di Mario URSINO
Sentii parlare per la prima volta di Alvar Gonzàles Palacios (Santiago de Cuba 1936) [figg. 1-2] molti anni fa, nel 1979, dal mio buon amico e cognato Giuseppe Mauri Mori (Napoli 1927- 1993), più anziano di me, quando io ero un giovane funzionario della Soprintendenza per i Beni Artistici ed Architettonici di Perugia, diretta da un indimenticabile studioso, Francesco Santi (Perugia 1914-1993), dal quale imparai i primi rudimenti del mestiere. Dicevo di Giuseppe Mauri Mori, paleografo e studioso di numismatica, che in quell’anno aveva curato la sezione Monete e Medaglie per la grande mostra Civiltà del ‘700 a Napoli, 1734-1799, che si tenne in più sedi, dal Museo di Capodimonte, al Palazzo Reale, al Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes, al Museo Nazionale di San Martino, al Museo Duca di Martina, e financo al Palazzo Reale di Caserta.
Un’esposizione enorme, dunque, con un ponderoso catalogo in due volumi [fig. 3], che includono studi e schede bibliografiche di eminenti studiosi italiani e internazionali, dallo stimatissimo Soprintendente Raffaello Causa (1923-1984), da Mario Praz, Anthony Blunt, Francis Haskell, Pierre Rosenberg, Oreste Ferrari, Fausto Zevi e una pletora di giovani studiosi a partire dal futuro soprintendente, dopo la prematura scomparsa di Causa, Nicola Spinosa, e naturalmente lui, Alvar González-Palacios, curatore di ben quattro sezioni della mostra: Mobili, Oggetti di curiosità, Ceroplastiche, Porcellane, ovvero l’ambito specialistico dei suoi studi che corrisponde più o meno genericamente alle “Arti Decorative”, settore in cui era già divenuto uno dei maggiori esperti internazionali. Benché tanta partecipazione nel lavoro di questa imponente esposizione, González- Palacios pubblicò, proprio nel giorno dell’inaugurazione della mostra, un corrosivo articolo, Diario di un organizzatore: Miseria e nobiltà della mostra del Settecento, sul “Il Giornale” di Montanelli, il 21 dicembre 1979, mettendo in evidenza la scarsa o nulla partecipazione economica da parte del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (nato pochi anni prima, nel 1975), per cui si era dovuto lavorare con ristrettezza di mezzi e adattamenti inadeguati: “Di un povero panno – egli scrisse – è il fondale dei gioielli e brillanti e zaffiri donati dai re al protettore del regno, Gennaro,Vescovo di Napoli…”e altre lamentele per mancati prestiti dal Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, dalle collezioni reali inglesi e persino dalla Regione Siciliana che rifiutò il prestito di un prezioso mobile, tra quelli fatti eseguire da Ferdinando IV, il più bello, in legno dorato, ametiste, lapislazzuli, conservato “assai malamente” nel Palazzo dei Normanni.
Nonostante ciò, l’autore di questo articolo de doléance conclude lo scritto dichiarando “da straniero” il suo amore per Napoli: “Vivere a Napoli è un’esperienza inimitabile; perché offre all’occhio e al cuore una nuova dimensione intellettuale e umana. Non potrei dire lo stesso di molte altre città”. Ma siamo nel 1979. Potrebbe l’insigne studioso dire oggi le stesse cose, ora che vive a Roma in Palazzo Caetani dagli inizi degli anni Novanta, come egli ci informa nel suo ultimo libro Solo ombre, stregato da tracce relitte degli antichi signori vissuti nell’appartamento scelto per sé, poiché era stato un tempo già dimora di Lelia Caetani di Sermoneta (1913-1977), sposata a Hubert Howard, “cortese, civile, inafferrabile…pieno di charme” imparentato con i duchi di Norfolk; Lelia Caetani è l’ultima discendente, un po’ triste, dell’illustre e storico casato, e pittrice dilettante, a mio avviso assai modesta, direi quasi naif, (si veda il suo Autoritratto del 1939, fig. 4), benché frequentatrice a Parigi di noti artisti contemporanei, tra i quali Balthus che ne fece il ritratto nel 1935 [fig. 5], oggi al Met di New York.
Tutta questa premessa per dire quanto mi abbia incuriosito la personalità di uno storico dell’arte straniero, venuto in Italia dall’Avana verso la metà degli anni Cinquanta per studiare a Firenze con Roberto Longhi, ed è così elegantemente padrone della nostra lingua, tanto che mi venne da chiedere a Giuseppe Mauri Mori, che lo aveva conosciuto, chi era questo signore cubano dal cognome di origine spagnola. E così. Il mio buon amico e cognato mi disse che González era un “raffinatissimo storico dell’arte, un po’ bassino, biondino, con barba e capelli un po’ radi”, e aggiunse che era già molto noto in ambito nazionale e internazionale, con una formidabile memoria visiva e una smisurata cultura che gli permetteva di collegare opere e puntuali ricerche filologiche, quasi sempre inesplorate, oltre a muoversi con straordinaria disinvoltura fra i grandi (del passato e del presente) storici dell’arte. Ho potuto in seguito constatare quanto tutto questo fosse vero, soprattutto dalla lettura dei suoi articoli che allora comparivano su “Il Giornale” di Montanelli, “Il Giornale dell’Arte” di Allemandi, e oggi su “Il Sole 24 Ore”; articoli che, devo ammettere con soddisfazione, quasi sempre conservo, e dai quali traggo sovente inedite notizie su fatti e personaggi del mondo dell’arte e del “mondo tout court”, articoli che González-Palacios ha poi riunito, prima nella raccolta Persona e maschera, collezionisti, antiquari, storici dell’arte, del 2014 [fig. 6], e poi in Solo ombre. Silhouettes storiche letterarie e mondane, del 2017 [fig. 7], entrambi editi dalle edizioni Archinto, e quest’ultimo presentato recentemente all’Accademia di San Luca, il 24 maggio scorso.
Emerge con molta chiarezza dai profili dei personaggi la sua singolare personalità in questi ricordi, che, egli scrive, “si intrecciano con la mia esistenza” al punto tale da affermare di “… aver sofferto di una vera ossessione provata dalle ombre di Berenson e Longhi”. E come potrebbe essere diversamente per un giovane studioso nella Firenze della metà degli anni Cinquanta che si muoveva tra le colline toscane dove erano site le dimore di quei mitici studiosi, Villa I Tatti di Berenson (1865-1959), a Settignano [fig. 8], e quella al di là dell’Arno, Il Tasso [fig. 9] di Roberto Longhi (1890-1970) e la più sontuosa Villa La Pietra [fig. 10] di Sir Harold Acton (1904-1994): “Sulla doppia porta del grande salone con immense finestre da cui si ammirava il giardino, ci attendeva il nostro ospite […]. Diventammo presto amici. Per me era un incanto assistere alle conversazioni (o piuttosto monologhi) in cui Harold dispiegava la sua vasta cultura.” (in Persona e maschera).
Sono tanti i personaggi visitati dall’autore nei due volumi sopra citati, esponenti di un mondo e di una società (delle lettere e non) scomparsa. Tra gli studiosi González ha incluso nei due libri il ricordo di Mario Praz (1896-1982) al quale io stesso ho dedicato, anche per ragioni di studio e lavoro, grande interesse: già da ragazzo leggevo gli eruditi “elzeviri”, che apparivano regolarmente su “Il Tempo” di Renato Angiolillo (allora sì un gran quotidiano), quando la “Terza Pagina” era realmente a pagina 3; altri tempi; per cui anch’io sento la grande “ombra” del famoso anglista di cui conservo molti articoli e quasi tutti i suoi libri. Della casa di Praz [fig. 11] (oggi Casa Museo Mario Praz dal 1995), del resto, ho avuto la più minuta conoscenza dopo la scomparsa del celebre studioso nel 1982, (memorabile in questa circostanza l’articolo commemorativo del González: Visse in odore di zolfo: “ Era un grande evocatore e aveva il dono di rendere nel bianco e nel nero della parola scritta tutti i colori e tutte le luci delle più vaghe atmosfere.” (in “Il Giornale”, 24 aprile 1982); la sua dimora fu presto visitata da ladri che sottrassero diversi oggetti (per lo più di piccolo formato, poi in buona parte ritrovati), per cui fui incaricato, insieme alla collega Alma Maria Tantillo, dalla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma, di fare il riscontro inventariale di tutti gli arredi e gli oggetti neoclassici conservati nel suo appartamento a Palazzo Primoli; per fortuna, disponevamo di un puntuale elenco fatto precedentemente dal noto antiquario romano, già allievo e poi amico del Praz, Fabrizio Apolloni; quest’ultimo è stato amico anche di González-Palacios, che lo ha affettuosamente ricordato alcuni anni fa nel suo articolo Un lascito al museo di Roma di Fabrizio Apolloni: un argento di Luigi Valadier (in Bollettino dei musei comunali, N.S. XXIII 2009, Roma 2011, pp. 141-143) e naturalmente in Persona e maschera, del 2014, Fabrizio Apolloni (1928-2006). È nell’incipit del profilo dell’antiquario González ricorda come avvenne il loro primo incontro: “Fu Hugh Honour a darmi nel 1963, come usava fare allora, due righe di presentazione per Fabrizio Apolloni: mi disse che lui era il solo mercante originale a Roma insieme ai fratelli Sestieri in Piazza di Spagna […] Il mio nuovo amico Apolloni non era ancora quarantenne e mi trattava come un fratello più piccolo anche se in realtà ero solo otto anni più giovane di lui. Aveva un dono raro, il gusto che per l’arte inizia sempre con l’esperienza letteraria. Non mi consigliava tanti volumi di Morazzone o i cataloghi di Ca’ Rezzonico o della Wallace Collection quanto le memorie di Casanova nell’edizione francese stampata in Germania, un racconto di Borges, un libricino di Sciascia. Tutto questo l’aveva imparato da Mario Praz di cui era stato allievo.” Anche qui, altri tempi, altro stile.
Ed è proprio nello “stile” il fascino della scrittura di Alvar González-Palacios che desta stupore (e curiosità) per la personalità di questo studioso di origine cubana, che scrive “in maniera apollinea”, come forse troppo enfaticamente è stata definita la sua prosa, che in realtà andrebbe individuata, a mio avviso, nelle sue stesse parole, che egli ha usato nel profilo di Henri Focillon (1891-1943) in Solo ombre: “Henri Focillon appartiene a questa stirpe di Giani bifronti. Diranno ancora che il suo dettato, leggero come una garza, polito come un marmo antico, sia in perfetta sintonia con il suo sapere”. Ora, se è vero che quando si scrive di qualcuno in fondo si parla anche di sé (egli lo ammette in questi sublimi ritratti di personaggi incontrati, o solo studiati), Alvar González-Palacios dà, a mio avviso, lui stesso la definizione della propria scrittura. Ed è appunto con questa levità narrativa, con la sprezzatura di un sottile mai apertamente dichiarato snobismo, che scorrono i nomi non solo degli eminenti studiosi, tra i tanti più sopra richiamati, ma anche quelli di regnanti (Ferdinando de’ Medici, Federico il Grande, Caterina II, Giorgio IV, espressione di avidi collezionisti), dei celebri studiosi citati più sopra e, in particolare, ho trovato di particolare interesse i ritratti di Kenneth Clark (1903-1983) e Geoffrey de Bellaigue (1931-2013), (già apparsi rispettivamente su “Il Sole-24 Ore” del 6-7-2014, e del 25-1-2013), oltre a famosi scrittori, due noti artisti contemporanei (Clerici e Basquiat) e compassati gentiluomini, nonché soavi aristocratiche da lui direttamente o indirettamente conosciute, attraverso le loro memorie, lettere, autobiografie e biografie, letture che il Nostro sembra proprio prediligere. Ed ecco come esse ci appaiono in Persona e maschera, e in Solo ombre: Hortense Serristori, Lelia Caetani, Violet Trefusis, Marcella Traballesi, Louise di Vilmorin, Cora Caetani, Elvina Pallavicini, Liliane de Rothschild, Nancy Mitford; e qui trascrivo la souplesse di qualche passo delle sue incantate frequentazioni: “Non abitavo più a Firenze, ma una sera mi ci trovai per caso e venni invitato ad un pranzo presso un’altra grande dame. Apparve Violet [fig. 12]. Vestita di veli di chiffon che andavano dal beige al mordoré, sinfonia cromatica che si dimostrò fatale; la faccia era diventata una maschera, laccata più che truccata, quasi di metallo, ma non esente da qualche nobiltà, quel certo grand air che la faceva sembrare ciò che non era, figlia di Edoardo VII, [qui l’autore allude al fatto che Violet Trefusis era la figlia di Lady Alice Keppel (1868-1947), nobildonna scozzese, amante di Edoardo VII, n.d.a.], insomma, un’apparizione che dette subito un tono irreale alla serata.” E, in un altro formidabile passo: “Andai a casa di Marcella Traballesi (così si chiamava il suo secondo marito) nel 1960, e rimasi sorpreso di quanto quell’interno, ormai messo insieme da qualche anno, fosse diverso dalle altre case italiane che conoscevo. Un’atmosfera ovattata, pigramente lussuosa, le pareti rivestite di lampassi variopinti, i grandi divani capitonné, l’oro delle suppellettili e del centro tavola, i profumi inebrianti, i cibi squisiti presentati ad arte su magnifici finimenti d’argento, (in mezzo ai quali svettava ancora la terrina che la vide nascere) tutto invitava al sorriso compiaciuto, come nelle grandi dimore dei tempi di Napoleone III. Essenziali erano le persone elegantemente bardate, i fiori, quel che si diceva e quel che si mangiava…(Eat Well Love Life, come dicono sinteticamente gli inglesi, ndA)
“E’ vero però – continua González-Palacios – che quegli amici si chiamavano Cora Caetani [fig. 14] e Charles de Beistegue [fig. 15 a sx nella foto] due trionfatori a Parigi”. Ma è prosa d’arte o supremo snobismo? Forse tutte due, nella fusione letteraria, evocativa per descrivere delle conversation pieces dell’ammaliante e privilegiata società del tempo che fu.
Eppure non mancano in queste dorate narrazioni, episodi di imbarazzante comicità che Alvar riporta con finezza e sottile umorismo, un po’, se vogliamo, alla maniera di un Gadda, quando ad un pranzo nella Villa di Harold Acton, un anziano ospite, Sir Osbert Sitwell, affetto da morbo di Parkinson, fece schizzare, per la mano tremante, nell’occhio del narrante uno di quei legumi, dei petit pois à la crème che si stavano consumando; oppure l’altro episodio in casa della sofisticata collezionista miliardaria, Jayne Wrightsman [figg. 16 – 17 con J. Kennedy] (oggi novantasettenne) a New York, quando un suo ospite, Gert Schiff (1926-1990), professore alla New York University “…studioso, stralunato, imprevedibile, geniale”, nel mentre di un’impeccabile conversazione “Ogni battuta misurata, né troppo né troppo poco, gli aggettivi ben scelti”, il professore emise un fragoroso starnuto e “il tovagliolo delicato trapunto d’oro viene gettato a terra macchiato irreparabilmente. Mrs Wrightsman sorrise in silenzio. Il caffè venne servito subito, in un’altra sala, e la sera finì prima del previsto”. E come giustamente gli aveva detto il suo maestro, Roberto Longhi, tempo addietro, ricorda Alvar González-Palacios: “Lo snobismo ha sempre il suo prezzo”.
di Mario URSINO Roma giugno 2017