di Claudio LISTANTI
Tra gli appuntamenti più interessanti previsti nella stagione 2021-2022 del Teatro dell’Opera di Roma c’era senza dubbio la rappresentazione del capolavoro musicale di Leoš Janáček, Káťa Kabanová molto attesa dal pubblico e dagli appassionati.
I motivi di questa attesa erano molteplici. In primis quello che, nonostante la grande fama di pubblico e di critica che l’opera gode a livello europeo e mondiale, qui nel massimo teatro lirico della capitale, ancora non era mai stata rappresentata. Un fatto, questo, piuttosto singolare se si pensi solamente che sono passati più di cento anni dalla prima assoluta di Káťa Kabanová e che questo tipo di repertorio di opere appartenenti alla cultura musicale slava conta, in molte parti d’Italia come anche qui a Roma, un notevole numero di appassionati che hanno accolto con gioia questa proposta convenendo numerosi, nonostante le diverse difficoltà dovute alla pandemia, nella splendida Sala Costanzi. Infine particolare interesse era rivolto al nuovo allestimento realizzato in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra ed affidato alla regia di Richard Jones, allestimento che ha vinto l’Olivier Award nel 2019 come miglior nuova produzione d’opera.
Káťa Kabanová, composta da Janáček nel periodo 1919-1921 ebbe la sua prima rappresentazione assoluta al Teatro Nazionale di Brno il 23 novembre del 1921 su un libretto scritto dallo stesso Janáček ispirato al dramma Grozá (L’uragano) di Aleksandr Ostrovskij nella traduzione in ceco di Vincenc Červinka.
Il nome di Leoš Janáček è molto importante per la musica ceca, in quanto l’artista, oltre ad essere organista e pianista, nella sua epoca fu considerato valente musicologo e studioso del folklore musicale del suo paese. Giunse all’opera lirica piuttosto tardi rispetto alla sua lunga carriera che all’inizio fu orientata più verso la musica strumentale, spesso particolarmente ispirata al folklore musicale ceco di cui fu insigne studioso. Del teatro d’opera si interessò sul finire dell’800 ma ebbe il suo massimo splendore nel secolo successivo soprattutto nel periodo seguente alla Prima Guerra Mondiale. La prima esperienza fu Šárka opera in tre 3 atti musicata su libretto di Julius Zeyer che sviluppava una leggenda boema alla quale lavorò negli ultimi anni ’80 del XIX secolo ma oggetto di diversi cambiamenti trovando, poi, la prima assoluta solamente nel 1925. Questo elemento ci fa comprendere però che la sua attività di operista fu soggetta ad una operazione che possiamo definire di apprendistato e che si concretizzò con forza a ‘900 inoltrato.
Šárka mette in risalto anche un’altra peculiarità della produzione teatrale di Janáček, quello di dedicare la centralità delle sue creazioni a figure femminili, preponderanti nelle sue produzioni, mettendone in risalto le loro personalità dominate da un innegabile desiderio di libertà. Altra importante tappa di questa evoluzione fu, infatti, Jenůfa, su un suo libretto suddiviso sempre in tre atti e tratto dal dramma di Gabriela Preissová, Její pastorkyňa, La sua figliastra rappresentata nel 1904 ma che ebbe successive edizioni fino al 1916.
Ciò dimostra che l’attività musicale di Janáček rivolta al teatro in musica era sottoposta ad uno stato di ‘lavori in corso’ dei quali la tappa costituita da Káťa Kabanová fu un primo punto di arrivo poi rafforzato dalle tre successive produzioni, Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta), Věc Makropulos (L’affare Makropulos) e Z mrtvého domu (Da una casa di morti) tutte in tre atti secondo lo schema adottato da Janáček che ne redasse anche libretto traendo la storia da lavori di altrettanti autori, nell’ordine Rudolf Těsnohlídek, Karel Čapek e Fëdor Dostoevskij dal suo Memorie dalla casa dei morti.
Queste tre ultime opere hanno avuto, però, lo spiacevole effetto, di aver un po’ messo nell’ombra Káťa Kabanová, come evidenzia lo scrittore e musicologo Franco Pulcini nelle note inserite nel molto esauriente programma di sala pubblicato dal Teatro dell’Opera in occasione di questa ‘storica’ rappresentazione romana, ricordando che queste tre opere finirono “… per spingere il musicista e i contemporanei a discutere, negli anni successivi alla ‘prima’ della Kabanová, principalmente di queste ultime”.
Il dramma originale Grozá (L’uragano) di Aleksandr Ostrovskij, come avviene in occasione di riduzioni di opere letterarie in opera lirica, fu sottoposto da Janáček ad una sorta di semplificazione. Innanzi tutto c’è una riduzione dei personaggi nell’originale piuttosto numerosi ed aventi lo scopo di illustrare l’ambiente e il contorno sociale dell’epoca dello svolgimento del dramma che in questo caso avviene negli anni ’50 dell’800 che l’autore del libretto spostò, più o meno un decennio più avanti.
Un altro elemento fondamentale fu il cambio del titolo, necessario per l’impronta drammaturgica che Janáček volle dare alla sua opera. Dall’epistolario del musicista relativo alla creazione della Kabanová, anch’esso inserito nel programma di sala, nel marzo del 1821, Janáček scrive a Vincenc Červinka, autore della traduzione in ceco del testo originale:
“Ho terminato l’opera. Il problema è come intitolarla. Vi sono già parecchi Uragani in composizioni musicali e opere. Per cui quel titolo non è una buona idea. Inoltre non è questo fenomeno naturale il motivo ispiratore della vicenda; è Katèrina che vi infonde tutto l’interesse psicologico. Il direttore Schmoranz (Ndr: direttore del Teatro Nazionale di Praga che ospitò l’opera dopo Brno) mi fece notare che il titolo Katèrina si potrebbe intendere come riferito a Caterina II (La Grande). Egli stesso propose il titolo Káťa. Tanto Boris quanto Tichon la chiamano così”. Červinka qualche giorno dopo risponde approvando la soluzione osservando però: “Forse Káťa Kabanová sarebbe un po’ più esteso. Così chiunque avesse una conoscenza anche solo superficiale dei drammi russi capirebbe subito che il soggetto dell’opera è tratto da Ostrovskij – perché questo è un nome famoso nel teatro russo” questo perché, come afferma in seguito “nei manuali letterari … nei dizionari biografici sui grandi attori russi il ruolo della protagonista è generalmente indicato come Káťa Kabanová”.
La trama della Kabanová è piuttosto lineare, e intelligibile per lo spettatore. In estrema sintesi ruota intorno alla figura di Káťa, una giovane donna che tenta di sfuggire ai soprusi della terribile suocera Kabanicha, molto critica verso il suo ruolo di moglie ma anche verso il figlio Tichon che giudica troppo permissivo verso il modo di comportarsi della moglie che non corrisponde al tipo di donna dell’epoca che deve avere tutte le caratteristiche di ‘sposa’ un ruolo quasi ‘sacrificale’ che la tradizione dell’epoca le assegnava. Un disagio avvertito dalla cognata Varvara amante di Kudrjas che la incoraggia a reagire. Káťa trova rifugio in una relazione extraconiugale con il giovane Boris, che la porta verso quel senso di libertà agognato. Ma sarà poi sopraffatta dal senso di colpa per aver tradito il marito Tichon che la spinge al suicidio gettandosi nel fiume Volga.
Su questa trama Janáček costruisce una partitura molto ricca nell’organico orchestrale che comprende oltre agli archi una nutrita schiera di legni, (flauti e ottavini, due oboi, corno inglese, due clarinetti, clarinetto basso, tre fagotti, controfagotto), quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, celesta, arpa e una importante sezione delle percussioni formata da timpani, xilofono, glockenspiel, sonagliera, piatti e grancassa.
Nell’insieme la parte prettamente orchestrale riesce a dare quel colore ambientale che connota l’ambientazione ‘russa’ dell’azione nella quale fa da sfondo la maestosa natura dello scorrere del fiume Volga che costituisce l’ideale cornice, efficace contenitore di tutto lo svolgimento del dramma arricchito anche dai frequenti riferimenti alla musica popolare che ne rafforzano l’innegabile elemento coloristico.
Ma la vera particolarità è la realizzazione della parte vocale. Certamente amalgamata con gli spunti orchestrali è concepita come una sorta di linguaggio parlato sostenuto da veri e propri spunti melodici spesso enunciati dall’orchestra. Siamo di fronte ad una variante del declamato melodico la quale è identificata con il termine piuttosto calzante di ‘melodia parlante’. Una forma espressiva che segue i ritmi del linguaggio parlato dove molto importanti sono le inflessioni della pronuncia delle parole che è rivolta ad evidenziare il significato ‘intimo’ di ognuna di esse che fa scaturire una linea vocale incostante, spesso anche stridula, ma che riesce a caratterizzare con efficacia la psicologia di ogni singolo personaggio. Per apprezzare le caratteristiche di tale procedimento, a nostro parere, è indispensabile però la conoscenza della lingua ceca che ha una espressività del tutto diversa dalla nostra lingua elemento che, in assenza, purtroppo porta ad una certa monotonia nell’ascolto.
I personaggi, comunque, sono ben caratterizzati. Innanzitutto i contrasti tra le due coppie di innamorati: Varvara e Kudrjaš con il loro amore puro e semplice, scevro da contrasti che si esplicitano però con quello travagliato di Káťa e Boris che sotto gli influssi negativi dello zio Dikoj e della sconcertante autoritarismo della suocera/madre Kabanicha portano l’azione alla tragedia finale.
La realizzazione di questa edizione di Káťa Kabanová è stata affidata al regista Richard Jones, artista affermato nel campo delle realizzazioni del teatro per musica che il suo curriculum ci dice essere in possesso di una esperienza in questo settore dello spettacolo rivolto ad un ampio spettro della produzione operistica di tutti i tempi. Purtroppo anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un cambio d’ambientazione e d’epoca che ormai è una cosa scontata che non fa più nemmeno notizia essendo una soluzione divenuta con gli anni stantia e che riesce a raggiungere anche qui uno scollamento tra autore/creatore e interprete/realizzatore.
Jones, con il contributo di Antony McDonald per le scene e i costumi, di Lucy Carter per le luci e di Sarah Fahie per alcuni movimenti coreografici, ha concepito uno spettacolo che mutava l’ambientazione degli anni ’60 dell’800 collocata nella provincia rurale russa presso la riva alta del Volga in una ambientazione che vuole essere senza tempo ma che appare collocata negli anni ’50-’60 dello scorso secolo. Per avendo senza dubbio il pregio di descrivere lo squallore di quella società nel quale agiscono i personaggi protagonisti, appartenenti alla borghesia dei mercanti benestanti, nell’insieme l’impianto scenico, oltre a rimpicciolire lo spazio del palcoscenico, risulta del tutto pallido e sbiadito, contrastante con quell’elemento coloristico che la musica contiene, soprattutto con lo sfondo del fiume Volga la cui presenza è sottolineata dalla musica che questa realizzazione scenica tiene in secondo piano tradendo quell’elemento folkloristico che ne è uno degli elementi più importanti, non solo per la Kabanová, ma per tutte le opere appartenenti al repertorio cosiddetto slavo. Curati tutti i movimenti scenici del tutto funzionali alla ‘semplicità’ di base che ha caratterizzato questa realizzazione.
Per quanto riguarda la compagnia di canto è risultata del tutto omogenea e composta da ‘specialisti’ di questo particolare repertorio. Nella recita del 27 gennaio alla quale abbiamo assistito c’è stata, nel ruolo del titolo, l’apprezzabile prova del soprano Laura Wilde, esperta per questa parte, che ha forse evidenziato qualche limite nel registro più acuto fornendo però una interpretazione che ha messo in risalto la personalità e i contrasti interiori della sfortunata Káťa per una interpretazione molto apprezzata dal pubblico. Di rilevo la prova del mezzosoprano Susan Bickley che ci ha dato una Kabanicha del tutto ‘terribile’ scenicamente come richiede la peculiarità del personaggio per il quale ha messo a disposizione la sua esperienza operistica che va dal barocco al contemporaneo per realizzare con efficacia la linea vocale a lei dedicata. Per i due personaggi che scuotono la vita di Kabanová c’erano i tenori Julian Hubbard Tichon Kabanov e Charles Workman Boris Grigorijevič; entrambi hanno confermato il giudizio positivo ottenuto proprio qui all’Opera con applaudite interpretazioni, nell’ordine Cassius nel Julius Caesar inaugurale e Idomeneo nel 2019. Notevole anche per l’altra coppia di amanti Varvara del mezzosoprano Carolyn Sproule e Kudrjaš del tenore Sam Furness assieme ai quali occorre citare anche la buona prova del basso Stephen Richardson nel ruolo di Dikoj. Negli altri ruoli il baritono Lukáš Zeman Kuligin senza dimenticare Angela Schisano Fekluša e Sara Rocchi Glaša giovani stelle diplomate del progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma e dei due personaggi secondari, il tenore Giordano Massaro Un passante e il contralto Michela Nardella Una donna del popolo, entrambi appartenenti al Coro del Teatro dell’Opera.
David Robertson ha guidato l’Orchestra del Teatro dell’Opera e il Coro diretto da Roberto Gabbiani dimostrando attenzione per tutte le particolarità di questa importante partitura per una prova alla quale è mancata, forse, un po’ di vivacità.
Il numeroso pubblico presente a questo appuntamento ‘storico’ per la vita musicale della nostra città, ha applaudito a lungo e convintamente al termine della rappresentazione.
Claudio LISTANTI Roma 30 Gennaio 2022