecht Dürer
o il particolarissimo Volto Santo (fig. 16) di Claude Mellan (che lavora, peraltro, alla già citata Galleria Giustiniana) composto mediante un solo solco inciso spiraliforme ed ininterrotto (una sorta di “mandala” d’Occidente), invenzione virtuosistica cui fa riferimento l’iscrizione “Formatur unicus una / non alter”, formula che, in maniera tetravalente, riferisce sia dell’unica linea che dà forma all’immagine, che del figlio di Dio nato da Maria Vergine, sia della mano d’artista autrice dell’opera, che della mano di Dio che ha creato la Vera Icona (I. Lavin, Il Volto Santo di Claude Mellan. Ostendatque etiam quae occultet, in L’immagine, 2006, pp. 449-491; B. Jatta, Formatur unicus una. Il Volto Santo di Claude Mellan, in Visita, 2007, pp. 27-29).
La fissità iconica che caratterizza il volto del Cristo deriso di Gubbio dipinto da Angelo Caroselli riferisce dunque dell’acheropita “non fatta da mano umana”, che è ritratto, ovvero immagine delle fattezze del divino, ma anche reliquia, in quanto incorpora in sé il sacro generandosi dal contatto fisico con Cristo stesso e dunque è estensione e manifestazione del potere di Dio, presentificazione della divinità (E. von Dobschütz, 1899; A. Grabar, 1931; H. Belting, 1990, pp. 311-336; H. Belting, 2005, in part. pp. 117-132; Sacre impronte, 2011). Ed è con questi significati che tale fissità entra in rapporto con coloro che guardano e che così hanno possibilità di transito verso la dimensione dell’invisibile.
Postfazione
In chiusura del presente scritto ho riletto l’inventario dei beni del padre rigattiere del pittore, Achille Caroselli (m. 1608), da me pubblicato nel 2021 (M. Rossetti in L’Archivio, 2021, p. 323), e mi sono ricordata che nell’elenco dei quadri posseduti (e al tempo lo avevo anche messo in evidenza!: Ibidem, p. 311) è presente “una testina del uolto s. di abagaro”, ovvero il Mandylion, la testa di Cristo priva degli attributi della passione, se il compilatore dell’inventario è da intendersi preciso, come credo sia. Se tale notizia da una parte evidenzia una mia grave dimenticanza in questo contesto di studio – fermi restando tutti i confronti letterari e pittorici proposti – dall’altra dimostra che la fissità iconica del volto del Cristo dipinto dal Caroselli e il suo rapporto con il Volto Santo (la versione con gli attributi del dolore, “norma compassionis”, e con gli occhi rivolti a chi guarda) da me rilevati dalla sola osservazione dell’immagine corrispondono a verità. Il Caroselli la Vera Icona l’aveva – e prima fra tutte – in casa propria. In fin dei conti:
“da tempo le immagini [di Abgar e della Veronica] erano virtualmente interscambiabili, in quanto esprimevano la stessa idea, risalente al primo periodo dell’icona e destinata a sopravvivere lungo molte epoche e culture” (H. Belting, 1990, p. 333).
Marta ROSSETTI Roma 7 Luglio 2024
Bibliografia