di Francesco PETRUCCI
Il ciclo decorativo di Palazzo Bonaparte: capolavoro di Taddeo Kuntze
La recente iniziativa di Generali Italia di rendere accessibile al pubblico, a seguito degli ultimi restauri (2017), il Palazzo Bonaparte già D’Aste Rinuccini in piazza Venezia a Roma, è senz’altro encomiabile e degna dei più positivi apprezzamenti.
Forse invece dell’ennesima mostra sul sopravvalutato movimento francese (Impressionisti segreti, 6 ottobre 2019 – 8 marzo 2020), benché motivata dalla presenza di opere poco note e scarsamente accessibili al pubblico, sarebbe stato auspicabile a mio avviso inaugurare un palazzo romano, nel cuore della capitale, con un evento legato alla moltitudine di artisti che qui hanno operato nel corso dei secoli o alle illustri famiglie che furono proprietarie della dimora.
Certamente la lodevole iniziativa offre comunque l’opportunità di poter finalmente visitare il palazzo e prendere visione del vasto ciclo decorativo neoclassico che decora le volte di varie sale al piano nobile, ove è allestita la mostra.
È stato tuttavia con sorpresa che ho potuto constatare non solo l’assenza di una corretta lettura iconografica delle tematiche espresse nelle decorazioni, ma anche la mancata conoscenza del nome del loro autore, sia nei pannelli didattici presenti nelle sale che nel catalogo della mostra, con ambiguità sull’epoca della loro realizzazione e riferimenti prevalenti al periodo in cui il palazzo fu residenza di Maria Letizia Bonaparte, tra il 1818 e il 1836.[1]
Si parla infatti di “stile impero”, di rapporti con gli “appartamenti napoleonici del castello di Fontainbleau”, di “un talentuso artista ancora ignoto” e “raffinato decoratore neoclassico”. I restauri avrebbero in tal caso riportato la dimora “agli splendori ottocenteschi … emblema del gusto personale di Letizia…”. D’altronde tali incongruenze erano già presenti nel volume sul palazzo del 1981.[2]
In realtà, per chi avesse qualche dimestichezza con la pittura romana del ‘700, sarebbe agevole riconoscere negli affreschi la mano del più prolifico professionista attivo nella “decorazione d’appartamento” della seconda metà del secolo, cioè il pittore polacco romanizzato Taddeo Kuntze (Zielona Góra 1727 – Roma 1793). Qui ancora una volta in probabile collaborazione con il quadraturista Giovan Battista Marchetti, per le parti ornamentali.
A tale riguardo è il caso di ricordare che la paternità del Kuntze, massimo artista polacco del XVIII secolo, era stata riconosciuta in questo ciclo quasi quarant’anni fa da Erich Schleier, cui si deve peraltro il ritrovamento di numerose sue opere tra Roma e il Lazio. L’attribuzione è comunque registrata nella bibliografia successiva sul pittore.[3]
In ogni caso tale lacuna lascia ancor più meravigliati per il fatto che, curiosamente, proprio di fronte al palazzo, con ingresso sul prospicente vicolo Doria n. 2, ha sede l’Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro Studi a Roma.
Taddeo Kuntze, attivo per il cardinale Duca di York, i principi Borghese, Corsini e Ruspoli nella decorazione di residenze a Roma e nei Castelli Romani, ma anche nel Palazzo del Quirinale su commissione di Clemente XIII, eseguì numerose pale d’altare ed affreschi in varie chiese laziali. Molte sue opere si conservano a Cracovia e Varsavia, ma alcune sono confluite anche in importanti musei internazionali (Prado, Louvre, Metropolitan Museum of Art, Rhode Island Museum di Providence). L’artista è noto peraltro per aver ospitato durante il suo soggiorno romano Francisco Goya (1769-71), che ne subì l’influsso, mentre è il progenitore, per tramite della figlia Maria Isabella, della famosa dinastia di pittori spagnoli Madrazo y Kuntz.[4]
Il pittore polacco decorò in Palazzo Bonaparte le volte di otto ambienti al piano nobile, comprese le intere pareti di una sala, varie porte e finestre, ma anche il famoso “mignano”, cioè la balconata che fa angolo tra via del Corso e piazza Venezia. Splendidi naturalmente i camini canoviani che arredano varie sale.
Posso aggiungere in questa sede che il ciclo è incentrato prevalentemente sull’allegoria delle parti della giornata, con La Notte e Il Giorno in due sale verso via del Corso, le fasi intermedie dedicate al Crepuscolo e all’Aurora in altre due sale dalla parte opposta verso vicolo Doria.
La commissione dell’impresa decorativa, come ritiene Schleier, si deve probabilmente a monsignor Giovanni Rinuccini (Firenze 1743 – Roma 1801), che risiedette nel palazzo dal 1780 alla sua scomparsa. Il ciclo fu presumibilmente portato a compimento negli anni ’80, comunque prima della morte del Kuntze avvenuta nel 1793 e della nomina cardinalizia del Rinuccini da parte di Pio VI nel 1794.
La decorazione della “Sala delle Panoplie”, la prima dopo lo scalone principale, è interamente ottocentesca, risalendo ai tempi di Madama Letizia, come indica chiaramente lo stile e conferma la scritta “Bonaparte” sulla sommità delle panoplie.
Nella contigua “Sala dei ricevimenti” con affaccio su via del Corso, Kuntze dipinse nel grande pannello rettangolare al centro della volta, circondato da una poderosa cornice in stucco con foglie di lauro, il tema che ha dato il nome all’ambiente: Il Convito degli Dei (fig. 1).
Si occupò inoltre dell’intera decorazione delle pareti, scandite da paraste ioniche decorate con candelabre avvolte da nastri, collegate superiormente tramite festoni floreali, che includono in finte nicchie statue di divinità e virtù femminili sovrastate da cartelle con scene bacchiche, allusive a libagioni. L’elegante fregio a stucco è animato da mascheroni e cornucopie (figg. 2, 3, 4).
La decorazione, che ricorda quella della “Sala dei paesaggi” dell’Episcopio di Frascati, è quindi settecentesca e non di età napoleonica, come riportava erroneamente anche il volume sul palazzo pubblicato nel 1981 e rettificò subito dopo Schleier.[5]
Il paesaggio italianizzante in una nicchia su una parete corta della sala viene definito in catalogo “scenografica pittura di marina in stile fiammingo”, mentre in realtà risulta firmato “CARLO BONAFEDI = 1920 / FIORENTINO. PINSE”. Si tratta probabilmente del poco noto paesaggista Bonafedi (Firenze 1891-?), allievo di Telemaco Signorini, che qui si cimenta in un’opera in stile uniformata al gusto settecentesco della sala, nemmeno di un artista coinvolto dai Rinuccini per la comune origine fiorentina, come supponeva Schleier che non aveva potuto leggere la data. Tale commissione si deve quindi ai marchesi Misciattelli, proprietari del palazzo dal 1905 al 1972.[6]
Nella cosiddetta “Sala Gialla” il Kuntze ha dipinto l’intera volta, con al centro, in una cornice mistilinea a stucco di fogliame d’edera, una giovane donna alata in volo con un manto azzurro che porta in testa una corona di capsule di papaveri, riferimento al sonno e alla notte.
Tale concetto è ribadito dalla luna che spunta in un cielo grigio coperto da nubi scure e da uno dei due putti a fianco della donna con gli occhi chiusi, evidentemente addormentato, il capo coperto dal manto (figg. 5, 6, 7).
Si tratta quindi di un’Allegoria della Notte e non di Diana o della Luna, come riportava invece Leopoldo Sandri nel libro del 1981, ma anche Schleier e ribadisce il catalogo della mostra.[7]
In effetti secondo l’Iconologia di Cesare Ripa, manuale iconografico imprescindibile per ogni artista del passato, La Notte è raffigurata come una “Donna, vestita d’un Manto azzurro […] e habbia alle spalle due grand’Ali in atto di volare; sarà di carnagione fosca, e avrà in capo una Ghirlanda di Papavero […]”, avendo a fianco due fanciulli. Naturalmente non può mancare la “Luna, dominatrice della notte”.[8]
Sui medaglioni ovali agli angoli sono invece presenti divinità mitologiche, cui si raccordano ulteriori motivi iconografici in sei scomparti ottagonali e due lunette, tutti inseriti in cornici chiare sul fondo giallo.
Nella grande sala d’angolo tra via del Corso e piazza Venezia il pittore polacco ha eseguito nel riquadro centrale della volta, circondato da una cornice mistilinea in stucco a terminazione stondata, Fetonte chiede il carro solare ad Apollo, come riportavano Leopoldo Sandri e Schleier, e non “Apollo Musagete” che guida le muse al Parnaso (figg. 8, 9).[9]
La rappresentazione, ispirata alle Metamorfosi di Ovidio e probabilmente consapevole dell’analogo soggetto trattato da Nicolas Poussin (Berlino, Staatliche Museen), noto anche attraverso incisioni, illustra un’allegoria de Il Giorno, alla presenza delle “Stagioni” (da sinistra Bacco-Autunno, Vera-Primavera, Cerere-Estate e Saturno-Inverno) e del Tempo, mentre le Ore preparano il carro e la Notte precipita nel buio.
Il resto della volta, caratterizzato da giovani alati seduti su volute, grifoni in lunette e motivi ornamentali neoclassici, risale a mio avviso sempre al medesimo momento e non fu affrescato in età napoleonica, come ritiene Schleier, ad esclusione del monogramma Bonaparte con corona imperiale inserito successivamente nelle lunette centrali con leonesse alate (figg. 10, 11). Anche porte e finestre della sala mostrano ancora la decorazione a grottesca di Kuntze e Marchetti.
Come premesso, risale invece al ‘700 ed è interamente ornata con gusto neoclassico da Kuntze, sempre in collaborazione con Marchetti, la contigua balconata detta “mignano”, uno dei motivi architettonici caratteristici dell’edificio, credo coevo a tale partito ornamentale, presente in alcune vecchie immagini della piazza.
La decorazione raffinatissima, che ricorda la sala del Casino Stazi ad Ariccia dipinta da Kuntze tra il 1768 e il 1770, ricopre interamente pareti e soffitto, con medaglioni, ghirlande, erme e cartelle (figg. 12, 13).[10]
La volta dell’ambiente successivo, detto “Stanza dell’Imperatore”, è affrescata con una complessa ornamentazione neoclassica recante al centro in un ovale Minerva, allegoria della Sapienza, con a fianco un putto che mostra una lampada accesa quale “lume dell’intelletto” e stringe un ramo di olivo a dimostrazione che “dalla Sapienza nasce la pace interiore” (figg. 14, 15).[11]
I quattro tondi ai lati illustrano invece con figure femminili le allegorie delle arti: architettura, pittura, poesia e scultura. Anche questa decorazione, come ha notato Schleier, assomiglia a quello del Casino Stazi di Ariccia.[12]
La “Camera da letto di Madama Letizia” che fa angolo tra piazza Venezia e vicolo Doria, presenta al centro della volta, ornata con motivi a festoni, un genio alato che tiene una cornucopia da cui esce fumo nero che comincia a spandersi nel cielo, mentre un putto alato fa cenno di silenzio in riferimento alla notte incipiente. Nelle cartelle esagonali agli angoli sono presenti putti che svolgono attività allusive al sonno e alla veglia serale: accendere la lampada, leggere con l’ausilio di una candela, dormire, scrutare il firmamento (figg. 16, 17).
Non si tratta quindi di un allegoria della Fortuna, come riportava Sandri e conferma il catalogo citato “ove la Fortuna è dispensatrice di beni” che uscirebbero dalla cornucopia, ma di un’Allegoria del Crepuscolo serale. Schleier in effetti rimaneva indeciso tra quest’ultimo e la Notte, che tuttavia come abbiamo visto ha una diversa iconografia ed è presente in un’altra sala.[13]
Cesare Ripa in effetti definisce il “Crepuscolo della sera” nell’edizione del 1603 come “Uomo carnagione bruna, ali”, ma anche il putto vicino, “Fanciullo ancor egli, e parimente alato, e di carnagione bruna”, è allegorico del Crepuscolo, secondo l’edizione di Ripa del 1765.[14]
Il piccolo vano di passaggio tra la “Stanza dell’Imperatore” e la prima sala con affaccio sul cortile, era probabilmente un’anticappella (dato che l’attuale cappellina, un tempo in continuità con questo ambiente ed oggi separata da un muro, è rivolta invece verso la sala del Giorno), portando sulla volta al centro la colomba dello Spirito Santo, come nella cappella dell’Episcopio di Frascati.
Le cartelle rettangolari in alto, sui lati corti dell’ambiente, ospitano monocromi con L’Annunciazione e Il Sogno di Giuseppe, anch’essi mano del Kuntze come rilevava Schleier (fig. 18).[15]
La prima stanza che affaccia sul cortile, oggi occupata da servizi, espone in un tondo al centro della volta una figura femminile in volo a cavallo di Pegaso, mostrando un serto di fiori e una face: si tratta di un’Allegoria dell’Aurora, a conclusione del ciclo sulle fasi della giornata. La corretta iconografia era stata individuata da Schleier, mentre Sandri la identificava con “Imperatore sul cavallo alato della gloria” (fig. 19).[16]
In effetti Ripa descrive l’Aurora come “Una Fanciulla alata, di color incarnato, con un manto giallo indosso. Avrà in mano una Lucerna fatta all’antica accesa. Starà a sedere sopra il Pegaso Cavallo alato […] nella stessa mano tiene una Fiaccoletta accesa, e colla destra sparge fiori”.[17]
La rappresentazione d’altronde è molto simile a quella della medesima allegoria dipinta da Kuntze nell’alcova dell’appartamento Corsini-Barberini, in Palazzo Corsini alla Lungara.[18]
La sala successiva, compresa tra quelle dell’Aurora e della Notte, presenta invece in un lungo ovale al centro della volta, circondato da cornice in stucco e conchiglie agli angoli, due Cherubini con simboli ecclesiastici, cioè la corda a pendagli allusivi alle nappe del galero da monsignore di Giovanni Rinuccini committente del ciclo (fig. 20).
L’ultima sala che chiude il percorso anulare, adiacente la Sala delle Panoplie, è priva di parti figurate, essendo decorata con una geometria a losanghe convergenti in una grande cornice a stucco, che include ventagli laterali e una raggiera al centro. Essa probabilmente si deve interamente al Marchetti.
In conclusione si può affermare che, allo stato attuale delle conoscenze, quello di Palazzo Bonaparte sia il più vasto ciclo decorativo eseguito da Kuntze e probabilmente il suo ultimo, riaffermando ancora una volta la centralità di Roma nella nascita e nell’affermazione del Neoclassicismo.
Convive anche qui, come in altre sue opere di collaborazione con Marchetti, la presenza di motivi manifestamente connessi alla rivisitazione neoclassica dell’antico, con una cultura ancora legata al Rococò, senza apparente discontinuità, sebbene il linguaggio di Kuntze manifesti a partire dagli anni ’70 cromatismi innovativi proto-ottocenteschi e una tendenza alla semplificazione formale con abbandono della linea curva, indirizzandosi verso una costruzione formale basata su tagli netti ed essenziali, in linea con i modi sviluppati dall’amico Goya dopo l’esperienza romana.
Francesco PETRUCCI Roma 5 gennaio 2020
NOTE