di Claudio LISTANTI
La rappresentazione dell’Otello di Giuseppe Verdi era una delle più attese dal pubblico della presenta stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma. Non solo per l’ascolto di uno dei capolavori più importanti del repertorio lirico italiano ma anche per gli interpreti scelti per l’esecuzione, la bacchetta di Daniel Oren e ad una più che valida compagnia di canto composta, per le tre parti principali, dal tenore Gregory Kunde, vero e proprio mito di oggi per il ruolo di Otello, dal soprano Roberta Mantegna nel ruolo di Desdemona e dal baritono Igor Golovatenko per quello di Jago. La regia di Allex Aguilera è risultata gradevole e condivisibile nell’insieme.
Otello di Verdi è una delle opere più conosciute al mondo e la sua fama è dovuta innanzitutto al posto che occupa nell’ambito della produzione operistica di Giuseppe Verdi. Scritta nella piena maturità del musicista fu rappresentata la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 5 febbraio del 1887. Può essere considerata come il naturale e perfetto punto di arrivo della poetica musicale verdiana, iniziata nel 1839 e che in quasi 50 anni conobbe una costante e ragionata metamorfosi che ha condotto il teatro lirico italiano dagli alti traguardi raggiunti da Rossini e Donizetti, dove elemento essenziale era il ‘canto’ come valore assoluto al quale era affidata l’espressività di sensazioni e stati d’animo dei personaggi, per arrivare ad un modo di rappresentare l’azione in maniera del tutto funzionale fondendo i vari elementi musicali (voci, coro e orchestra) fino a raggiungere la teatralità, usando come mezzo espressivo il cosiddetto ‘declamato melodico’ geniale fusione tra canto e recitativo che consente di raggiungere una efficace teatralità.
Tutto ciò può essere considerata una sorta di rivoluzione in campo teatrale che rende la fruizione dell’opera lirica e del relativo intreccio del tutto ottimale in quanto frutto dell’amalgama tra le varie componenti che dona allo spettacolo una incontrastata unitarietà. Questa ‘rivoluzione’ nello stile compositivo verdiano si è protratta per piccoli, ma significativi, passi che hanno caratterizzato l’intero catalogo verdiano nel quale è sempre ben presente la ricerca dell’approfondimento del personaggio che diventa il fulcro della rappresentazione. Per fare qualche esempio la giovanile ‘coralità’ di opere come Nabucco e Lombardi già trova un punto di rottura con Ernani, opera che contiene importanti ‘abbozzi’ della personalità individuale; una ricerca che sarà esaltata con la cosiddetta ‘trilogia’ dei primi anni ’50 dell’ottocento considerata primo importante punto di arrivo.
Ma l’evoluzione non si arresta. Per questo ‘progetto’ teatrale non poteva che essere Shakespeare uno dei mezzi principali per realizzarlo. Verdi già nel 1847 aveva messo in musica una tragedia del drammaturgo inglese, Macbeth, dimostrando di avere un particolare sentimento per questo genere di teatro e di esserne in sintonia con lo spirito. Nella seconda parte della sua produzione operistica, quella successiva alla trilogia Rigoletto, Trovatore e Traviata, Verdi produce opere con meno frequenza ma con instancabile dedizione per portare a termine questa sua idea di teatro in musica. In questo periodo, che va dal 1855 al 1887 anno della prima di Otello, creerà solo otto opere tra le quali, alcune, scritte nella forma di Grand opéra, genere che in quegli anni stava esaurendo la sua spinta propulsiva ma che garantiva a Verdi la possibilità di presentare ritratti approfonditi dei personaggi storici che animano opere come Les vêpres siciliennes del 1855 e, soprattutto, Don Carlos del 1867, dove il ‘declamato’ assume particolare valore espressivo. Uno stile che si ritrova anche in Aida nel 1871, opera che pur non appartenendo al Grand opéra può essere considerata come diretta discendente.
Otello arriva dopo Aida ed è un punto di arrivo di questo percorso iniziato dopo la cosiddetta ‘trilogia popolare’. Ma all’orizzonte di Verdi ci sono altre novità ‘espressive’. Spunta la possibilità di creare un nuovo ‘stile’ di rappresentazione operistica che sia perfetta fusione tra musica, parola e scena, che Verdi realizzerà individuando come collaboratore ideale il letterato e musicista Arrigo Boito, appartenente a quella scuola di pensiero che va sotto il nome di Scapigliatura della quale Boito fu uno dei più eminenti rappresentanti.
Anche se tra i due ci fu una sorta di incomprensione ideologica dovuta alle idee scapigliate del Boito, la prima collaborazione tra i due artisti risale al 1862 quando Verdi compose per l’Esposizione Universale di Londra l’Inno delle Nazioni per il quale Boito fornì il testo poetico. La collaborazione poi proseguì nel 1881 con il rifacimento del Simon Boccanegra con il quale Boito si rese protagonista di un intervento poetico risolutivo per rafforzare drammaturgicamente quell’opera che lo stesso Verdi giudicava in un certo senso ‘debole’. Da qui la collaborazione artistica si strinse definitivamente e si esaltò quando Verdi decise di mettere in musica Othello di William Shakespeare, una tragedia la cui tematica dimostrava di essere stimolante per i suoi contenuti drammatici. Boito incoraggiò questa iniziativa del musicista mettendosi a disposizione per risolvere i problemi scaturenti dalle necessità artistiche esposte da Verdi.
Il letterato adattò il testo originale per creare un libretto del tutto incentrato sulla personalità di ogni singolo personaggio riuscendo a creare un’azione che mette in risalto la metamorfosi di Otello lacerato dalla sua inesplicabile gelosia che gli travolge l’anima e i sentimenti e lo porta al tragico esito finale. Per raggiungere ciò Boito, di concerto con Verdi, rinunciò al primo atto dell’originale Othello nel quale Shakespeare narra l’antefatto che serve da introduzione a quanto accadrà in seguito, proprio per creare la necessaria drammaturgia serrata che è uno degli aspetti fondamentali di questo capolavoro.
Verdi da parte sua concepì una partitura esemplare, basata su una orchestrazione del tutto raffinata e su una linea di canto realizzata tramite quel declamato melodico, poco prima accennato, che esalta tutto lo svolgimento dell’azione. La prima di Otello ebbe esito trionfale e quel trionfo perdura anche ai nostri giorni perché Otello attrae, sempre, un pubblico numeroso ed entusiasta.
Questa introduzione è indispensabile per riferire dell’edizione andata in scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma, soprattutto per comprenderne pienamente la specificità e la molto evidente validità nell’insieme.
Come avviene sempre più spesso oggi è necessario partire dalla realizzazione scenica affidata per l’occasione al regista catalano Allex Aguilera che qui al Teatro dell’Opera ha riproposto un allestimento dell’Opera di Monte Carlo e Opera Nazionale Tbilisi. Il suo curriculum ci dice che è in possesso di una non comune esperienza nel campo dell’opera lirica con collaborazioni con diversi teatri ed anche con la celebre compagnia La Fura dels Baus. C’è da dire ‘in primis’ che finalmente ci siamo trovati di fronte ad una realizzazione piuttosto aderente al testo rappresentato, lontana quindi da quelle intemperanze registiche che affliggono oggi il teatro lirico di tutto il mondo.
L’ambientazione è risultata aderente alla cornice cinquecentesca del libretto ed anche coerente con l’ambientazione cipriota del testo. Finalmente la scena è parsa colorata impreziosendo quelle scene di massa ben presenti nell’opera come la tempesta iniziale o il momento popolaresco del ‘fuoco di gioia’ e come il finale del terzo atto quando arriva a Cipro la delegazione della Repubblica di Venezia. La recitazione e tutti i movimenti scenici hanno messo in risalto l’azione e soprattutto orientata verso l’evidenziazione del declino interiore del protagonista Otello. La scena era contenuta all’interno di una suggestiva cornice costituita da tre piani di arcate che delimitavo in maniera del tutto congruente lo spazio scenico. Più o meno al centro del palcoscenico una sorta di ponte-passerella sormontava la scena con il compito di allargare, riuscendoci bene, lo spazio scenico. Unico inconveniente la scala a chiocciola concepita come collegamento tra la parte bassa e la parte alta della scena che costringeva i personaggi ad acrobazie (visti gli ampi costumi specialmente femminili) per utilizzarla.
Dobbiamo mettere in evidenza qualche riserva circa la scena finale per l’assenza del letto di Desdemona soprattutto per il momento della sua uccisione che è avvenuta in una sorta di botola o di fossa (dalla platea non si distingueva con precisione cosa fosse) che ha reso problematica l’interpretazione di questa scena cardine dell’opera come anche la collocazione della celebre ‘veste nuziale’ appoggiata sulla ringhiera della scala a chiocciola. Per la realizzazione della parte scenica si sono rivelati collaboratori essenziali Bruno de Lavènere per le scene, Françoise Raybaud Pace per i costumi, Laurent Castaingt per le luci e per la parte video Etienne Guiol e Arnaud Pottier.
Per quanto riguarda l’esecuzione c’è da dire che è stata utilizzata una compagnia di canto di alto livello. A giganteggiare Gregory Kunde nel ruolo del titolo che ha offerto una interpretazione del tutto soddisfacente. Kunde è un vero e proprio fenomeno vocale come dimostra il repertorio operistico in suo possesso che lo ha visto protagonista assoluto per diversi decenni. Partito dallo stile prettamente belcantistico di Rossini e Bellini e transitato per i grandi capolavori di Donizetti e del Grand opéra (a tal proposito si ricorderà la sua interpretazione nel settembre dello scorso 2023 ne La Juive di Halévy), per arrivare ai grandi ruoli verdiani tra i quali il suo Otello è senza dubbio punto di riferimento oggi, senza dimenticare i suoi successi pucciniani nelle interpretazioni, di Cavaradossi, Luigi del Tabarro e Calaf della Turandot. L’emissione vocale di Kunde è sempre misurata ed appropriata, un elemento che gli consente di esibire una voce fresca e squillante agevolato anche da una più che efficace pronuncia italiana che rendono le sue interpretazioni particolarmente appassionate ed intense. Protagonista anche di una efficace recitazione che, unita alle doti spiccatamente musicali, è riuscito a farci comprende tutta l’evoluzione interiore del personaggio Otello fino al tragico epilogo. Per lui un successo personale di grandi dimensioni tributato da un pubblico entusiasta della sua interpretazione.
Al fianco di Kunde due altri interpreti di rilievo. Il soprano Roberta Mantegna ci ha regalato una Desdemona tanto intensa quanto appassionata che nel quarto atto ha fornito una prova di grande stile ottenendo un lusinghiero applauso a scena aperta dopo l’Ave Maria.
Qui a Roma è conosciuta perché dopo essersi diplomata nel 2018 nella prima edizione di “Fabbrica”, lo Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, ha già interpretato con notevole successo diversi ruoli verdiani qui al Costanzi ed il successo ottenuto questa sera al debutto nel ruolo di Desdemona ha rafforzato la sua esperienza vocale. Jago era un energico Igor Golovatenko, baritono russo molto apprezzato a livello internazionale, per noi una vera e propria scoperta, grazie al suo incisivo e convincente Jago come motore assoluto della disgregazione interiore di Otello.
Nelle altre parti ha convinto il Cassio del corretto tenore Piotr Buszewski così come l’Emilia di Irene Savignano anch’essa diplomata di “Fabbrica” Young Artist Program per una parte che riserva diverse difficoltà che ci sembra abbia ben superato. Poi da ricordare il Rodrigo di Francesco Pittari, il Lodovico di Alessio Cacciamani, il Montano di Alessio Verna e l’Araldo di Fabio Tinalli. Tutti gli interpreti hanno contribuito a rendere attraente la parte vocale.
Lasciamo per ultimo Daniel Oren solo perché la sua grande esperienza direttoriale è stata messa al servizio di una esecuzione molto curata nell’insieme, nel canto, nel declamato, nei movimenti scenici, per giungere al fine ultimo di disegnare il travaglio interiore del protagonista che dallo sviscerato amore per Desdemona viene man mano fuorviato con astuzia da Jago per essere condotto nel baratro della gelosia, dell’incomprensione e dell’ingiustizia verso la sua sposa e giungere a compiere uno dei delitti più sordidi e squalidi dei quali un individuo si possa macchiare. Otello arriva fuori tempo massimo; non può più rimediare al suo comportamento e non gli resta altra via che il suicidio.
Una interpretazione, quella di Oren, del tutto funzionale per ottenere quella perfetta fusione tra musica, parola e scena della quale abbiamo prima parlato anche s siamo stati colpiti non solo dal piccolo taglio di una parte dei cori del secondo atto ma, soprattutto, dal taglio operato al concertato del finale del terzo atto, sorprendente ma incomprensibile, in quanto va ad interrompere un fase scenica importante anche per l’intelligibilità del pieno svolgimento scenico che mina un po’ quel senso speciale di unitarietà d’insieme. Comunque una direzione del tutto lucida e incisa che ha messo in risalto non solo la splendida orchestrazione dell’opera ponendo anche estrema cura alla fusione tra la parte strettamente strumentale e quella vocale che, proprio in quest’opera, possiede enorme valenza espressiva.
Per ottenere tutto ciò Oren ha avuto la collaborazione non solo della parte scenica e vocale come prima evidenziato ma anche dell’Orchestra del Teatro dell’Opera e del Coro del Teatro dell’Opera ben istruito da Ciro Visco senza dimenticare la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma.
La recita alle quale abbiamo assistito (4 giugno) si è conclusa con un consistente successo di pubblico che ha applaudito a lungo non solo Daniel Oren ma tutti gli interpreti di quella che è stata una serata di grande musica e di grande interpretazione.
Claudio LISTANTI Roma 9 Giugno 2024