di Mario URSINO
Come ho “visitato” i templi ad Angkor in Cambogia
Diceva quel gran personaggio che è stato Leo Longanesi in una delle sue fulminanti battute: “Inutile partire, i grandi viaggi si compiono in biblioteca”. Ed è una di quelle che maggiormente mi è rimasta impressa nella memoria, e che soprattutto durante l’estate, e in particolare mi torna in mente nel mese di agosto, quando le città si sono svuotate, e tutti si precipitano nelle affollatissime località balneari e montane. E allora come ho fatto a recarmi in Estremo Oriente a visitare quei millenari e misteriosi templi che resistono ancora lì, vincendo la forza inarrestabile della foresta cambogiana? È semplice, ho seguito alla lettera (e non è la prima volta) il consiglio del geniale Leo Longanesi. Ho attinto dallo scaffale uno dei libri del grande scrittore inglese William Somerset Maugham (1874-1975) [fig. 1], il mio preferito tra i romanzieri britannici del’900, The gentleman in the Parlour, edito per la prima volta nel 1930 a Londra da W. Heinemann [fig. 2], in italiano nella bella traduzione del nostro
scrittore Luciano Bianciardi (1922-1971), Il gentiluomo in salotto, Milano, 1963. Ma come ben sanno tutti quelli che leggono Maugham, non si tratta di chiacchiericci all’ora del tè, o al momento del cocktail, bensì di un lungo viaggio che Somerset Maugham compì nel 1922, partendo da Londra per Ceylon e da qui, con un più preciso e impervio viaggio, nei territori, allora colonie britanniche e francesi, nel Sud-Est Asiatico, da Rangoon (Birmania, oggi Myanmar) ad Hipong (Vietnam), sia via fiume Mandalay, a cavallo o su mulo, per le montagne e le foreste della parte degli Stati Shan, la parte più orientale, fino a Bangkok, e poi in barca verso la Cambogia per visitare e perdersi un po’ fra quei misteriosi templi (viaggio riassunto iconograficamente in una xilografia di C. W. Bacon del 1950, che illustra The Gentleman in the Parlour, per la rivista settimanale “Radio Times” di Londra, fig. 3), in un’epoca in cui quell’area geografica era ben lungi dai percorsi oggi organizzati per il turismo di massa, sebbene i templi di Angkor (sec. XII-XIII, cfr. Le Monde de Angkor, par Henri Stierlin, Pully, Suisse, 1979, pp- 34-68, courtesy Massimo Porfirio) erano stati già oggetto di pubblicità nel 1911 [fig. 4]* .
Ho seguito perciò l’impareggiabile e stancabile paziente viaggiatore in condizioni che nessuno di noi oserebbe ripetere (tanto meno io), ma che la sua narrazione, semplice, piana, priva di orpelli linguistici, per sua stessa ammissione descrive in modo da farci “vedere” e sentire talvolta anche il silenzio della giungla, il rapporto con i nativi che lo servivano e lo guidavano attraverso sentieri e guadi per raggiungere villaggi sperduti dove, in alcuni casi, non avevano mai visto un uomo bianco. Non mancano però degli incontri occasionali con persone incrociate nelle città attraversate appunto da Rangoon a Bangkok, che Maugham ritrae al meglio, come solo lui ha saputo fare negli innumerevoli racconti e romanzi, sullo sfondo dell’impero coloniale inglese al suo apice e nello stesso tempo, all’inizio della sua decadenza. Dice Maugham: “Il potere britannico vacillava perché i padroni erano «timorosi di governare», turbati dalla sensazione di essere «inadatti»”. Tutti i suoi libri raccontano questo, ma non come analisi storico-politica, bensì attraverso la descrizione attenta dei tratti somatici e delle figure dei suoi personaggi, con fine percezione psicologica del carattere degli stessi (va ricordato che Maugham, prima di diventare scrittore, si era laureato in medicina, e aveva lavorato negli ospedali, prestando sempre grande attenzione alle storie dei pazienti che parlavano spesso della loro vita). Questo è l’aspetto più importante e caratteristico della personalità artistica dello scrittore, in tutte le sue opere, ma ora estraggo qui qualche significativo brano dalla pagine del suo Il gentiluomo in salotto, per il modo in cui ci guida nei templi di Angkor Wat (che significa Tempio della Città), tanto che posso quindi affermare di aver “visitato” (come dicevo più sopra) anch’io, quelle straordinarie testimonianze architettoniche e cultuali nell’estremo sud-est asiatico.
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Scrive Maugham: “Se veramente avete curiosità di sapere com’era questo stupendo monumento prima che il restauratore si mettesse all’opera (e bisogna ammetterlo, senza strafare) potete averne un’impressione assai plausibile seguendo uno stretto sentiero nella foresta, allorché vi troverete dinanzi un gran portale grigio coperto di lichene e di muschio [fig. 5]. Nella parte superiore del portale, ai quattro lati, emergendo appena dalla muratura in rovina, è ripetuta quattro volte la testa impassibile di Siva. Sui due lati del portale, seminascosti dalla giungla, sono le rovine di un muro massiccio e dinanzi ad esso, affollato d’erbacce e di piante acquatiche, un largo fossato. Entrando vi troverete in un vasto cortile […]. Vi crescono alberi enormi che torreggiano su tutto [fig. 6] […] Qua e là su un bassorilievo che miracolosamente è rimasto al posto suo, ecco le danzatrici velate di lichene […]. Per secoli la natura ha continuato la sua battaglia contro la mano dell’uomo; […]. Caso volle che un giorno, verso buio, mentre giravo per il tempio, perché con le sue rovine suscitava singolari sensazioni che avevo la curiosità di esprimere a me stesso, mi cogliesse una tempesta […]. Mi fermai sul portale e quando il fulmine ruppe le tenebre vidi la giungla stendersi interminabile dinanzi a me e mi parve che questi grandi templi e i loro dei fossero cosa insignificante dinanzi alla fiera potenza della natura […]. Infatti la natura è la più possente fra tutti gli dei”.
“Il wat di Angkor è disposto in direzione est-ovest e il sole sorge proprio sopra le cinque torri che lo sormontano. Attorno c’è un vasto fossato, che si traversa su un grande terrapieno selciato di pietre, e gli alberi si riflettono delicatamente nell’acqua ferma.
È un edificio più impressionante che bello, e ci vuole il chiarore del tramonto o la bianca lucentezza della luna per dargli un’avvenenza che tocca il cuore [fig. 7]. […] Sono le torri mistiche dell’alta cittadella dello spirito [fig. 8]. Il tempio e i suoi annessi furono costruiti su un disegno ben preciso [fig. 9]. […] Una costruzione così semplice diede allo scultore ampia occasione decorativa. Capitelli, pilastri, piedistalli, portali, finestre sono arricchiti da intagli di varietà inimmaginabile […]. Le gallerie sono adorne di bassorilievi, e famose in tutto il mondo; ma sarebbe sciocco tentar di descriverle, come tentar di descrivere la giungla. Ecco qua principi sull’elefante, l’ombrello aperto sul capo, che sfilano fra gli alberi; formano un bel disegno che si ripete identico per tutta la lunghezza della parete [fig. 10].
Là ecco lunghe file di soldati che marciano verso la battaglia, e i gesti delle braccia e i movimenti delle gambe hanno lo stesso modulo formale delle danzatrici cambogiane [fig. 11] […]. Tu hai l’impressione di un’attività sbrigliata, del trambusto e della tensione della battaglia, […] l’artista non mirava alla bellezza ma all’azione; gl’importava poco l’eleganza del gesto o la purezza della linea [fig. 12]; il suo non era un sentimento rammemorato in quiete, ma una passione viva senza limiti”.
“Venne l’ultimo giorno che potevo passare ad Angkor. La lasciavo con strazio, ma sapevo ormai che per quanto ci restassi, sempre sarebbe stato uno strazio lasciarla […]. Quella sera una troupe di danzatrici cambogiane si esibì sul terrazzo del tempio. Ci scortarono lungo il terrapieno ragazzi recanti torce accese, e la resina riempiva l’aria di un profumo aspro, piacevole. Le torce formavano un gran cerchio di fiamma, tremolante e incerto sul terrazzo, e nel mezzo le danzatrici seguivano il loro strano metro. Musicisti, nascosti dalle tenebre, suonavano zampogne, tamburi e gong; era una musica vaga, ritmica, che dava ai nervi […]. Le danzatrici indossavano vesti aderenti coloratissime e in testa alte corone d’oro. Di giorno senza dubbio sarebbero parse cose da poco, ma in quella luce inattesa avevano una misteriosa ridondanza che raramente si trova in Oriente. I loro volti impassibili erano mortalmente pallidi di cipria, al punto di parere maschere. Nessuna emozione, nessun rapido pensiero doveva disturbare l’immobilità della loro espressione. Avevano mani belle, con dita piccole e affusolate, e col progredire della danza i gesti complicati indicavano eleganza e sottolineavano la loro grazia. Quelle mani erano come orchidee rare e fantastiche. Non c’era abbandono nella loro danza: atteggiamenti ieratici e movimenti formali. Erano come idoli che fossero venuti alla vita, ma restando impregnati di divinità.
E quei gesti, quegli atteggiamenti, erano identici a quelli delle baiadere scolpite dagli antichi artisti sulle pareti del tempio [figg. 13-14]. Immutati dopo mille anni. Ripetuti all’infinito su ogni parete di ogni tempio,
tu vedrai quell’identico elegante serpeggiare delle dita delicate, quello stesso inarcarsi dei corpi snelli, che ti deliziano l’occhio nella danzatrice vive innanzi a te [figg. 15-16]. Non c’è da meravigliarsi se sono solenni sotto le corone d’oro, giacché stan sotto il peso di una così antica tradizione.
La danza finì, le torce si estinsero e la piccola folla sciamò alla rinfusa nella notte. Mi misi a sedere sul parapetto per dare un’ultima occhiata alle cinque torri del wat di Angkor”.
“I miei pensieri tornarono al tempio che avevo visitato un paio di giorni prima. Si chiama Bayon [fig. 17]. Mi sorprese perché non aveva l’uniformità degli altri templi già visti. Consiste d’una moltitudine di torri l’una sull’altra, disposte simmetricamente, e ogni torre è una gigantesca testa a quattro facce di Siva, il Distruttore. Stanno a semicerchio l’una accanto all’altra e le quattro facce del dio sono sormontate da una corona decorata [fig. 18]. Nel mezzo c’è la torre grande con le facce disposte l’una sull’altra, fino alla sommità. È devastata dal tempo, dappertutto crescono rampicanti e piante parassite, sì che a una prima occhiata vedi solo un ammasso informe e bisogna che tu presti un po’ più di attenzione perché queste facce impassibili, pesanti, tacite, escano dalla pietra. Poi le hai tutt’intorno. Ti fronteggiano, ti stanno a fianco, dietro, mille occhi invisibili ti sorvegliano. Paiono guardarti da una distanza remota del tempo primevo e tutt’intorno a te cresce fiera la giungla”.
“[…] i bassorilievi che s’allineano lungo uno dei suoi corridoi. Non sono molto ben fatti, ed è ovvio che gli scultori non ebbero gran senso della forma o della linea, eppure hanno un interesse che adesso me li richiama nettissimi alla memoria. Infatti rappresentano scene della vita comune ai tempi in cui furono fatti, la preparazione del riso per la pentola, la cucina del cibo, la cattura del pesce e degli uccelli [fig. 19], la compravendita alla bottega del villaggio, la visita del medico, insomma le diverse attività della gente semplice.
Stupivo nello scoprire quanto poca sia cambiata questa loro vita in mille anni. Fanno ancora le stesse cose con gli stessi utensili […]. Questa gente tenace e laboriosa porta gli stessi carichi sugli stessi gioghi [fig. 20] su cui li portavano i loro antenati tante generazioni or sono. […]. Quindi mi parve che in questi paesi d’Oriente il monumento dell’antichità più impressionante e stupefacente non fosse né il tempio, né la cittadella, né la grande muraglia, ma l’uomo. Il contadino con i suoi usi immemorabili appartiene a un’era anche più antica del wat di Bangkok, della grande muraglia cinese, delle piramidi d’Egitto”, conclude Maugham a proposito del suo viaggio in Cambogia nel 1922. Forse qualcosa di quella vita nei villaggi più remoti birmani, del Laos, dell’Indocina, del Vietnam, nelle montagne della Thailandia, oggi è ancora così.
Mario URSINO Roma 1° settembre 2018
* Le rovine di Angkor erano già note fin dal XVI secolo e alcuni viaggiatori, per lo più monaci missionari e qualche mercante, le avevano citate nei loro diari, ma il primo a darne una descrizione particolareggiata fu il naturalista francese Henri Mouhot (1826-1861) nel suo Travels dans les Royaumes de Siam de Cambodge, de Laos et autres parties centrales de l’Indo-Chine, illustrato in bianco e nero, pubblicato postumo nel 1868 [fig. 21].
Attraverso il suo racconto Mouhot rese popolare Angkor in occidente, avendo descritto tale sito in maniera suggestiva corredata con disegni assai dettagliati [fig. 22]. Mouhot paragona Angkor alle piramidi per quanto erano famose in occidente. Ad esempio, descrive le teste dei Buddha sulle porte di Angkor Thom come “quattro enormi teste in stile egizio”. Maugham durante il suo viaggio aveva letto il libro di Mouhot e scrive: “il suo libro è una lettura piacevole. È un resoconto diligente ed esplicito, molto caratteristico dell’epoca […]. Il signor Mouhot racconta molte cose che difficilmente stupirebbero non solo il viaggiatore più sofisticato ma anche il più modesto dei nostri giorni. Ma a quanto pare l’autore non era sempre esatto, e la mia copia del libro recava le annotazioni di un pellegrino a lui posteriore. Queste correzioni erano ben scritte da una mano che pareva decisa, ma io non posso dire se quei non è così, quei ben lungi, quei sbagliato, quei palese errore, dipendessero da un disinteressato desiderio di verità, dall’intento di guidare i futuri lettori, o soltanto da un senso di superiorità […]. Ma il wat di Angkor che vide l’intrepido sguardo di Henri Mouhot, era assai diverso da quello che può visitare oggi il turista”.”
- I brani riportati sono tratti dal testo già sopra indicato, Il signore in salotto, 1963, pp in. 158-168.
- Le foto che corredano il mio testo sono state selezionate tra quelle disponibili in rete.