di Francesco PETRUCCI*
Un paesaggio di Andrea Locatelli per il re di Spagna
*Per gentile concessione dell’editore e dell’autore pubblichiamo in anteprima il saggio di Francesco Petrucci tratto dal catalogo della mostra “Pienza e i Fiori 2018“
In ricordo di Andrea Busiri Vici
Il ritrovamento di un quadro inedito di Andrea Locatelli (Roma 1695-1741), proveniente dalla collezione dei Borbone di Spagna, caratterizzato da una maestosa e solenne apertura paesistica (fig. 25), offre l’opportunità di un aggiornamento sul pittore, sicuramente il massimo paesaggista attivo a Roma nel XVIII secolo, aggiungendo un significativo tassello alla sua produzione nel genere arcadico e bucolico.[1]
Quale necessaria premessa a questo saggio, mi corre l’obbligo di rendere un doveroso omaggio alla memoria dell’architetto, storico dell’arte e collezionista Andrea Busiri Vici d’Arcevia (Roma 1903-1989), autore nel 1976 della fondamentale monografia su Locatelli, che ha avuto il merito di fare luce su varie personalità artistiche dimenticate, qualificandosi in particolare come il più autorevole specialista e conoscitore della pittura di paesaggio del ‘700 romano. In questo ambito, senza le sue imprescindibili e pionieristiche monografie, tutte pubblicate con la casa editrice Ugo Bozzi, non si avrebbero punti di riferimento e dominerebbe la confusione attributiva che precedeva tali ricerche. Anche per Locatelli i suoi contributi critici rimangono insuperati, avendo fornito in maniera esaustiva tutte le coordinate di riferimento, in relazione ai rapporti con i suoi predecessori e l’influsso sui numerosi epigoni. Le successive acquisizioni non possono che limitarsi ad aggiornamenti del catalogo e ad apporti documentari, che tuttavia non aggiungono nulla alla sua circostanziata analisi stilistica. Nei suoi scritti si evince un entusiasmo, una partecipazione emotiva e una passione per gli artisti che studia, ben distante dall’approccio puramente filologico dei burocrati della storia dell’arte, come riscontriamo soprattutto in ambito accademico.[2]
Sebbene il suo cognome sia Lucatelli, tuttavia, per consuetudine, è in uso consolidato quello di Locatelli, come riportato nella monografia di Busiri Vici e così compare sul mercato artistico internazionale o in cataloghi di mostre da molti anni, anche in ragione della presunta origine bergamasca della famiglia, come è stato recentemente dimostrato per un suo probabile parente, il pittore Pietro Locatelli.[3]
Andrea Locatelli, nato a Trastevere il 19 dicembre 1695, secondo la testimonianza diretta di Nicola Pio, essendo “inclinato alla pittura hebbe i primi principij del disegno da Giovanni Francesco suo padre, persino all’età d’anni dodici, doppo andiede a studiare le marine di monsù Alto, con il quale stiede sino alla di lui morte”. Del misterioso “Monsù Alto” non conosciamo praticamente nulla e l’unico riferimento rimane ancora un prezioso articolo di Marco Chiarini, che rintracciò due sue marine nei depositi degli Uffizi, una delle quali con un vecchio cartellino identificativo, a conferma della piena attendibilità del biografo.[4]
A differenza di gran parte dei pittori di paesaggio e dei vedutisti attivi del ‘700, che spesso si servirono della collaborazione di figuristi nelle loro opere (da van Bloemen ad Anesi), Locatelli, come il rivale Gian Paolo Panini, ebbe un notevole talento nella rappresentazione della figura umana, dimostrando una conoscenza dell’anatomia e una formazione accademica, forse derivatagli dalla supposta parentela con il pittore Pietro Locatelli o dalla frequentazione della bottega del pittore Biagio Puccini (Roma 1675-1721), talentuoso esecutore di pale d’altare ed affreschi in chiese romane, come sosteneva il mecenate e collezionista fiorentino Nicolò Gaburri. L’esecuzione del proprio autoritratto, “fatto e delineato da se medesimo” per le Vite di Pio (fig. 1), conferma la sua attitudine di fisionomista e conoscitore della figura umana.[5]
Comunque, Pio ci informa che, successivamente
“col suo bell’ingegno e con il suo talento si pose a studiare da per se e marine e bambocciate, nelle quali ha avuto sempre genio. Onde per la sua assidua applicatione e con incessanti fatiche fatte nello studio, spiritoso pittore è comparso, come si vede nelli belli quadri fatti per il cardinal Alessandro Albani, come anco per il signore Giovanni B. Papi et altri signori”.
Il biografo ricorda, oltre alla partecipazione alla decorazione di Palazzo Ruspoli, “dove vi ha colorito marine e bellissimi paesi e figure”, il suo ingresso nell’esclusivo entourage del cardinale Pietro Ottoboni, senz’altro il più raffinato mecenate della Roma del primo ‘700, nel cui palazzo “vi ha dipinto alcune stanze dell’appartamento superiore, dove stava il principe D. Antonio, nelle quali ha fatto spiccare il suo sapere con paesi di somma vaghezza e con figure con somma grazia adattate”. Specifica inoltre che per il cardinale “ha fatto diversi quadri”, come hanno confermato gli inventari di casa Ottoboni pubblicati nel 2004.[6]
Pio conclude dicendo che l’artista “continuamente va operando per signori romani, inglesi, et altri forastieri. Attendendosi di lui anche maggiore aspettazione e progressi, essendo giovane di 28 anni e vive felicemente da maestro in Roma”.
Anche Gaburri afferma che
“le sue opere vengono ricercate con grande ansietà da tutte le parti, né mai capita signore o dilettante o Forestiero in Roma che non procuri di avere delle sue opere… Sono sue opere in Firenze nei Gabinetti dei Ss. Marchesi Parisi, dei Si Martelli e un numero ancora più grande trovasene in Inghilterra e in Germania come pure in Francia e in molti altri paesi dell’Europa”.
Gli studi di Paolo Coen sul mercato artistico romano, hanno confermato il successo internazionale del pittore, apprezzato da mercanti che chiedevano permessi di esportazione di sue opere, come Bonaventura Benucci, Antonio Borioni o Ludovico Mirri – il quale vantava “una nobile raccolta di 34 quadri tutti del celebre Lucatelli” che “non deve separarsi, ed unita si dà al prezzo di seicento zecchini” -, ma anche da antiquari ed agenti stranieri come Richard Crichton, Matthew Brettingham e Thomas Jenkins.[7]
Tra i suoi committenti, oltre quelli citati, ci furono i principi Colonna, che, nel 1783, possedevano, nel loro palazzo romano, addirittura ottanta suoi dipinti, i cardinali Neri Maria Corsini e Silvio Valenti Gonzaga, Filippo Bernulado Orsini duca di Gravina, i principi Borghese e i Rospigliosi (sebbene molte opere pervennero nella loro raccolta per eredità dei Colonna, nel XIX secolo), sovrani come Vittorio Amedeo II di Savoia, Filippo V e Carlo III di Borbone. Persino l’architetto Carlo Marchionni, nella sua raccolta, aveva circa venti suoi dipinti.[8]
Resta quindi abbastanza sconcertante apprendere, dalla didascalia aggiunta da Pier Leone Ghezzi alla sua caricatura dell’artista del 1728 (fig. 2), che questi morì di tubercolosi praticamente in condizioni di indigenza: “Il detto Lucatelli morì il di 20 Febraro 1741 in età di anni 48 ed è morto spiantato senza un Giulio et è lassato la moglie con molti figli miseramente et è morto di gettito di sangue”. Non troviamo altra spiegazione di questo suo presunto tracollo economico, sul quale sono state fatte varie ipotesi, se non in un qualche dissesto patrimoniale dovuto ad operazioni finanziarie azzardate.[9]
Andrea Locatelli secondo la testimonianza di Ghezzi ebbe anche ambizioni poetiche, come riportato nella scritta in calce alla citata caricatura: “A. Lucatelli famoso pittore di Paesi, ma pretende più in poesia che in dipingere. Ma nei paesi è valentuomo”. Attraverso il contatto con ambienti legati all’Accademia dell’Arcadia, dovette maturare convinzioni critiche di sostegno alla propria ispirazione artistica, in direzione di un concetto di equilibrio tra uomo e natura sotto il segno della vita agreste. Fu probabilmente determinante la frequentazione della corte del cardinale Ottoboni, di cui era esponente primario l’amico architetto Filippo Juvarra, per il cui tramite il nostro avrebbe ottenuto prestigiose commissioni.
Rossella Leone, al riguardo, scrive: “È verosimile che le immagini del L. siano state il frutto di una cultura complessa, corrispondente a precisi riferimenti letterari, filosofici e figurativi condivisi nei circoli arcadici dell’epoca, secondo l’idea di unità delle arti espressa dal verso oraziano ut pictura poësis. Di ciò potrebbero essere indizio le stesse aspirazioni letterarie del L., delle quali, benché non ne sia rimasta traccia, informa la didascalia apposta da P. L. Ghezzi alla caricatura del pittore eseguita nel 1728”.
Locatelli non fu un inventore di tipologie, ma seppe rielaborare e rinnovare, secondo la cultura arcadica e letteraria del proprio tempo, diversi generi paesistici sviluppatisi nel XVII secolo in ambiti culturali diversificati, talora antitetici. Lo fece con grande originalità ed inesauribile inventiva, senza mai ripetersi, spesso fondendoli tra loro in una stessa composizione.
Nel suo repertorio, Andrea Busiri Vici, preso atto della versatilità dell’artista, ma anche della oggettiva difficoltà di stabilire una cronologia precisa nella sua produzione, anche in ragione dei pochi punti fermi esistenti (opere documentate o datate), ha diviso il catalogo in cinque gruppi: pitture di reperti archeologici, pitture di marine, pittura della campagna laziale, scene di vita popolare e collaborazioni altrui in suoi paesaggi.
L’artista romano esordì come pittore di capricci architettonici con rovine antiche, sulla traccia del ruinismo rosiano di Giovanni Ghisolfi, approdando ad un linguaggio personale e innovativo che sembrerebbe precorrere Gian Paolo Panini, giunto a Roma attorno al 1711 (non nel 1715 come riteneva Busiri Vici), ove frequentò la bottega di Benedetto Luti per imparare a dipingere figure, sua iniziale ambizione. Non è facile esprimere un giudizio in merito al problema, risolto da Busiri Vici a vantaggio del romano, anche perché il catalogo giovanile di Panini è stato inficiato dall’attribuzione di opere che sono risultate essere invece di Alberto Carlieri.
La priorità di Locatelli sarebbe dimostrata comunque da varie tele, a partire dalla Composizione architettonica firmata, anteriore al 1710, caratterizzata da un pittoricismo che ricorda Jan de Momper, e varie opere più mature come la Scena classica con un obelisco, le coppie del Paesaggio fluviale con resti di Tempio Corinzio e Paesaggio con resti di antichità romane, della Scena pastorale presso una piramide con urna e della Scena arcadica, presso una fontana e un tempietto, eseguite attorno al 1720-25 (figg. 3, 4, 5).[10]
Sembra che il piacentino avesse assunto proprio dal romano quelle tinte “rossigne” di cui parla Luigi Lanzi in relazione al tentativo di “schivare le durezze del Viviani”, cioè Viviano Codazzi, in riferimento alle ossidazioni prodotte dagli agenti atmosferici sulle rovine di architetture classiche, sbrecciate e segnate dal tempo.[11]
In conseguenza del tirocinio giovanile presso Monsù Alto, sembra che Locatelli si fosse cimentato con successo in marine, sin dalle decorazione al piano terra di Palazzo Ruspoli, eseguite nel 1715 sotto la direzione di Domenico Paradisi ed in collaborazione con altri paesisti come Alessio De Marchis, autore di paesaggi e prospettive, e Francesco Borgognone, autore di scene di caccia, tutte purtroppo perdute. Lo ricorda Nicola Pio: “ha dipinto tutta una stanza che è la quinta del nobilissimo appartamento terreno del palazzo Caetani, hoggi del signor principe Ruspoli, dove vi ha colorito marine con bellissimi paesi e figure”.[12]
Il romano guardò soprattutto a Salvator Rosa, attraverso la mediazione di Jacob de Heusch e del maestro, il quale forse non a caso ebbe tra i suoi allievi anche quel Bernardino Fergione, la cui bottega fu frequentata da Adrien Manglard, affermatosi ben presto come il massimo specialista nelle vedute costiere. Tuttavia, nelle opere note di Locatelli, la marina è sempre un sfondo del paesaggio, mai fine a se stessa, come mostra, ad esempio, un dipinto inedito recentemente esposto a Cavallino di Lecce (fig. 6), se si esclude il Mare in tempesta presso una costa rocciosa, che sembra un unicum nella sua produzione.[13]
Rare sono invece le vedute vere e proprie, raffiguranti cioè luoghi reali, secondo un genere che ha avuto in Gaspar van Wittel un precursore, seguito da Hendrick van Lint ed in forma più libera da Paolo Anesi. Tra i pochi esempi, le due grandi vedute del Castello di Rivoli, commissionate dai Savoia nel 1725 per interessamento dell’architetto Filippo Juvarra, che coinvolse anche Panini e Marco Ricci (figg. 7, 8). Ad esse si aggiungono due rami con la Veduta del Tevere a ponte Rotto (Wiesbaden, Städtisches Museum) e la Veduta del Tevere a Castel Sant’Angelo (Roma, collezione Barbieri).[14]
Devono essere annoverati tra i suoi capolavori nel genere, i due pendant in rame provenienti probabilmente dalla collezione del principe Johann von Liechtenstein, raffiguranti la Veduta di Piazza Navona (fig. 9), firmata e datata 1733 (Vienna, Gemaldegalerie der Akademie der Bildenden Kunste), e la Veduta del Campo Vaccino (fig. 10), riemersa in asta da Christie’s a New Yok il 25 gennaio del 2012 (lotto 40), quando è stata aggiudicata per oltre un milione di dollari (olio su rame, cm. 73,7 x 94).[15]
Non doveva trattarsi però di casi isolati, se ulteriori versioni con tali soggetti furono esposte nel 1750 alla mostra annuale della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, presso il portico di Santa Maria ad Martyres, ove figuravano due vedute di Piazza Navona con il Mercato, appartenenti al cardinale Orsini e due vedute con Vendita del Bestiame a Campo Vaccino, del cardinale Carlo Maria Sacripanti.[16]
In questi dipinti, come nei paesaggi puri, emerge un gusto popolaresco, un interesse selettivo e direi esclusivo verso il mondo degli umili, volto più alla rappresentazione della plebe che dei ceti altolocati, come invece fece Panini, indirizzato ad esaltare la grandiosità del gran teatro della Roma settecentesca.[17]
Sappiamo che nel 1726 il cardinale spoletino Carlo Collicola, tesoriere e amministratore del feudo di San Felice, commissionò al pittore tre vedute del Circeo che illustrassero i lavori di risanamento e bonifica da lui promossi presso Torre Paola e il lago vicino. Di questi dipinti, considerati perduti dalla bibliografia, posso segnalare una Veduta del Circeo presso Torre Paola già esposta dalla Walpole Gallery di Londra, sicuramente da mettere in relazione con la serie (fig. 11). Essa si identifica con la veduta di Torre Paola, moli dell’imbocco e canale con le nuove fabbriche fino alle cateratte, citata in una lettera del 19 gennaio 1726 indirizzata dal cardinale al soprintendente Michele Orlandi, ove veniva modificato l’incarico precedente (lettera del 5 gennaio) a causa del brutto tempo che aveva impedito di effettuare le riprese dal mare. Locatelli lavorò quindi di fantasia, creando una veduta a volo d’uccello dall’alto, da un punto di vista immaginario, dimostrando anche un’attitudine di prospettico.[18]
L’artista romano, che fu un ottimo figurista, rivitalizzò in termini innovativi anche un genere snobbato dalla pittura accademica del secolo precedente, quello delle “bambocciate”, secondo una tradizione portata in auge da artisti nordici, olandesi e fiamminghi attivi a Roma nella prima metà del ‘600, come Pieter Van laer, Jan Miel, Johannes Lingelbach, ma anche Michelangelo Cerquozzi. Busiri Vici individuava nella citata Veduta di piazza Navona del 1733, un esempio eclatante di tale ripresa, nel descrittivismo attento al multiforme spettacolo di vita romana. Quattro scenette di carattere paesistico pastorale provenienti dalla collezione di Fabio Rosa, confluite dal ‘700 nelle raccolte dell’Accademia Nazionale di San Luca, risentirebbero, secondo lo studioso, dei soggetti popolari di Giuseppe Maria Crespi, secondo un genere assai apprezzato dai collezionisti stranieri.[19]
Ma è soprattutto in dipinti a tema popolaresco, con figure in primo piano di fronte a locande e stamberghe, tra scorci della campagna romana, che tale genere trova le sue espressioni più vistose, come la Famiglia in riposo davanti una locanda, e la buona ventura, la Scena paesana con danza rustica, fino al Saltarello del museo di Praga, firmato e datato 1741, proprio alla fine della sua carriera, che sembra un Cerquozzi del ‘700 (figg. 12, 13, 14). In questa sua produzione Locatelli influenzò Paolo Monaldi, che fu un suo continuatore.[20]
Realizzò anche numerosi dipinti in piccolo formato, generalmente a sviluppo verticale, “in stile rosiano”, raffiguranti gruppi di armigeri, tra aspre rocce ed alberi contorti, chiaramente ispirati ai modi di Salvator Rosa, il cui influsso torna anche in sue composizioni più individuali a dominante paesistica come il Paesaggio con borghi, ruderi, lago e figure esposto a Tivoli nel 2009 (fig. 15), ma fu anche valente “animalista”, sulla scia degli esempi di Rosa da Tivoli e Pieter van Bloemen.[21]
Nonostante Locatelli potesse vantare un riconosciuto talento come pittore di figura, ci sono anche suoi paesaggi in cui le parti animate vennero eseguite da figuristi come Pierre Subleyras, Pompeo Batoni o il meno noto Giuseppe Tomasi, in alcune tele della collezione Colonna, ma anche Ludovico Stern in due opere perdute per i Corsini. Busiri Vici ha sviluppato un capitolo della sua monografia dedicato a tali collaborazioni, molte delle quali rimaste anonime.[22]
Un gusto decorativo e ornamentale emerge nei pannelli con paesaggi che illustrano un armadio di provenienza Rospigliosi e le ante di tre porte raffiguranti boscarecce in Palazzo Corsini a Roma. Enzo Borsellino ha potuto dimostrare, invece, che non spettano all’artista, ma a Pietro Piazza, allievo di Panini, i pannelli delle tre porte con capricci architettonici, pubblicati come autografi da Busiri Vici (che all’epoca non poteva conoscere questi documenti), e, tuttavia, recentemente ancora da Giancarlo Sestieri. Borsellino ha infatti pubblicato i pagamenti a Locatelli e Piazza per tale intervento, eseguito nel 1738 su commissione del cardinale Neri Maria Corsini per il suo appartamento, mentre oggi le porte decorano la galleria nella sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica nello stesso palazzo. Busiri Vici, non a caso, faceva notare la maggiore qualità dei pannelli con paesaggi, ma a sua ulteriore giustificazione posso aggiungere che, a mio avviso, sono da riferire a Locatelli anche le figure nelle parti con capricci architettonici (figg. 16, 17).[23]
Il genere in cui Locatelli eccelleva fu tuttavia quello del “paesaggio arcadico”, mostrando una cultura composita ed eclettica, avente come riferimento non solo la vasta produzione di Frans van Bloemen (Anversa 1662 – Roma 1749), più anziano di lui di oltre trent’anni, quasi un rivale e una sorta di contraltare, sebbene in forme espressive diverse, ma anche maestri del secolo precedente, nel filone del paesaggio ideale, come Domenichino e Giovan Francesco Grimaldi, del paesaggio naturale, come Gaspar Dughet, Francesco Cozza o Pietro Mulier detto “il Tempesta”. Secondo Busiri Vici, i contatti con Francesco Trevisani e Michele Rocca fecero volgere la sua ispirazione verso il rococò, sebbene, nelle opere più avanzate, Locatelli mostri un classicismo idealizzante.[24]
Tuttavia, mentre van Bloemen, senza’altro raffinato e piacevole nelle impaginazioni, felice nel tocco pittorico effettivamente rococò, attuò sostanzialmente una trasposizione in chiave settecentesca delle invenzioni di Dughet, ripetendone schemi compositivi e tipologie, talora al limite del plagio, con pose stereotipate di piccole figure vestite all’antica (nei risultati migliori delegate a specialisti, come Placido Costanzi), Locatelli si qualificò come il vero erede del maestro franco-italiano.
Nei suoi quadri c’è una varietà di scorci e di impaginazioni, una commistione di generi, una capacità di disporre le figure su piani diversi di profondità, stanti o in movimento, in varietà di attitudini, che lo pone ad un superiore livello rispetto al fiammingo. Effettivamente Locatelli, essendo un artista completo, fece assumere spesso alle scene popolari e bibliche descritte nelle sue opere, un ruolo protagonistico rispetto all’ambientazione, senza trascurare anche gli animali e gli elementi naturali composti con estrema libertà.[25]
Due capisaldi come il Paesaggio lacustre con Arco Romano, databile attorno al 1720-25, in cui c’è la commistione tra capriccio con rovine e paesaggio agreste, e il Paesaggio nella campagna con lavandaie presso una fontana, siglato e datato 1725, inaugurano la stagione del filone paesistico locatelliano di stampo classico (figg. 18, 19).[26]
La fase più idealizzante del paesaggio arcadico è ben rappresentata dalla coppia di tele verticali, databili attorno al 1730-35, esposte alla mostra sul ‘700 romano tenuta a Houston nel 2000, caratterizzate da una levigatezza della pittura, una luminosità ed un nitore formale da costituire quasi un parallelo paesistico della pittura di Pompeo Batoni (figg. 20, 21).[27]
Nella sua instancabile vena sperimentale, in alcuni paesaggi ragionevolmente concepiti in coppia, Locatelli contrappone all’atmosfera idilliaca e serena delle vedute diurne o crepuscolari, il repentino variare degli eventi atmosferici, la tempesta e la bufera, denunciando una particolare attenzione alla fenomenologia naturale, trasferendo all’osservatore il turbamento emotivo dei personaggi che animano le scene, come nello splendido Paesaggio nel Lazio con la vista del Soratte ed il temporale che fa da pendant al Paesaggio laziale in vista del mare con l’arcobaleno o l’inedito Paesaggio tempestoso con pastori e il Tempio di Vesta di Tivoli (figg. 22, 23, 24).[28]
Il dipinto oggetto di questo studio, raffigurante un Paesaggio laziale con veduta fantastica del tempio di Vesta a Tivoli, pastori e armenti in primo piano (olio su tela, cm. 74 x 136), databile al 1735 circa, reca sul retro, ben leggibile, il sigillo in ceralacca della casa reale dei Borbone di Spagna e Borbone di Napoli e Sicilia, il cui capostipite fu Carlo di Borbone (1716-1788) conosciuto come Carlo III di Spagna (figg. 25, 26). Il sigillo mostra l’unione dei due stemmi relativi al regno di Napoli e Sicilia a sinistra e del regno di Spagna a destra.
L’unica commissione documentata di Locatelli per i Borbone è quella di due sovrapporte, ottenuta per intercessione di Filippo Juvarra, nel 1735, per il Palazzo Reale della Granja de San Ildefonso presso Segovia, fatto costruire dal padre di Carlo III, Filippo V, tra il 1721 e il 1739, come si evince da una lettera di Locatelli a Juvarra, datata 19 ottobre 1735.[29]
La pubblicazione, nel 2004, degli inventari reali di Filippo V ed Isabella Farnese, dimostra che i due dipinti non erano per la “stanza cinese” della residenza reale, come riteneva Busiri Vici, ma per la “camera da letto” del re ed illustravano soggetti religiosi, ispirati a scene della “Vita di Cristo”. Facevano infatti parte di un ciclo di sei tele eseguite in collaborazione con Gian Paolo Panini, che dipinse quattro quadri verticali con cornici mistilinee per le pareti, ancora esistenti, mentre Locatelli si occupò dei due sovrapporta.[30]
L’inventario del 1746 della dimora, registra “Dos Pinturas figura regular, de mano de Lucateli, que rep.tan La una Ntrô S.or en el Desierto, quando los Ang.es le subministrauan el alimento. La otra la Samaritana; y estan colocadas encima de las Puertas del Dormitorio antig.o Tienen à quatro pies de alto, y seis y me.o de ancho. Marcos dorados Tallados de tres ordenes…”. Una simile descrizione torna nell’inventario del 1794 ed i quadri fanno parte del Patrimonio Nacional (inv. 10025536, inv. 10025537).[31]
Il presente dipinto, anch’esso per dimensioni e formato evidentemente nato con funzione di sovrapporta, ma assente negli inventari di Filippo V, fu invece commissionato probabilmente da Carlo di Borbone, che una volta salito al trono di Spagna nel 1759 fece apporre il proprio sigillo al retro della tela. Un disegno che presenta nell’impaginazione familiarità con la composizione in esame, si trova presso il Museum Kunst Palast di Düsseldorf.[32]
Quest’opera è un’ulteriore dimostrazione della creatività di Locatelli nel genere figurativo pastorale, di cui fu maestro insuperato. La grandiosità della veduta panoramica, sebbene di pura fantasia, anticipa Jakob Philipp Hackert, esprimendo una concezione del paesaggio che considera ancora possibile l’armonia tra opera dell’uomo e natura, prima che tale rapporto si incrini con Piranesi quale preludio al romanticismo.
La scena descrive la quiete contemplativa di un fine giornata campestre, in un’atmosfera crepuscolare rasserenata, con un tramonto che ha la tonalità sbiancata di un’alba. Gli alberi sulla destra e le rocce sulla sinistra formano le quinte di uno spazio scenico che esalta il paesaggio laziale, sulla costa tirrenica, tra piccoli borghi arroccati e fortificati, rovine di vestigia classiche – il richiamo al Tempio di Vesta a Tivoli, che dopo Piranesi diverrà molto ricorrente nella pittura di paesaggio –, un bacino lacustre e un fiume con cascata, le montagne che degradano verso la pianura, forse verso un tratto di costa marina. In primo piano pastori in movimento in opposte direzioni, che tornano a casa dopo la giornata di lavoro, con un gregge di pecore, un uomo e una donna a cavallo a destra ed armenti sullo sfondo, mentre un pastore vestito all’antica, che sembra salutare, si incammina verso il riguardante.
L’apertura a distanza e la dilatazione orizzontale, pur se pertinenti ad un concetto eminentemente idealizzante del paesaggio laziale, sembrano anticipare le poetiche romantiche del sublime e del pittoresco, indirizzate a cogliere la varietà degli elementi e il senso di spazi infiniti.
Termini di confronto sono la coppia di provenienza Rospigliosi, formata da un Paesaggio collinoso con un castello e un Paesaggio laziale in vista del mare, con cascata, aventi un’apertura paesistica in profondità, figure in primo piano e il “viaggio” di pastori e armenti attorno all’immancabile cavallo bianco; ma anche lo splendido Paesaggio laziale con pastori e armenti in un bosco, ove la meticolosa e realistica descrizione delle folte chiome delle alberature in primo piano, precorre un crescente interesse verso la vegetazione, che culmina nella coppia di tele verticali che Busiri Vici segnalava nel Milwaukee Art Museum, Wisconsin (forse confondendole con altre due simili oggi in quel museo), aventi come protagonisti proprio gli alberi, in anticipo ancora su Hackert e molta pittura del XIX secolo (figg. 27, 28, 29, 30). [33]
Le atmosfere sentimentali e idilliache di questi dipinti sono descritte con accento nostalgico da Busiri Vici: “Nei quadri di Locatelli rivediamo un ambiente quale gli occhi della nostra prima gioventù ebbe la ventura di vedere quando si andava errando nelle cacciate di autunno o di primavera, quella campagna ‘la più bella del mondo’ che non può più apparire tale alle nuove generazioni, e che comunque tutti possiamo ‘vedere’ nella naturalistica di Dughet, di van Bloemen e di Locatelli e che può però ancora vedersi oggi percorrendo l’autostrada verso l’Aquila”.[34]
NOTE