di Elena TAMBURINI
Pochi templi come questo hanno il potere di restituire davvero il senso di un’epoca e perfino di farci provare nostalgia: perduto è il tempio e perduti anche, vien fatto di pensare, quella forza ideale e civile, quel clima morale in cui sono concepiti.
Ma la vicenda di questo tempio, la sua costruzione e non solo, resta straordinaria, intrisa com’è di valori e di storia. Ogni epoca lo ripensa e vi aggiunge qualcosa di suo, quasi voglia riappropriarsene, quasi voglia negare di esserne lontana.
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I due templi del console Marcello.
Quinto Fabio Massimo non è soltanto il cunctator vincitore di Annibale; è anche colui che inizia questa vicenda. Erige un tempio per ringraziare gli dei della sua prima vittoria, quella sui Liguri (234 a. C.); ma il suo è solo il tempio dell’Onore[1].
Il vero protagonista della nostra storia è un altro, meno noto, ma figura di spicco nelle Historiae di Tito Livio e nelle Vite parallele di Plutarco: Marco Claudio Marcello, un console valoroso, onesto e pio, uno di quegli uomini che hanno fatto grande la Roma repubblicana.
Ricordato dagli storici del ritratto perché la moneta[2] coniata in suo onore da un discendente mostra un volto dai tratti realistici – viso scavato, zigomi sporgenti, naso sottile, pochi capelli – che è tradizionalmente considerato il più antico del genere. Ricordato più spesso dagli storici tout court perché vittorioso contro i Galli Insubri (222 a. C). In questa veste, e come simbolo di tutta un’epoca, è evocato in un’appassionata visione profetica da Virgilio: glorioso opimis spoliis, eppure pronto a dedicare le armi catturate al dio Quirino[3]. Ma Livio aggiunge la notizia importante che, per la stessa vittoria, egli si propone, sciogliendo un voto, di dedicare un tempio all’Onore e alla Virtù, utilizzando quello dell’Onore già esistente presso la porta Capena[4]. Honos e Virtus sono infatti considerati alla stregua di divinità: Cicerone fa di questo tempio un esempio efficace di come i romani, così come denominavano le opere compiute dagli dei con il loro stesso nome – per esempio chiamavano le messi Cerere o il vino Libero – considerassero divinità alcune entità superiori, come appunto l’Onore e la Virtù, o meglio il Valore, se si segue l’originario significato di Virtus. [5].
Due figure tradizionalmente legate fra loro, per esempio su alcune monete: in questo senso sono utilizzate in epoca repubblicana, con le due teste accollate di cui una galeata, e anche da imperatori come Galba e Vespasiano, ogni figura con il suo tradizionale attributo, l’Onore con la cornucopia, il Valore con la lancia.
Ma neanche allora le cose sono semplici da realizzare. Il progetto del console è ostacolato dai pontefici: dovendo celebrare un rito espiatorio, affermano, non sarebbe possibile distinguere a quale divinità si rivolge il sacrificio né sarebbe decoroso sacrificare una sola vittima a due dèi, quali Honos e Virtus sono considerati. Così Marcello restaura il tempio esistente e aggiunge in fretta un altro tempio, di uguale aspetto, gemella facie, secondo la tarda testimonianza del famoso retore Quinto Aurelio Simmaco[6], senza poterlo consacrare per mancanza di tempo, preso com’è dalle operazioni militari contro i cartaginesi (in cui ha un ruolo importante; siamo alla seconda guerra punica, all’incirca nel 210 a. C.); lo farà solo suo figlio, tre anni dopo la sua morte, ben diciassette dopo il voto[7].
Ma nella nostra storia Marcello ha anche altre virtù (all’epoca si direbbero difetti) davvero speciali. Le vicende della guerra lo portano a Siracusa, alleata dei cartaginesi. Pur essendo un guerriero e benché il grande matematico Archimede, con i suoi specchi ustori, l’artiglio meccanico in grado di ribaltare le navi nemiche (la manus ferrea) e le armi da getto da lui perfezionate, gli abbia reso la conquista davvero difficile (quel “Briareo geometra”, pare lo abbia chiamato nei momenti d’ira…), sa ammirare la sapienza, anche in un nemico. In una Roma feroce in cui ogni cedimento è tacciato di debolezza, il console, conquistata Siracusa, ordina di risparmiare il geniale inventore. E quando lo informano che uno dei soldati per errore l’ha ucciso, distoglie lo sguardo dall’uccisore “come da un sacrilego” e lo punisce crudelmente, facendolo squartare[8]. Non basta.
Marcello è anche colui che inizia un popolo rozzo al gusto dell’arte greca, al culto della bellezza. E’ lui per primo a subire quella che si potrebbe dire una vera metamorfosi: entrato in Siracusa, la bellezza della città (omnium pulcherrima la più bella di tutte, Roma non lo è ancora) lo commuove fino alle lacrime. In parte pensando alla gioia di essere riuscito nella difficile impresa, in parte mosso da pietà per una città che ha conosciuto tanti momenti di gloria, trova il modo di indurre gli abitanti alla resa, per risparmiare Siracusa e i suoi abitanti[9] ; e sistema ogni cosa in Sicilia fide atque integritate, con una coscienziosità e onestà tali, scrive Livio, da aumentare la gloria non solo sua ma anche quella del popolo romano.
Eppure la sua passione lo spinge a prendere la decisione più dolorosa per la città: fa trasportare in Roma le opere d’arte che Siracusa possiede in abbondanza; perché un bottino di guerra è, all’epoca, considerato equo e inevitabile[10]. Non dimentica di unirvi la sfera e il planetario realizzati da Archimede, celebri entrambi. Secondo Cicerone, Archimede dimostrò almeno lo stesso valore nell’imitare le orbite delle stelle e dei pianeti che il Dio di Platone nel crearle[11] – : la sfera riproduce la volta del cielo, mentre il planetario è una sorta di sfera armillare in cui i moti apparenti (e diversi) del sole, della luna e dei pianeti, oggetto di una dissertazione del grande matematico, sono generati da un’unica rotazione (a leggere le espressioni di Cicerone sembra davvero che egli abbia già intuito parecchie cose sulla conformazione dell’universo…!).
Il sobrio console trattiene per sé solo la sfera, molto meno appariscente[12], mentre il prezioso carico di statue, insieme con lo spettacolare planetario, è sistemato proprio nei due templi dell’Onore e del Valore. Non può passare inosservato: è il primo contatto che i romani hanno con l’arte greca. La fama delle splendide opere d’arte, custodite in due templi che si possono immaginare semplici e austeri, si sparge dovunque e i romani accorrono per vederle; giungono perfino externi, da fuori Roma, per ammirarle. L’oraziano Graecia capta ferum victorem cepit comincia di qui: Livio stesso riconduce a questa straordinaria esposizione nei due templi la prima origine dell’ammirazione appassionata che i romani finiscono per tributare all’arte greca:
“Di lì ebbe la sua prima origine l’entusiasmo per le opere delle arti greche e in conseguenza di ciò quella mancanza di ogni freno, nel depredare in generale ogni cosa sacra e profana, che alla fine si volse contro gli dei romani, in primo luogo contro quello stesso tempio che da Marcello ricevette straordinari ornamenti”[13].
Come le parole stesse di Livio dimostrano, fin da allora aspre critiche accompagnano l’iniziativa di Marcello: innanzitutto quelle fondate su motivi squisitamente religiosi. Molti rimproverano al console di aver introdotto nel suo corteo trionfale – celebrato in tono minore, è quello che i romani chiamano ova, dalla semplice pecora che si usava sacrificare – oltre agli uomini, anche gli “dei prigionieri”, perché le statue non solo riproducono, ma “sono” anche, in qualche misura, gli dèi autoctoni siracusani: un simile atto può essere tacciato di empietà e suscitare ulteriore invidia contro Roma. E c’è chi ricorda come Fabio Massimo abbia preferito togliere ai tarantini sconfitti denaro e ricchezze, pronunciando la celebre frase “lasciamo ai tarantini i loro dei adirati”[14].
Ancora più forti sono le critiche rivolte a Marcello dai nemici del nuovo gusto filellenico. Mentre il console è fiero di aver fatto conoscere ai romani le meravigliose bellezze dell’Ellade e, tornato a Roma, trascorre la massima parte del suo tempo a discutere di arte e di artisti, molti lo accusano di avere introdotto nell’Urbe qualcosa di profondamente estraneo all’antica sobrietà dei costumi. E Catone il Censore tuonerà pubblicamente contro un fenomeno che rischia di sostituire agli ideali civili e collettivi della prisca Roma l’esaltazione del singolo individuo e la febbre del possesso. Visti in questa prospettiva, i nostri due templi, che per un verso rappresentano la romanità nel suo aspetto migliore, per un altro coltiverebbero in sé, insieme con il loro affascinante contenuto, i germi della fine dell’Urbe. In ogni caso è una lotta contro i mulini a vento: già all’epoca di Livio i due templi sono depredati, senza alcun riguardo del luogo sacro.
Sembra che i due templi dell’Onore e del Valore abbiano custodito anche, almeno in origine, una aedicula Camenarum, un sacello bronzeo dedicato alle antiche divinità delle sorgenti, risalente all’epoca di Numa Pompilio e qui ricoverato perché colpito da un fulmine; e che esso sia poi stato trasportato in un altro tempio, situato nei pressi del circo Flaminio e dedicato dal console Fulvio Nobiliore alle Muse e a Ercole Musagete (cioè loro difensore), in quanto era adorno di bellissime statue delle Muse, anch’esse razziate ad Ambracia sconfitta (187 a. C.)[15]: di qui la connessione e poi l’identificazione fra le Camene latine e le Muse greche. Il nuovo tempio, con le sue raffinate opere d’arte, diventa il segno tangibile dei nuovi ideali ellenizzanti ormai importati in Roma: al seguito del Nobiliore figura anche il poeta Ennio, un altro ponte tra la cultura greca e quella romana.
Si deve credere che nel tempo i pontefici diventino meno fiscali o il loro potere più limitato, perché Gaio Mario per celebrare la vittoria sui Cimbri e sui Teutoni (101 a. C.), certo ispirandosi a Marcello, fa erigere un altro tempio intitolato anch’esso all’Onore e al Valore. Vitruvio ne scrive infatti come di un unico tempio (Marianae aedis, è un genitivo singolare), che pare si trovasse nella Velia, fra i Mariana Monumenta, dunque nel cuore di Roma[16]. Mario non è filellenico: il tempio è un periptero sine portico nella sua parte posteriore e ha il difetto di non essere costruito in marmo. Ma Vitruvio lo celebra per la bellezza e la sapienza costruttiva e come il capolavoro dell’architetto Gaio Muzio.
Indubbiamente è più ampio e importante dell’altro. Ma per altri versi non può paragonarsi ai due templi di Marcello. Lo dimostra un fatto preciso: quando Augusto ritorna vittorioso dalla Siria, il senato delibera la costruzione in suo onore dell’Altare della Fortuna Redux proprio davanti ai due templi dell’Onore e del Valore presso la porta Capena[17], preferendo dunque ad ogni comodità e splendore scenografico, i due templi con il loro carico di valori e di passato. Probabilmente Vespasiano condividerà questa preferenza, dal momento che, secondo Plinio, è proprio questi più antichi due aedes che egli farà restaurare, adornandoli anche con gli affreschi dei pittori Cornelio Pino e Attio Prisco[18].
Cristianizzata l’Urbe, la funzione religiosa dei templi pagani decade o è di molto ridimensionata; e si può immaginare quali fossero le loro condizioni dopo le invasioni barbariche. E’ probabile che i templi di Marcello siano stati, fin da allora, distrutti.
Resta, fortissima, la suggestione di un nome e di una vicenda che evocano un’epoca remota e presto idealizzata. Un’idea che continua ad esercitare attrazione e influenza fino a molti secoli dopo.
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Il tempio doppio di sant’Agostino e del Boccaccio
Si è visto come da questi due templi di Marcello discenda l’idea dei valori e dell’integrità della Roma repubblicana. Questa idea continua a stimolare l’immaginario degli eruditi anche quando il tempio, forse, non esiste più o comunque deve trovarsi in condizioni disastrate.
L’Altare della Fortuna Redux, eretto in onore di Augusto di fronte ai due templi dell’Onore e del Valore documenta in ogni caso un fatto importante: i due templi non solo sono posti vicini (come si poteva già supporre), ma devono essere, se non riuniti in un unico tempio come avviene per quello di Venere e Roma, almeno contigui, se costituiscono il fondale dell’Ara e dei riti (Augustalia) che da allora vi sono annualmente celebrati. Alcuni secoli più tardi, anche Simmaco, nell’Epistula già citata, scriverà che erano collocati iunctim, congiuntamente, erano collegati insieme.
Chi rileva questo dato, conferendo esplicitamente a questa contiguità un alto significato morale è sant’Agostino. Nel De Civitate Dei il vescovo d’Ippona si interroga sulle cause che hanno consentito il prodigioso espandersi dell’impero romano e lo attribuisce all’ambizione onesta degli uomini della repubblica. Citando Sallustio, egli scrive che essi, più che dalla cupidigia, erano stimolati dall’ambizione; che non è sempre un difetto:
“Gloria, onori, comando sono aspirazioni tanto del valoroso quanto dell’inetto ma il primo vi s’impegna per la via retta, mentre l’altro, sprovvisto di strumenti onesti, vi tende con inganni e raggiri”.
Questa via retta è quella della virtù: è a questa che deve tendere lo sforzo per raggiungere la gloria, gli onori, il comando. Questo nobile sentimento, fortissimo negli antichi romani, scrive Agostino, è testimoniato anche dai
“templi che [i Romani] innalzarono, vicinissimi l’uno all’altro [coniunctissimas aedes], alla Virtù e all’Onore, doni di Dio, che essi considerarono dèi”.
E conclude che la gloria, l’onore, il comando, questi desideri profondi dei romani onesti, devono essere “non conseguenze, ma antecedenti della virtù”.
Come si vede, la traduzione di virtus nel testo di Agostino deve cambiare: non è più “valore”, ma “virtù”.
Sant’Agostino non indica chiaramente il senso di un percorso; ma, a partire dalle sue parole (e per quanto al nostro sguardo sembri più logico il contrario), è il giusto desiderio di onore lo stimolo che fa arrivare alla virtù, a quella virtù che induce ad anteporre il bene collettivo a quello personale e che, in una prospettiva cristiana, dovrebbe rappresentare l’apice dei desideri in questa vita. L’onesta ambizione, comunemente condivisa, è dunque ciò che ha consentito ai romani di emergere sugli altri popoli[19].
Non è noto se furono successive testimonianze a indurre in seguito il Boccaccio a precisare le modalità di questa vicinanza nei termini di un percorso di iniziazione, o se fu lui stesso a interpretarla in tal modo; ma è certo che, proponendosi, nel suo Comento sopra la Comedia, di chiarire la differenza “tra onore e laude, e fama e gloria”, sembra invertire il senso dell’interpretazione morale di sant’Agostino. L’onore, egli scrive, può essere meritato ma può anche essere ottenuto senza vero merito.
Per dimostrare la legittimità e l’importanza di questo assunto, egli porta proprio l’esempio dei due templi di Marcello, che i pontefici romani vollero nettamente distinti, ma anche congiunti insieme, in modo tale che non si poteva entrare nel tempio dell’Onore senza passare da quello della Virtù:
“E perciò fu ordinato, che a ciascuna delle due deità si facesse un tempio: li quali furono fatti congiunti insieme in questa guisa, che nel tempio fatto in reverenza dell’Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtù non s’andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere, che onore non si poteva acquistare se non per operazione di virtù”.
La conseguenza importante di questo passaggio obbligato è che non si può tributare onore per dignità di avi o di memorie o per età, ma solo per imprese gloriose personalmente compiute nel corso della vita. Mentre, per finire il suo discorso, le lodi vanno tributate in assenza, perché non diventino adulazioni; la gloria è quella delle imprese compiute e la fama le porta lontano nel mondo e le diffonde per molti secoli[20].
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Rivisitazioni nel Cinque-Seicento: Federico Zuccari, Giacomo Lauro, Alessandro Algardi
Si direbbe che questo è il caso del nostro tempio, perché l’interesse ad esso e a ciò che rappresenta sembra crescere nel tempo. Nel Cinquecento è particolarmente vivo e riguarda anche diversi aspetti della cultura. Giunge perfino in Belgio dove costituisce lo spunto classico per un poema di argomento mitologico e pastorale: Le temple d’honneur et de vertus di Jean Lemaire de Belges (1504). In Italia, sull’onda del Rinascimento, il tempio viene ricordato da chi studia Vitruvio (G. Philandrier, M. Vitruvii Pollionis de Architectura Annotationes, 1544) come da chi si pone problemi di topografia romana antica (B. Marliani, Antiquae Romae topographia, 1534): entrambi si mostrano influenzati dalla riflessione morale di sant’Agostino.
Ma è probabilmente a Firenze, durante le feste medicee del 1566, che questo tema torna a imporsi davvero all’attenzione degli eruditi. Nella famosa Mascherata ispirata alla Genealogia degli Dei del Boccaccio sfilano magnifici carri e personaggi allegorici sontuosamente vestiti: allestimento e costumi sono il risultato di lunghi e approfonditi studi dell’iconologo Vincenzo Borghini. Nel proprio carro Minerva è accompagnata dalla Virtù e dall’Onore: le ali della Virtù ricordano il suo potere di elevare l’uomo e renderlo “simigliante a Dio”; sullo scudo dell’Onore sono effigiati i due templi “dell’un de’ quali si poteva passar nell’altro e non per alcun’altra via”, proprio secondo l’interpretazione boccacciana[21].
Quanto quella Mascherata abbia dato temi e stimoli all’immaginario degli artisti è ben noto. Vincenzo Cartari, autore di un famoso testo sulle immagini (V. Cartari, Imagini con la spositione de i dei de gli antichi, 1556), riprendendo le idee del Boccaccio in una prospettiva squisitamente iconografica, scrive di una Virtù da rappresentarsi con le ali e ricorda i due templi della Virtù e dell’Onore in cui il primo tempio è il necessario passaggio per arrivare al secondo.
“Questa [la Virtù] fu parimente da gli antichi ritenuta Dea, et adorata, et a lei […] posero un Tempio davanti al tempio dell’Onore […] et a questo non poteva entrare se non chi passava per quello, volendo con ciò mostrare che altra via non ha alcuno da acquistarsi onore che quella della Virtù, come che quello sia il vero premio di questa”[22].
Il rilievo dato a questo aspetto di stretta consequenzialità fra i due templi porta gli eruditi a configurarla anche visivamente, come nell’ “impresa” (oggi perduta) creata dal poligrafo attivo a Venezia Lodovico Domenichi per Jacopo VI Appiano, signore di Piombino: i due templi con l’unica porta ne costituiscono la figura o “corpo”, le parole latine quo tua te Virtus il motto o “anima”[23].
Allo stesso tema sono dedicate anche due immagini, non molto posteriori: un disegno di Federico Zuccari, noto pittore umbro dotto e pluriaccademico e un’incisione di Giacomo Lauro, di probabile origine fiamminga, meno considerato, ma almeno altrettanto erudito. I due artisti ci lasciano le rispettive ipotesi di ricostruzione dei due templi, entrambe caratterizzate da una diretta consequenzialità; e queste due ipotesi ci restituiscono anche gli sguardi abbastanza diversi con cui i rispettivi autori li hanno considerati.
Il disegno di Zuccari [24] mette l’accento su un percorso iniziatico che non è solo quello delineato dal Boccaccio. I due templi, simili (ma preminente è quello di Onore, un po’ più grande e un po’ più in alto), hanno pianta circolare: forse per riprendere l’idea di perfezione insita in questa figura geometrica e forse anche per unirvi l’immagine stilizzata di un teatro classico; si trovano sulla sinistra, quello della Virtù davanti a quello dell’Onore, con un unico ingresso, raggiungibile dopo un’ardua salita.
Solo chi affrontava queste prove di sacrificio e di umiltà (figurine sul monte a sinistra; figurina inginocchiata con la palma davanti a Minerva) poteva poi accedere, dopo il primo e il secondo tempio e una terrazza colonnata, al tempio della Fama sulla destra, un tempio a pianta quadrangolare (verosimilmente per differenziarlo dagli altri due), che, sull’onda dei Trionfi, si usava legare al nome del Petrarca.
Si potrebbe ricordare che il poeta aveva delineato proprio nei Trionfi un altro processo di iniziazione e sublimazione dell’anima umana: schiava d’Amore, soccorsa dalla Pudicizia, soggetta alla Morte; la Morte vinta dalla Fama di chi compie opere grandi, la Fama messa in pericolo dal Tempo, finché esso non si annulla nell’Eternità, nella Divinità che tutti perdona e accoglie. In questo nostro mondo effimero e caduco dunque, secondo il Petrarca, solo la Fama può sconfiggere la Morte.
Si potrebbe ricordare anche un verso del poeta che esprime questo tema: la Fama, che nel suo Trionfo pare principalmente acquisita attraverso il Valore dei guerrieri e la Sapienza dei filosofi, “trahe l’uom del sepolcro”. Lo stesso verso infatti veniva assunto nel 1557 dal citato Lodovico Domenichi come motto dell’impresa della Fama, mentre la figura era in questo caso Pegaso; perché, al pari del celebre cavallo, la Fama degli uomini illustri faceva sgorgare il fonte delle Muse in Parnaso; l’eletta cerchia si ampliava così ad accogliere i poeti e gli artisti.
La centralità di questo tema nelle opere dei poeti e degli artisti dell’epoca si spiega dunque in una prospettiva d’immortalità, che, nel clima del Rinascimento e in certi ambienti non proprio ortodossi, si poteva anche pensare come l’unica realmente accessibile all’uomo. Non a caso dunque, nello stesso disegno di Zuccari, in primo piano, si svolge anche una scena animata su cui grandeggia la figura di Apollo che, con una cetra e un dardo – la cetra lo evoca come dio della musica, il dardo come dio del Sole – , sembra dirigere le Arti, quelle liberali che venivano dalla tradizione più antica e anche le belle Arti teorizzate dal Vasari: una sorta di Parnaso allargato. Una visione, questa, dominata da un’intenzione etica nata insieme da istanze classiciste e rinascimentali; del tutto indipendente da una problematica religiosa.
L’incisione del Lauro [25], un artista di magre fortune – lo si diceva un “mendicus homo”, cioè un poveraccio, in perpetua ricerca di dedicatari nobili e ricchi – è invece inserita in un più vasto lavoro di restituzione degli edifici dell’antica Roma, il suo Antiquae Urbis Splendor (1612), più volte ampliato e ristampato.
Il suo scopo evidente non è quello di operare una ricostruzione corretta e fedele dei monumenti (che infatti non lo sono), ma il desiderio di suscitare meraviglia con la visione degli edifici classici restituiti all’antico splendore. Ma non c’è solo questo. Ogni immagine è corredata di didascalie, in cui egli espone i fondamenti culturali su cui si regge ogni ricostruzione e comunica al lettore messaggi morali ispirati al suo lavoro, validi anche nell’attualità.
Il Templum Honoris et Virtutis arriva all’artista attraverso lo studio iconografico e storico-umanistico. Nella lunga didascalia il Lauro riprende innanzitutto la notizia data da Tito Livio, secondo la quale l’originario tempio di Onore e della Virtù del console Marcello era situato presso porta Capena. L’artista scrive anche che un altro omonimo (di cui non precisa l’ubicazione), aveva successivamente fatto erigere Gaio Mario, un tempio celebrato da Vitruvio. Anche se la didascalia non è chiara in proposito (probabilmente egli confonde i due templi), non è questo il tempio di cui l’artista immagina la ricostruzione, dal momento che Vitruvio, e non solo lui, ne scrive come di un solo tempio (aedis Marianae).
Il Lauro invece, citando espressamente la riflessione morale di sant’Agostino, raffigura chiaramente i due templi, posti uno davanti all’altro, quello della Virtus molto più piccolo rispetto all’altro, con un’unica porta al centro, dalla quale si intravede, alla fine del percorso, una figura statuaria che regge due corone, una d’alloro e una d’oro: la Virtù e l’Onore alla fine unificati.
Il rilievo dato a questo aspetto di stretta consequenzialità fra i due templi avvalora il significato profondo che nella concezione romana antica l’Honor si raggiungeva unicamente attraverso la Virtus. Nessun’altra via è consentita; chi ne scelga un’altra è un “ladro” o un “tiranno”.
“E se bene [=anche se] non fosse stato da tanti ornamenti abbellito [con i dipinti di Cornelio Pino e Attio Prisco ordinati da Vespasiano], bastava per renderlo celebre l’artificio co’l quale questi dui tempii erano uniti insieme, e l’occulto misterio che insinuavano nell’animo di tutti coloro che lo visitavano, poiché, mentre volevano entrare in quello del Onore, non trovavano altra porta, che quella della Virtù […]; ma chi per altra via che questa della Virtù desidera, o conseguisce onori, a guisa di Ladro, o Tiranno entrando per le fenestre, non gl’acquista, ma gli rubba ingiustamente. Da che dovrebbono gli Prencipi pigliare occasione di fabricare nelli animi loro simili tempi d’Onore e Virtù”.
Il richiamo morale del vescovo d’Ippona è dal Lauro rivolto innanzitutto ai prìncipi della terra; e forse è questo il motivo per cui il tempio di Onore è molto più grande rispetto all’altro. Anche se gli imperatori romani non conoscevano la vera fede, i prìncipi di oggi sono chiamati a riflettere sugli exempla di quelli virtuosi del passato e a fabbricare nei loro animi, per proprio ammonimento morale, un simile tempio. E perché questo significato non possa venire frainteso e perché ne sia còlta la continuità nell’impero e in quella Roma cristiana che intendeva raccoglierne l’eredità, il Lauro colloca dietro i due templi circolari e oltre un ampio emiciclo in cui trovano posto le statue degli uomini illustri (i “grandi e valenti uomini” del Boccaccio), anche le due colonne Antonina e Traiana. Traiano e Antonino infatti
“perché appoggiarono le azzioni loro alla virtù, le hanno conservate et illese contro la violenza del tempo, guerre et calamità publiche, come si può comprendere dalle due bellissime colonne che a onor di essi furono fabricate et oggi nella bellezza et integrità antica si conservano”.
Non è chi non veda nell’immagine di questo tempio interiore, ancora ben vivo, il richiamo morale di sant’Agostino, studioso e maestro dell’interiorità, devoto alla classicità e alla bellezza. Ma il percorso prescelto è più semplice rispetto a quello agostiniano, è quello indicato dal Boccaccio, ripreso dal Cartari e dai più.
L’immagine del Lauro, integrata com’è da elementi fantastici, fra le tante ricostruzioni, è certamente fra le meno rigorose da lui create; alla luce di quanto si è detto, si potrebbe anche leggerla come uno di quei percorsi di memoria che erano così apprezzati ai tempi dell’artista. E in questo senso altri elementi potrebbero essere indicati.
E’ stato giustamente notato da Daniela Del Pesco[26] che il Bernini nel suo primo progetto per il Louvre e in quello della chiesa di Ariccia si mostra molto sensibile alla figurazione architettonica ideata dal Lauro.
Quanto a questo punto, Del Pesco accosta le rotonde di quest’ultimo a quelle degli sfondi scenografici di Erotilla, una tragedia a lieto fine di Giulio Strozzi, pubblicata con bellissime tavole a Roma nel 1615 in occasione delle nozze del principe Marcantonio Borghese (nipote del papa regnante) e Camilla Orsini; sfondi “inventati” dal pittore Andrea Commodi e incisi da Francesco Valesio.
Un riferimento a prima vista strano, perché la tragedia è posteriore di alcuni anni all’opera del Lauro. Eppure il riferimento è importante, perché ci porta a Venezia, e cioè in un mondo apparentemente del tutto diverso, spesso più che profano e già dominato da una mentalità imprenditoriale; e proprio in questo mondo troviamo altri collegamenti.
Il nome dell’incisore Francesco Valesio, così come anche quello dell’autore dell’opera Giulio Strozzi, richiama infatti quello delle tipografie veneziane, da una delle quali la tragedia era stata contemporaneamente pubblicata con le stesse tavole.
Ma sono alcune favole pastorali (Aminta, 1583; Pastor Fido, 1599 e 1602; Filli di Sciro, 1607)[27] ancora precedenti ad attirare l’attenzione.
Le loro tavole, anch’esse incise dal Valesio, mostrano infatti alcuni “strani” edifici circolari che richiamano, a mio parere, ancor più di quelli di Erotilla, quelli del Lauro; ritroviamo perfino in una delle cupole di Filli di Sciro gli oculi del piccolo tempio anteriore da lui ideato.
Di qui è possibile risalire fino alle incisioni, sempre veneziane, di quello che è stato detto il più bel libro mai pubblicato: il misterioso volume, splendidamente illustrato, intitolato all’Hypnerotomachia Polyphili (edito nel 1499, per i celebri tipi di Aldo Manuzio); in cui, come è noto, si delinea un altro percorso di iniziazione, però neopagana, dunque di tutt’altra natura, culminante in un tempio di Venere.
Da questo libro le “rotonde” del Lauro e anche quelle delle pastorali e di Erotilla probabilmente dipendono.
Gli edifici laurani appaiono i più ricchi del gruppo, con le loro due cupole concluse da una balaustra a corona, e anche i più complessi, uniti come sono alle due colonne classiche dei due imperatori: si tratta forse di una traduzione in termini iconografici della destinazione squisitamente principesca del messaggio morale dell’artista? Si potrebbe ipotizzarlo. Ma quel che è a questo punto evidente è che nell’immagine del Lauro riescono a confluire le principali culture (anche quelle meno ortodosse) di un artista erudito della sua epoca.
Il secondo collegamento che il riferimento a Erotilla suggerisce è ancor più interessante. Anch’esso porta in un mondo diverso, che questa volta è quello dello spettacolo.
Il pittore toscano Andrea Commodi è infatti maestro del conterraneo Baccio Ciarpi, che è il principale scenografo di un vero evento teatrale (in musica) di questi anni, l’Amor Pudico, rappresentato nell’Urbe per altre nozze eccellenti, quelle tra il principe Michele Peretti e Annamaria Cesi (1614) [28].
A queste nozze e ai relativi festeggiamenti sono interessate le massime istituzioni culturali del tempo, l’Accademia degli Umoristi e quella dei Lincei. Una delle scene dell’evento è quella di Roma antica, realizzata con la probabile collaborazione dello stesso Giacomo Lauro: davvero spettacolare, offre la prospettiva dei monumenti da lui già studiati uno per uno per la sua pubblicazione.
Tra essi figura, manco a dirlo, il tempio dell’Onore e della Virtù; le figurazioni allegoriche di Valore e Pudicizia (termini forse non così lontani dall’Honor e dalla Virtus) fiancheggiano il fronte scenico; il particolare tema della Pudicizia insieme a quello della Fama, anch’esso introdotto, evoca il percorso iniziatico dei Trionfi del Petrarca sopra delineato.
Se dunque il nostro tempio doppio si può immaginare figurato nella prospettiva centrale, anche il tema profondamente etico e allegorico di Amor Pudico pare richiamarlo. Lo spettacolo appare dunque, per molti versi, una sorta di emanazione, non solo della ricostruzione laurana, ma anche dei motivi originari del tempio di Marcello.
Anche uno dei progetti berniniani del Louvre (1665), come ha dimostrato Del Pesco, può essere ascritto a questo itinerario: se il primo progetto evoca con evidenza l’immagine del Lauro, il terzo ne richiama il senso, concepito com’è come un tempio della virtù posto su un basamento roccioso: il sovrano, di cui il palazzo, secondo le intenzioni del progettista, è lo specchio, vi è pensato come un “Ercole al bivio”, come un eroe sul punto di scalare l’ardua montagna.
Non molti in realtà sono ormai in grado di comprendere e di condividere un messaggio così radicale; tant’è che a nessuno dei progetti berniniani fu dato corso.
Una momentanea disgrazia del Bernini permette all’emiliano Alessandro Algardi di realizzare la decorazione della sala dei “costumi romani” (1646) della Villa del Bel Respiro dei Pamphilj [29]: una sala in cui essi sono celebrati come conoscitori e anche come possessori di cospicui beni archeologici.
Sulla volta della sala sono effigiati alcuni edifici della Roma classica; uno di questi è proprio il tempio dell’Onore e della Virtù.
Come suggerisce ancora Del Pesco, il raffinatissimo stucco, un tempio circolare (a cui introducono le due figure che danno il nome al tempio) posto all’interno di un ampio emiciclo, mostra evidente l’influenza del Lauro. Ma il tempio è riccamente adorno di colonne e anche, in alto, di statue danzanti che sembrano quasi volergli imprimere un ritmo rotatorio; dietro all’emiciclo figurano, non le colonne dei due virtuosi imperatori, ma due anonimi obelischi; e soprattutto il tempio è uno solo. Il significato originario dei due templi è così perduto e con esso il suo senso di un percorso iniziatico e morale.
Eppure Giovanni Pietro Bellori (sempre critico nei confronti di tendenze che non siano puramente classiche e in particolare di quelle del Bernini e del Borromini) addita questa decorazione come un esempio del genere; dimostrandosi davvero poco sensibile a un vero approfondimento sui contenuti.
Come scrive Marcello Fagiolo [30], l’archetipo di racchiudere in un tempio-teatro i vertici degli ideali umani (nel suo caso il tempio-teatro della Sapienza o della Virtù) attraversa tutta la storia moderna.
Ma dopo i casi indicati, non è facile indicare veri sviluppi o riprese del tempio doppio di Marcello.
A partire dalle raccolte di vedute romane realizzate dagli architetti Giuseppe Vasi, Giovanni Battista Piranesi e suo figlio Francesco nella seconda metà del Settecento (che comunque non riguardano due templi, ma uno solo, erroneamente identificato con il tempio di Bacco – poi chiesa di S. Urbano – fuori porta Capena), si direbbe che chi si accosta al tempio è mosso unicamente dal problema storico e archeologico: come era fatto? dove si trovava? può essere identificato con qualcuna delle rovine che ci restano?
Interrogativi più che legittimi e di difficile soluzione, a cui anche oggi si tenta di dare risposta[31]. Ma questa è un’altra storia.
Elena TAMBURINI Roma 27 Febbraio 2022
NOTE