di Nica FIORI
In base a una normativa che risale al 1909, tutto ciò che si trova nel sottosuolo italiano appartiene allo Stato, ma il fascino dei reperti antichi è tale da attirare i collezionisti a sborsare qualunque cifra pur di averli.
Lo sanno bene i cosiddetti tombaroli che sui rinvenimenti illeciti hanno fatto la loro fortuna. Purtroppo gli scavi clandestini, oltre a privare lo Stato di suoi beni, creano danni irreparabili dal punto di vista storico-scientifico-culturale perché gli oggetti vengono asportati malamente e, anche se talvolta ritornano, sono ormai sradicati dal loro contesto di origine.
È grazie all’intervento dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale (TPC) che i reperti relativi al cosiddetto “Carro di Eretum” sono stati restituiti all’Italia, nel 2016, da un importante museo danese e ora vengono esposti dopo un accurato restauro a Rieti, nella mostra “Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum”, ospitata negli spazi della Fondazione Varrone a Palazzo Dosi Delfini dall’8 maggio al 10 ottobre 2021.
Curatori della mostra sono Alessandro Betori, Francesca Licordari e la Soprintendente della Sabap per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti Paola Refice. L’allestimento è di Daniele Carfagna, autore anche dell’originale accompagnamento musicale.
La scelta di fare questa esposizione a Rieti, prima della collocazione definitiva dei reperti nel Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina, è dovuta al fatto che il carro era stato asportato a suo tempo proprio da una necropoli della città sabina di Eretum, che sorgeva nella Valle del Tevere (ora nel territorio di Montelibretti) e la mostra è l’occasione per evidenziare la cultura e la ricchezza dell’antica Sabina, della quale Rieti costituisce il capoluogo, essendo allo stesso tempo anche umbilicus Italiae per via della sua posizione al centro della penisola italiana.
Fu nel 1970 che la tomba XI della necropoli di Colle del Forno venne scoperta casualmente da tombaroli e i reperti più belli provenienti dallo scavo illecito furono portati all’estero dal noto trafficante Giacomo Medici, che li conservò nel porto franco di Ginevra in attesa di trovare l’acquirente giusto.
Non essendoci all’epoca in Danimarca impedimenti per l’acquisizione di reperti archeologici di incerta provenienza, i preziosi materiali bronzei, che erano stati nel frattempo fortemente ripuliti tanto da ingenerare l’impressione che fossero dorati, furono acquistati, tramite un intermediario, dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen per una cifra altissima (ca. 1.265.000 franchi svizzeri); per questo motivo il museo danese, quando l’Italia richiese i reperti, dimostrando che erano stati portati all’estero illegalmente, non voleva restituirli e ci sono voluti anni e anni di trattative.
I reperti furono esposti dal 2006 come pertinenti a un unico carro, in occasione del nuovo allestimento della collezione etrusca del museo danese, al quale collaborarono archeologi italiani del CNR. Lo stesso CNR aveva scavato nella necropoli di Colle del Forno e nella tomba XI aveva trovato nel 1972-73 i segni del precedente scavo clandestino e i resti di altri manufatti, che sono stati sistemati nel museo di Fara in Sabina, corrispondente all’antica Cures.
Per fare un po’ di chiarezza, ricordiamo che questi reperti, anche se ospitati in un museo civico, appartengono per legge allo Stato. Anche i privati possono accogliere nelle proprie case reperti archeologici ritrovati dopo il 1909, ma con il beneplacito dello Stato (che rimane il legale possessore), mentre sono di proprietà privata tutti i beni acquisiti prima della legge del 1909.
La ricostruzione del Carro di Eretum proposta a Copenaghen non era completamente valida, in quanto teneva conto solo del carro da passeggio (calesse), mentre in realtà i carri erano due: un calesse e un carro da guerra (currus).
Il progetto espositivo della mostra di Rieti è certamente più scientifico del precedente, perché propone una nuova lettura dell’intera Tomba XI ricomponendo per la prima volta i pezzi restituiti dalla Ny Carlsberg Glyptotek con i materiali conservati nel museo di Fara in Sabina.
Nella tomba XI, già utilizzata da una donna, era stato sepolto nell’ultimo quarto del VII secolo a.C. un personaggio di alto rango, oggi diremmo un principe, che volle nel suo corredo due carri di altissima fattura, attribuibili ad artigiani ceretani, ovvero della città etrusca di Caere (Cerveteri), la cui fama nella lavorazione del bronzo giungeva fino ad Atene. Ma oltre a questi preziosi status symbol, che ci incantano a distanza di più di 26 secoli dalla loro realizzazione per la decorazione a sbalzo delle lamine con animali veri e fantastici, nella tomba c’erano anche altri oggetti.
Secondo un rituale eroico, insolito in quest’area della Sabina, egli venne incinerato e i suoi resti raccolti in una cassetta rivestita di lamine di bronzo decorato a sbalzo, di fattura simile a quelle delle lamine del calesse, delle due bardature del capo dei cavalli (protometopidia) e dei pettorali dei cavalli (prosternidia). All’armamento del principe appartenevano una spada in ferro, una punta di giavellotto e un elmo di bronzo, che, rifiutato dal museo danese, era stato venduto a Magonza (in Germania). Il corredo inoltre comprendeva un prezioso pendente ellittico di argento a cartiglio mobile con castone in ambra arricchito da un cerchio traforato in oro, del vasellame bronzeo e vasellame in ceramica e bucchero.
Il titolo della mostra di Rieti “Strada facendo” allude evidentemente al cammino del carro, non tanto ai tempi del principe sabino, quanto ai viaggi dopo il suo ritrovamento: dall’Italia alla Svizzera, dalla Svizzera alla Danimarca, quindi il rientro in Italia, dove è stato esposto una prima volta agli Uffizi di Firenze nella mostra “La tutela tricolore” e poi a Roma nella Camera dei Deputati nella mostra “Testimoni di civiltà. L’articolo 9 della costituzione. La tutela del patrimonio culturale della Nazione”.
All’epoca venne ampiamente evidenziato dalla Stampa come il clima di connivenza del passato stesse cambiando e, grazie agli sforzi del TPC e della “diplomazia culturale”, fosse stato possibile siglare un accordo con il museo danese (come avvenuto in passato con musei americani, tra cui il noto Paul Getty Museum di Malibu): un accordo che prevede ovviamente da parte dell’Italia il prestito per lunghi periodi di altri importanti preziosi reperti, che troveranno in Danimarca una vetrina appropriata e in qualche caso anche i restauri.
La mostra si sviluppa al pianterreno del palazzo Dosi Delfini (spettacolare il cortile circolare), nella centralissima piazza Vittorio Emanuele II, in un felice allestimento che privilegia il bianco, anche nei pannelli didattici in italiano e inglese, che pertanto risultano molto leggibili.
La mostra, dopo un’introduzione storico-geografica e la narrazione degli scavi nella necropoli di Colle del Forno, prosegue con l’esposizione dei materiali della Tomba XI, prima quelli inerenti alla prima proprietaria (cerchi bronzei relativi all’abbigliamento, un vassoio-incensiere di area sabina e un oggetto di area aquilana), quindi il corredo del principe sabino cui appartenevano i carri e il meraviglioso pendente, accostato in una vetrina ad altri oggetti d’oro, e per finire i materiali di epoca successiva.
Un pannello illustra i carri nella tradizione etrusco-italica e una silhouette fa capire la loro forma. Il cosiddetto “Carro di Eretum” era una sorta di calesse a due cavalli, con l’abitacolo che prevedeva la seduta del conducente. Nel carro da guerra, invece, il conducente stava in piedi. Di quest’ultimo per la prima volta si possono vedere la ruota in ferro quasi integra e i coprimozzi montati insieme.
Le spettacolari lamine in bronzo appartenevano al calesse: ornavano l’abitacolo impiantato al centro di un pianale più lungo, bilanciato sull’asse delle ruote, ed erano applicate in origine su una lastra di cuoio inchiodata ai montanti in legno salenti dal telaio.
Interessantissima è l’iconografia delle figure realizzate a sbalzo, che sono riconducibili a più mani, nonostante l’omogeneità stilistica dell’insieme. La decorazione nei diversi supporti del calesse è distribuita entro riquadri (un centinaio circa); nella maggior parte dei casi si tratta di un’unica figura, talvolta associata a elementi vegetali o a un piccolo uccello; in altri casi si tratta di fregi con scene di caccia.
I decoratori hanno attinto per lo più a un repertorio di matrice orientalizzante, comprendente animali, uomini ed esseri ibridi. Si riconoscono animali domestici (cavalli, tori, caproni e arieti) e animali selvaggi (cervi e daini), predatori (leoni, pantere e lupi) e prede (lepri e oche), e ancora piccoli uccelli. Alcuni di questi animali sono presenti anche in una versione alata, che è frequente nel repertorio orientalizzante per quanto riguarda i cavalli e i leoni, mentre è molto più rara nel caso degli arieti e dei caproni.
Gli esseri ibridi sono per lo più dei felini alati, la cui testa di leone o di pantera è stata sostituita da un’altra. Troviamo tra gli altri un essere molto raro, che è il felino alato con testa di caprone. Frequente è pure il leone alato che presenta sulla schiena una testa di caprone: si tratta di una versione semplificata del modello della chimera, perché la coda non termina, come dovrebbe, con una testa di serpente.
Un essere umano ibrido, che viene definito Tifone (mostruoso figlio di Gea o di Era), ci colpisce particolarmente per il volto barbuto, la capigliatura dalla quale spuntano dei serpenti, le ali e la parte finale del corpo serpentiforme.
Sulle lamine bronzee sono frequenti anche le raffigurazioni di sfingi in diverse varianti. In generale sono senza barba, ma ve ne sono rappresentate anche di barbute. Presentano sempre un sesso maschile, il che costituisce una particolarità della serie di Colle del Forno. In alcuni casi portano tra le zampe anteriori una specie di rigido grembiule, secondo uno schema derivante direttamente da modelli orientali assiri e nord siriani. Alcune sfingi portano un elmo di tipo greco, secondo un modello noto in altri contesti della zona tiberina alla fine del VII secolo a.C. Infine, in tre casi, l’estremità della coda di felino presenta un fiore di loto più o meno sviluppato. Questo segna un grado ulteriore d’ibridazione, in quanto i vari elementi dell’essere fantastico provengono non solo dal regno animale, ma anche da quello vegetale.
Un oggetto non pertinente alla Tomba XI è un’anfora etrusco-corinzia attribuita al Pittore della Sfinge Barbuta, che nel decoro ricorda gli esseri mostruosi barbuti delle lamine bronzee, motivo frequente nel VII-VI secolo a.C. in ambito etrusco-italico. Pare che l’anfora fosse stata data come omaggio alla NY Carlsberg Glyptotek per via dell’elevatissimo prezzo di acquisto delle lamine di bronzo e quindi è stata anch’essa restituita all’Italia, ma non si conosce l’esatta provenienza.
Con questa mostra di altissimo livello culturale, degna di una visibilità internazionale, ci si augura di attrarre a Rieti visitatori amanti dell’archeologia e desiderosi di scoprire la storia della Sabina. I Sabini erano una popolazione indoeuropea di ceppo osco-umbro, insediata nell’Italia centrale in epoca preromana. Caratteristica di questo popolo italico era una particolare ricchezza e un gusto per gli ornamenti d’oro, similmente agli Etruschi, tanto che Strabone racconta che i Romani “conobbero per la prima volta la ricchezza” dopo la conquista della Sabina, che avvenne nel 290 a.C. a opera del console Manio Curio Dentato. In realtà la Sabina contribuisce fortemente alla storia di Roma già nell’età regia con Tito Tazio, che regnò insieme a Romolo dopo il celebre episodio del “Ratto delle Sabine” da parte dei Romani (ricordato in mostra con un film muto di Ugo Falena del 1910), ma in seguito le fonti ricordano i Sabini come fieri nemici, fino alla romanizzazione del territorio, che fa scomparire la Sabina sul piano politico, ma non su quello culturale e geografico.
Sono numerose le famiglie romane che vanteranno una discendenza sabina (come per es. gli Appio Claudii), considerata nella tarda Repubblica una sorta di garanzia di moralità. Nell’impero si ricorda poi come proveniente da Rieti l’imperatore Vespasiano, che, secondo quanto riferisce Svetonio, veniva criticato per la sua pronuncia sabina.
Nica FIORI Roma 9 maggio 2021
“Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum”
Palazzo Dosi Delfini. Piazza Vittorio Emanule II, 17 – Rieti