di Nica FIORI
Dalle fonti letterarie e dai resti archeologici sappiamo che nell’antica Roma era consuetudine che i cittadini più ricchi facessero costruire per il loro diletto dei giardini (horti) abilmente disposti su più livelli raccordati da scalinate, animati spesso da fontane monumentali variamente articolate nei loro giochi d’acqua e decorati con i migliori esempi di sculture e di rilievi. Quando, nel XVI secolo, Roma assunse quella posizione di preminenza in campo artistico, che nel secolo precedente era stata di Firenze, i papi, gli alti prelati della corte pontificia e le famiglie nobili fecero a gara per far rivivere nelle loro ville i luoghi di delizie che erano stati gli antichi horti. Ai Farnese, in particolare, si devono gli Horti Farnesiani, che tuttora caratterizzano il paesaggio del Palatino.
Rivitalizzare gli ambienti degli Orti Farnesiani ricreando le atmosfere del ‘500 e del ‘600 è l’idea alla base della mostra “Splendori Farnesiani. Il Ninfeo della Pioggia ritrovato”, che conclude il programma di attività ed eventi di valorizzazione pensato dal Parco archeologico del Colosseo, iniziato alla fine dello scorso ottobre con la riapertura al pubblico del Ninfeo della Pioggia, un ambiente di grande suggestione ispirato agli esempi dell’antichità.
La mostra, a cura di Alfonsina Russo, Roberta Alteri e Alessio De Cristofaro, è stata inaugurata il 12 dicembre 2023, lo stesso giorno in cui è stata diffusa la notizia del ritrovamento, nello stesso Parco, di una domus che ha restituito una parete con uno straordinario mosaico rustico, quindi in tema con i ninfei che caratterizzavano i giardini del mondo antico.
Volendo inquadrare storicamente il complesso degli Orti Farnesiani, va detto che durante i secoli del Medioevo anche il Foro Romano non era sfuggito al generale abbandono della città e le sue ampie distese di verde erano spesso utilizzate come pascolo per gli animali. Della via Sacra, la strada dei cortei trionfali che attraversava il Foro in tutta la sua lunghezza, rimaneva però evidente l’antico tracciato. Sul suo lato destro, alle pendici del Palatino e su parte della sommità del colle il cardinale Alessandro Farnese (nipote del pontefice Paolo III), proprietario dei relativi terreni, affidò al Vignola, nella seconda metà del ‘500, l’incarico di una loro sistemazione scenografica su più livelli sfruttando la suggestione dei ruderi romani. Il progetto fu proseguito dal fratello del cardinale, il duca Ottavio, e successivamente da altri membri della stessa famiglia.
Il Ninfeo, in forma di grotta ombrosa, venne ricavato ai primi del Seicento sul pendio settentrionale del Palatino, per volere del cardinale Odoardo Farnese, che lo utilizzava come triclinio estivo. Essendo il cardinale un colto e raffinato collezionista, questo ambiente era arricchito da una collezione di marmi antichi, tra i quali sono ancora in loco due statue di Apollo e due di Ninfe. Fu, però, solo dopo la morte del cardinale (nel 1626) che l’ambiente venne trasformato in modo spettacolare. L’omonimo nipote ed erede Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza, in occasione delle nozze con Margherita de’ Medici (1628), incaricò l’architetto Girolamo Rainaldi di ristrutturare gli Orti Farnesiani con un’architettura che emulasse i fasti e la potenza della Roma imperiale. Nella grotta venne realizzata l’imponente “Fontana della Pioggia” arricchita da finte stalattiti e da sette tazze lapidee i cui zampilli, riversandosi nel bacino inferiore, simulavano la vista e il suono di un vivace rovescio d’acqua. Il recente restauro dell’ambiente permette ora di ammirare anche la sua decorazione pittorica eseguita da Giovan Battista Magni, detto il Modanino (1591/92-1674), in particolare la volta con l’illusione visiva di una balaustra, dalla quale si affacciano dei personaggi in atto di suonare strumenti musicali. Il Ninfeo divenne così uno spazio dal carattere tipicamente barocco, destinato a feste e svaghi.
Salendo a un livello superiore si può ammirare una costruzione con un’altra fontana di stile rustico, ricoperta di capelvenere e altre piante acquatiche, con una grande nicchia fiancheggiata da altre due più piccole. Si tratta del “Teatro del Fontanone”, anch’esso ristrutturato da Rainaldi. Da qui due suggestive rampe di scale salgono fino alle Uccelliere dell’ultimo ripiano, due padiglioni ad arcate separati da una terrazza panoramica. A questo livello si estendono i giardini veri e propri. La ricchezza di piante rare ed esotiche ne faceva un tempo un piccolo orto botanico e proprio in questo senso è stata ripristinata una parte del giardino dall’architetto Gabriella Strano, che si è basata sul libro-catalogo delle piante di Tobia Aldini, che fu medico del cardinale Odoardo Farnese e prefetto degli Horti Palatini Farnesiorum.
Il giardino è stato usato anche come scena teatrale dagli Arcadi, che in questi Orti vennero ospitati dal duca di Parma Ranuccio Farnese verso la fine del XVII secolo, prima di avere una sede definitiva nel Bosco Parrasio del Gianicolo.
Come ha dichiarato Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo:
“Ricostruire in modo filologico e raccontare l’effimero e il patrimonio immateriale di un’epoca conclusa non è mai semplice. È sempre necessario un attento lavoro di ricerca che metta insieme i documenti, i testi, i monumenti e gli oggetti che di una data epoca costituiscono testimonianza storica. Poi bisogna affrontare la sfida del racconto, in forme che devono essere accessibili e comprensibili a tutti, senza però semplificare o banalizzare. In questo, il PArCo investe molto in innovazione, grazie alla sperimentazione e all’uso del multimediale e delle tecniche dello storytelling”.
Roberta Alteri ha aggiunto da parte sua che
“La scelta di allestire le opere nel Ninfeo della Pioggia e nelle Uccelliere restituisce il senso e le funzioni originarie di questi spazi, oggi non facili da percepire per il visitatore”.
Mentre il Ninfeo era un luogo concepito per ospitare feste, concerti e performances teatrali, le Uccelliere accoglievano uccelli esotici e ed erano quindi
“una sorta di microcosmo dei mondi lontani ed allora da poco esplorati e conosciuti”.
La prima sezione espositiva è ospitata nel Ninfeo e racconta gli usi effimeri di questo spazio, come i concerti, evocati da alcuni strumenti musicali dell’epoca – gli stessi raffigurati nell’affresco della volta – prestati dal Museo degli strumenti musicali di Roma, mentre altri oggetti, tra cui piatti cinquecenteschi a “raffaellesche” in maiolica dipinta, una preziosa brocchetta con sirena, una coppa in cristallo di rocca con la raffigurazione di Leda (appartenenti alla Collezione Farnese conservata nel Museo di Capodimonte di Napoli), evidenziano il lusso delle stoviglie da banchetto.
Salendo al livello superiore del complesso farnesiano, la mostra prosegue nella Uccelliera di destra, dove alcune tele ci presentano i protagonisti degli splendori farnesiani, in particolare Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, Margherita Aldobrandini, che sposò il duca Ranuccio e che nel 1626 divenne unica reggente del ducato, il cardinale Odoardo Farnese (ritratto dal Domenichino con sullo sfondo Trastevere e il Gianicolo), Paolo III Farnese (copia da Tiziano), e sempre da Tiziano è una copia del XVIII secolo della Danae: un bellissimo dipinto nel quale la pioggia d’oro (in realtà una delle tante trasformazioni di Zeus per accoppiarsi con le donne delle quali s’invaghiva) sembra alludere proprio ai fasti della famiglia ducale.
Alcuni documenti grafici testimoniano l’origine antica degli horti, come l’incisione di Giovanni Battista Piranesi raffigurante la Grotta di Egeria, un ninfeo del II secolo d.C., situato nella valle della Caffarella, il cui nome ricorda la leggendaria ninfa amante e consigliera di Numa Pompilio. Troviamo in mostra il libro-catalogo di piante dell’Aldini (1625), in originale e in versione digitale sfogliabile, e un rarissimo disegno di Pier Leone Ghezzi, del tutto inedito, che racconta l’Arcadia nei pochi anni in cui gli Orti ospitarono l’omonima Accademia di poeti che si ispiravano alla presunta semplicità degli antichi pastori greci.
Nell’Uccelliera di sinistra, oltre a una vetrina con due statuette bronzee di uccelli (scuola di Bartolomeo Ammannati) e a un vestito femminile, è stata realizzata un’installazione multimediale che consente l’immersione in una Wunderkammer, antenata dei nostri musei. “La Wunderkammer, o Camera delle meraviglie, è la quintessenza della mentalità e della visione aristocratica del mondo nel XVI e XVII secolo. – ha spiegato Alessio De Cristofaro – In essa oggetti del mondo naturale, archeologici, strumenti scientifici, fossili e curiosità sono accostati per analogia e connessione metaforica a ricostruire una mappa mentale del cosmo. L’allestimento multimediale però non ne è una ricostruzione precisa, quanto uno strumento che vuole suscitare nel visitatore quei sentimenti di curiosità, stupore, meraviglia e attrazione per l’esotico e l’insolito che furono tipici dell’epoca”.
In effetti, attraverso musiche e immagini fantasmagoriche che raccontano gli interessi per le curiosità della scienza, il visitatore è invitato a stupirsi, rifacendosi a quanto scriveva all’epoca il più grande poeta barocco Giovambattista Marino: “È del poeta il fin la meraviglia / parlo dell’eccellente, e non del goffo: / chi non sa far stupir, vada alla striglia”.
Questa tendenza del barocco si rivela, oltre che nelle camere delle meraviglie, nella decorazione arborea e vegetale in genere, che per sua natura può essere più agevolmente modellata.
Ancora una volta è il mondo classico a fornire il modello per tale trasformazione con la valorizzazione dell’ars topiaria, ossia le regole e le tecniche di tagliare le siepi e le fronde in modo da formare motivi ornamentali che si inseriscano nel progetto architettonico di insieme, assumendo forme sempre più bizzarre e ricche di virtuosismi, come il labirinto; contemporaneamente nei giardini si diffonde l’uso di chioschi, padiglioni, pergolati, serre per le piante rare e spazi più appartati riservati esclusivamente al proprietario.
Appena usciti dalle uccelliere, il percorso espositivo prosegue nel giardino di piante farnesiane, riprodotto filologicamente. Tra le piante esotiche mi piace ricordare la Passiflora, introdotta dall’America Latina in Europa dai missionari gesuiti, il cui fiore certamente doveva aver colpito il cardinale Odoardo perché mirabilmente rappresentava, con i suoi elementi, la corona di spine, i tre chiodi e le cinque piaghe del corpo di Cristo. Un forte simbolo religioso, quindi, che spinse lo storico religioso Giacomo Bosio nel 1610 a dichiarare nel suo Trattato sulla Crocifissione di Nostro Signore:
“Non credo che fiore alcuno, né più maraviglioso, né più stupendo si sia veduto, né vedere si possa mai”.
La mostra, che si avvale del prestito e della collaborazione di importanti istituzioni museali nazionali pubbliche e private, sarà aperta e visitabile fino al 7 aprile del 2024 tutti i giorni, ad esclusione delle domeniche gratuite, con orario 9.00-16.00 (ultimo ingresso 15.45).
Nica FIORI Roma 17 Dicembre 2023