“Tamquam membrum putridum et foetidum”. Caravaggio e i Cavalieri di Malta, la fine di un rapporto

di Mario URSINO

Lo sguardo allusivo e intrigante del paggio nel  Ritratto di Alof de Wignacourt del Caravaggio

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Ars utinam mores animumque effingere posses pulchrior in terris nulla tabella foret ”(Arte magari tu possa rappresentare il comportamento e l’animo, non ci sarebbe al mondo opera più bella) recita il noto epigramma [fig. 1] del poeta latino Marziale (I sec. d.C.), che si può leggere sul fondo del Ritratto di Giovanna Tornabuoni, 1488, del Ghirlandaio [fig. 2].

 

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Eppure pare proprio che i mores animumque, nella pittura del Caravaggio, vengano prepotentemente fuori nella rappresentazione delle sue figure.

D’altra parte il verbo effingere, ha scritto il famoso filosofo francese Jean-Luc Nancy nel suo penetrante saggio Le regard du portrait (2000) (Il ritratto e il suo sguardo, trad. it. 2002, fig. 3), significa anche “far uscire”, “mettere in forma”, e perciò scrive:

Questa esclamazione vale per tutti i ritratti, e per tutta la pittura: a intenderla bene non si limita all’augurio e al sentimento di insufficienza che viene evocato (…) ma afferma che proprio questo quadro deve poter essere visto come ciò che difatti fa vedere”.
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Il filosofo francese quindi ribalta, in un certo senso, l’aura poetica dell’irraggiungibile (corsivo mio) che l’epigramma del Marziale ha voluto esprimere per dare senso ai mores animumque che il pittore (non penso però tutti i pittori) di ritratti  rappresenta con forme e colori. In questo senso, e alla luce del pensiero di Nancy, che peraltro non cita il Caravaggio al riguardo, credo andrebbe interpretato il celebre dipinto del Caravaggio, Ritratto in armatura del Gran Maestro Alof de Wignacourt e del suo paggio, 1607-1608, al Louvre [figg. 4-5], che, come affermano gli studiosi del Merisi, valse all’artista l’ambito titolo di Cavaliere di Obbedienza Magistrale dell’aristocratico e potente Sovrano Ordine Militense di San Giovanni [fig. 6].

 

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Ma, come sappiamo, tale privilegio per il pittore durò pochissimo, poiché l’artista per il suo mal comportamento venne presto incarcerato duramente nel Forte Sant’Angelo a Malta, dal quale riuscì presto a fuggire rocambolescamente, e in circostanze tali dalle quali sarebbe stato praticamente impossibile evadere. Si suppone  che Caravaggio sia stato aiutato dallo stesso direttore del carcere, fra’ Girolamo Carafa, parente della marchesa di Caravaggio, Costanza Colonna, sua protettrice e dal figlio di lei, Fabrizio Sforza Colonna, ammiraglio di tutte le galee dell’Ordine. L’evasione avvenne, secondo le fonti, il 6 ottobre del 1608, “violando gravemente gli Statuti dell’Ordine”, come ha scritto Stefania Macioce, che ha revisionato con puntualità i documenti relativi ai processi dei cavalieri maltesi, a più riprese (1994, 2000, 2002, 2003, 2010), nei suoi molteplici, fondamentali saggi e ricerche sul Caravaggio. La studiosa ci ricorda, in questo caso, il passo fondamentale dello Statuto dei Cavalieri, laddove si afferma:

Non è lecito né in modo alcuno è permesso, ad alcuno de’ Fratelli nostri, habbiano qualsivoglia Dignità, od Ufficio di partirsi nascostamente o palesemente, senza espressa licenza del Maestro, ridotta in scritto”.

La fuga quindi è un vero e proprio reato e una lesa maestà al Gran Maestro che  aveva voluto Caravaggio a Malta, previo l’assenso dell’allora Pontefice Paolo V Borghese, nonostante il noto delitto commesso dall’artista a Roma nel 1606, anche al fine di fargli implorare la Grazia al Sommo Pontefice. Ma i suoi comportamenti a Malta non furono conformi alla regola dell’Ordine, fra risse nelle taverne, duelli e ferimenti tra Fratelli, come quello avvenuto nella notte del 18 agosto 1608 in casa dell’organista della Chiesa conventuale di San Giovanni, dove sette cavalieri italiani si affrontarono con le armi, tra cui lo stesso artista (cfr. S. Macioce, in Caravaggio, Roma 2010, pp. 238-239). E tutto ciò a solo poco meno di un mese dalla nomina di Cavaliere di Obbedienza Magistrale, avvenuta il 14 luglio 1608. Queste dunque sono le ragioni ufficiali del processo di radiazione del pittore dall’Ordine di San Giovanni quale “…membrum putridum et foetidum eiectus et separatus fuit” che si tenne due mesi dopo la fuga del Caravaggio verso la Sicilia.

Ma si trattava solo di questo?

Il Gran Maestro in effetti ordinò di catturare del fuggiasco, arrestarlo, rinchiuderlo in qualsiasi carcere dei vari Priorati, ed infine ricondurlo a Malta per fargli scontare la pena. Ma per quale ragione, visto che era stato processato in absentia e privato della Dignità che gli era stata concessa in virtù dei capolavori che ivi aveva dipinto, incluso il solenne ritratto del Gran Maestro con il suo paggio? Perché nel documento d’espulsione non si menziona il delitto che avrebbe commesso il Caravaggio?

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All’interrogativo ha provato a rispondere lo scrittore australiano Peter Robb con la ponderosa biografia- monografia L’enigma Caravaggio, Milano 2001 [fig. 7], condotta con ricerche personali nelle città italiane visitate sulle tracce dall’artista, ma soprattutto per svelare i suoi dubbi sulla fine del Caravaggio, che l’autore ipotizza sia stato ucciso dagli stessi Cavalieri di Malta. Non sto qui a raccontare certo la novità di un libro che all’epoca della pubblicazione ha suscitato più scalpore che interesse. Peter Robb infatti non è uno storico dell’arte, e il suo volume non è citato negli studi ufficiali sul Caravaggio (non saprei dire se a torto o a ragione), e perciò mi pare che esso sia  stato considerato alla stregua di una storia noir (come già Roberto Longhi aveva scritto: “Purtroppo anche a Malta non tarda per il Caravaggio, il seguito, sempre più travagliato, del romanzo nero”), nonostante la accuratezza delle note, un essenziale repertorio delle opere, un’analisi delle stesse non prive di sagaci osservazioni, e la  vasta bibliografia che correda il suo testo. Ecco perché il noto storico dell’arte John T. Spike non ha esitato ad affermare

La migliore biografia di Caravaggio dal XVII secolo (…). Robb ci offre la più convincente ricostruzione della strana scomparsa e morte del Caravaggio…”.

Del resto si tratta giustamente di una grossa e originale analisi interpretativa sul mistero (peraltro non risolto) della fine del Caravaggio, rispetto alla fin troppo convenzionale e scenicamente drammatica morte dell’artista sulla spiaggia di Porto Ercole ad inseguire inutilmente il vascello che si portava via i suoi quadri destinati a Roma, secondo il noto leggendario racconto del suo vecchio nemico, Giovanni Baglione.

“…disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol Leone a vedere se poteva in mare ravvisare il vascello che le sue robe portava…”

Così anche nel racconto del Bellori. In realtà il Caravaggio morì, come è noto, il 18 luglio del 1610 nel piccolo Ospedale di Santa Maria Ausiliatrice di Porto Ercole, secondo il documento ritrovato da due ricercatori (Giuseppe La Fauci e Gianna Anastasi)  nell’archivio parrocchiale di San Paolo della Croce di Porto Ercole, e non sulla spiaggia della Feniglia, tra la laguna di Orbetello e il promontorio dell’Argentario; la feluca, con i quadri destinati al cardinal Borghese a Roma, tornò a Napoli presso la dimora della sua protettrice, la marchesa Costanza Colonna, mentre il Caravaggio era stato arrestato per accertamenti nel presidio spagnolo di Palo. Il pittore era partito da Napoli, dove aveva già subito una violenta aggressione da sconosciuti davanti alla famosa taverna del Cerriglio, riparandosi poi nella casa della sua protettrice, ma aveva fretta di tornare a Roma per ricevere la grazia del Papa  per l’omicidio del Tomassoni nel 1606; tuttavia era consapevole di essere braccato, secondo lo scrittore Peter Robb. Ma a parte l’ipotesi da thriller della vendetta dei Cavalieri, il volume dell’autore presenta anche qualche altra novità, che, se non sbaglio, pare poco considerata dagli stessi specialisti del Merisi. Per esempio, lo scrittore ha ipotizzato, direi abbastanza convincentemente, che Caravaggio abbia studiato il Libro di pittura di Leonardo, dal quale sarebbe derivata l’idea che è l’elemento della luce a modellare i corpi, nel senso che la bellezza delle figure si accentua nel forte contrasto tra luce e ombra. Ma quando lo avrebbe letto, gli è stato chiesto, se il famoso trattato di Leonardo fu pubblicato nel 1651? E Robb ha risposto dicendo che una copia del libro (supponiamo manoscritto ndA) sia stata trovata in casa del Cardinal del Monte, quando il Caravaggio era suo ospite. Un’altra interpretazione del Robb, in contrasto col mito del personaggio aggressivo e rissoso, è che il pittore fosse psicologicamente fragile, e la fama di persona violenta fosse dovuta alle sue reazioni per le continue provocazioni subite muovendosi nella Roma seicentesca, dove avvenivano frequentemente scontri tra le fazioni francesi e spagnole, come è notoriamente risaputo (cfr. L. Colonnelli, “Caravaggio? Fu ucciso dai Cavalieri di Malta”, in Corriere della Sera, 21 ottobre 2001). Ma a Malta qual era veramente il grave delitto che aveva commesso?

Il ritratto del Gran Maestro con il paggio e l’ipotesi della vendetta sulla fine del Caravaggio

Il dipinto che stiamo esaminando è senza dubbio uno dei tre capolavori eseguiti per l’Ordine di San Giovanni, insieme alla monumentale tela Decollazione del Battista, 1608 nella Co-Cattedrale di San Giovanni, e al San Girolamo scrivente, 1607,

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(Museo della Co-Cattedrale [figg. 8-9]) che in qualche modo potrebbe essere considerato un primo sottile omaggio (diciamo noi) al Gran Maestro, se diamo credito alle parole di Bernard Berenson nel suo Caravaggio (1951):

E’ stato osservato che la testa di questo San Gerolamo ricorda quella di Alof de Wignacourt, Gran Maestro dei Cavalieri di Malta, del quale egli dipinse un ritratto in quei medesimi anni. Ciò non sorprende affatto, perché un pittore non può liberarsi dall’oggi al domani di un’immagine visiva che l’ha preoccupato per tanto tempo. Se il ritratto fu dipinto per primo, qualcosa di esso era probabile riapparisse nel quadro successivo. è da escludersi che una lieve rassomiglianza fosse intenzionale”.

Calvesi (1990) se ne dichiara quasi convinto:

“…non è escluso sia il secondo ritratto del Wignacourt (…) che non un San Gerolamo per cui sia stato preso a modello, più casualmente, il bel volto consumato del vecchio”.
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Ma nulla dicono Berenson e Calvesi che ci troviamo davanti a un doppio ritratto. I doppi ritratti, a partire da quel famoso Doppio ritratto, 1502c., Roma, Museo di Palazzo Venezia, attribuito a Giorgione [fig. 10], sono caratterizzati dalla intensità degli sguardi (si pensi anche al Lotto). Gli sguardi nella ritrattistica possono essere rivolti sia verso il pittore/spettatore, sia verso un fuori indeterminato, e così a noi appaiono in quello del Wignacourt, dove coesistono con esplicita evidenza le due fattispecie sopra dette. Perciò nel dipinto del Gran Maestro, i protagonisti sono due, e vanno considerati autonomamente come due ritratti singolarmente effettuati; e, a ben guardare, senza alcuna relazione tra loro, anche se il significato vorrebbe che la scena stia a rappresentare la sequenza dell’atto del paggio che porge al Gran Maestro l’elmo piumato e il manto rosso con la croce ottagona, simbolo dell’Ordine (si veda, ad esempio, il Ritratto di Alfonso d’Avalos, 1533, del Tiziano al Getty Museum, con la presenza di un paggio mentre porge al condottiero il suo elmo, figg. 11-12).

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Invece nel ritratto del Wignacourt, non sembra proprio così, come sarebbe logico. È di tutta evidenza che il Gran Maestro non si accorge per niente della presenza del bellissimo paggio, preso com’è dalla sua posa aulica e

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maestosa, a ricordare che lui, nella corazza fuori moda del tempo della vittoria di Lepanto (1570), effigiato alla veneta (cfr. il Ritratto di Filippo II, in piedi con corazza, 1551, al Prado del Tiziano, fig. 13) è ancora il sommo difensore della Cristianità nel Mediterraneo;  ma un precedente più antico, da un punto di vista iconografico, è stato ravvisato da Roberto Longhi nel ritratto a figura intera del Nobile, 1526, Londra, National Gallery, del Moretto [fig. 14], che lo storico considera il primo del genere:

“… è il capostipite d’una famiglia per i cui rami (…) sarà assai più piano giungere all’energico ma pacifico Wignacourt, che non sia per la strada degli eroici monarchi tizianeschi?”.

Wignacourt comunque è ancora il supremo difensore della Cristianità nel mediterraneo contro i Turchi, come si è detto; invece l’aristocratico giovinetto, altrettanto fiero della sua eleganza e della piccola croce di Malta sul suo corsetto, che annuncia già il suo futuro di cavaliere, non guarda affatto il suo Gran Maestro che ha il privilegio di servire. E allora, cosa succede in quel grandioso doppio ritratto? Ecco come Robb, tra l’altro, lo descrive:

Era un ritratto lusinghiero, dove la posa nascondeva l’escrescenza sul lato sinistro del naso del gran maestro, e un po’ da presa in giro, come tutti i ritratti di autorità di M., con quelle gambe tozze aperte, ed in perfetto equilibrio. O, almeno lo sarebbe stato, se il giovane paggio che entrava da destra non avesse mandato tutto all’aria (…) l’esile biondino gli aveva rubato tutta la scena” (p. 442).

Perché Robb è così beffardo, se poi dice che Alof de Wignacourt fu “contentissimo”, e in segno di riconoscimento fece cavaliere il Caravaggio, come ricordano i biografi Baglione e Bellori? Secondo Robb

Quella del ragazzo era una presenza così sovversiva da far quasi pensare che fosse aggiunta a posteriori (…) e lo strano allineamento dei quattro piedi, che ti induceva a domandarti se il paggio fosse davanti o accanto al maestro (…). M dipinse maestro e paggio separatamente, ed ebbe difficoltà a connetterli?” (p. 442).

Un problema tecnico rimasto insoluto, poiché la tela subì nel tempo danni e un cattivo restauro settecentesco. Ma questo aspetto esula dalla presente nota. È interessante invece sapere chi era quel giovanissimo paggio, e perché Robb sostiene che la sua presenza nel dipinto era “così sovversiva”? Il paggio sarebbe verosimilmente, secondo alcuni studiosi

Alessandro Costa, figlio del banchiere Ottavio Costa collezionista del Caravaggio, nel 1608 ha circa 11 anni, sulla sua identificazione nel dipinto si veda Spike 2001, p. 206
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(Stefania Macioce, Caravaggio: il pittorecolla croce sul petto” (nota n. 48, p. 121), in: AA.VV. I cavalieri di Malta e Caravaggio. La Storia, gli Artisti, i Committenti, a cura di Stefania Macioce, Roma 2010 [fig. 15].

La presenza del paggio Alessandro Costa, il figlio del ricchissimo banchiere genovese Ottavio Costa, si inserisce, secondo Robb, nel più vasto problema nell’accogliere a Malta “i giovani nobili più turbolenti d’Europa”, e come dice il Baglione, “giovani poco avvezzi alla disciplina e molto amatori di licenza” (cfr. Robb, op. cit., p. 425). Ottavio Costa aveva una casa a Malta, e uno dei suoi figli era già cavaliere, e un altro, appunto, Alessandro, lo sarebbe diventato più tardi.

L’afflusso dei ragazzi più giovani – scrive Robb – aumentò molto sotto Wignacourt che, fin da quando era divenuto gran maestro, nel 1601, s’era adoperato a coltivare la vita colta e amena – la stessa presenza di M era una missione civilizzatrice  –  aveva introdotto la musica all’ora dei pasti e si circondava di una gran folla di paggi adolescenti”.

L’interrogativo di Robb è quello di sapere se Caravaggio aveva la possibilità di partecipare a questi banchetti, in fondo era un’artista, e poteva avere titolo per essere presente; oppure se aveva occasione di incontrare i ragazzi fuori dal convento nelle taverne a fare baldoria. Non si sa.

Scrive il Bellori

Il Caravaggio riputavasi felicissimo con l’onore della croce e nelle lodi della pittura (). Ma in un subito torbido ingegno lo fece cadere da quel prospero stato e dalla benevolenza del Gran Maestro, poiché venuto egli importunamente a contesa con un cavaliere nobilissimo, fu costretto in carcere…” (in Robb, p. 462).

E se il “cavaliere nobilissimo” fosse il Wignacourt stesso? Si chiede Robb, o qualcuno a lui molto vicino? E, in particolare, se il ragazzo era legato a un personaggio d’alto rango, come sembra il giovane paggio nel ritratto del Wignacourt? Un rapporto intimo del Caravaggio con quel ragazzo avrebbe rappresentato il massimo dell’offesa, non solo per il fatto in sé, grave peccato punibile con la morte, ma perché – sostiene Robb – quei giovani “con i loro quattro nonni nobili erano il fior fiore dell’adolescenza maschile della nobiltà europea…” non potevano in alcun modo entrare in intimità “con un semiartigiano che aveva fatto carriera, per quanto eccellente fosse il suo lavoro”. Come aveva osato il Caravaggio sedurre il giovane paggio? Naturalmente di questo non si poteva neanche lontanamente fare cenno nel processo di espulsione.

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A rendere esplicita la torbida vicenda nel doppio ritratto del Wignacourt, a mio avviso, è proprio lo sguardo intenso e sensuale del giovane paggio [fig. 16] che penetra l’osservatore (noi), ma nello specifico il pittore che lo sta dipingendo, nell’accezione del pensiero del filosofo Jean-Luc Nancy, richiamato all’inizio della presente nota, ovvero la capacità dell’artista di rendere con forma e colore i mores animunque, sarebbe a dire che il giovinetto sta posando da solo, e non insieme al Gran Maestro, considerando che quella pesante e storica armatura sarà stata indossata a parte da un modello (e magari neanche dipinta dal Merisi, come voleva il Longhi), a cui il Caravaggio dipinse la bella testa del personaggio. Il paggio quindi è visibilmente emozionato, forse anche compiaciuto, di fronte all’artista, che con molta probabilità lo ha sedotto. Quello sguardo richiama a noi contemporanei l’ermeneutica nell’era di Freud e di Husserl che ha scritto: “L’occhio che guarda l’oggetto, insieme lo palpa, per così dire” (in Armando Torno, Derrida, se la filosofia è questione di tatto, Corriere della sera, 10 novembre 2007, a recensire un altro libro del filosofo degli “sguardi”, Toccare.Jean- Luc Nancy). La frase di Husserl svela metaforicamente che talvolta la potenza dello sguardo arriva a produrre nel soggetto dell’attenzione la medesima sensazione, che, a seconda dei rapporti intercorsi tra due persone, può risultare sgradevole, imbarazzante, o piacevolmente accolta, come a noi paiono, non solo gli occhi, ma tutta l’espressione nel volto del giovane paggio nel ritratto col Gran Maestro.

Comunque non è certo il dipinto, il disprezzante e violento capo d’accusa nei confronti del Caravaggio da parte del Wignacourt, ma una cosa è sicura, che il potente personaggio dovette guardare con altri occhi quel suo ritratto che tanto gli era piaciuto, al punto di disfarsene il prima possibile:

È opinione diffusa poi che il dipinto abbia lasciato l’isola relativamente presto; (…) ritenendo il quadro la prova materiale e dunque non esemplare, di una grave onta subita” (Macioce, op. cit., 2010, p. 103),

tanto che, alcuni decenni dopo, nel 1644, risultava in Francia in collezione privata, e non di un cavaliere di Malta, e dal 1670 nelle collezioni reali, e poi al Louvre.

Mario URSINO    Roma   maggio 2109