di Elena TAMBURINI
Al teatro Comunale di Bologna, Il Trovatore fino al 29 gennaio
E’ certo che l’ambientazione che Verdi aveva previsto per il Trovatore,
con i suoi castelli spagnoli, i giardini e le scalinate e i “diruti abituri” degli zingari si prestavano mirabilmente a tutte le pittoresche interpretazioni scenografiche che infatti ne furono date. I castelli merlati, le fughe prospettiche profondissime e gli “orridi” si sprecarono e non solo nell’Ottocento. Di questo, Verdi stesso era pienamente consapevole: basta scorrere il suo carteggio con il librettista Cammarano (che però morì prima della fine del lavoro) per capire che il successo presso il pubblico era ciò che più gli premeva e di questo successo l’immagine scenica, un’immagine che doveva essere ovviamente studiata in rapporto ai gusti orrorosi e insieme sentimentali del pubblico dell’epoca, era considerata parte fondante. Di qui la consapevole e autonoma scelta dell’argomento da un dramma spagnolo (di un ragazzo semisconosciuto, Antonio Maria de los Dolores Garcia Gutierrez) zeppo di simili effetti.
La cornice generale è quella di una crudele guerra civile in corso
La cornice generale è quella di una crudele guerra civile in corso (Spagna, XV secolo), dentro la quale vive la tragedia psicologica di una zingara, all’epoca (e probabilmente non solo) “abietta” per antonomasia, che continua a vivere tra rimosso e reale il suo amore materno e il suo incubo di matricida; e quella dell’impossibile amore di una nobile dama per un oscuro trovatore, creduto figlio della zingara; e anche quella di un Conte che, preso da ossessione amorosa, intende far valere la sua onnipotenza per appropriarsi di quella dama. Di questi contrasti la musica verdiana si fa fedele interprete e anzi trae alimento, rendendo credibile anche oggi questa improbabile trama, approfondendo e sfumando le evoluzioni psicologiche dei personaggi e accogliendo al suo interno straordinarie ondate melodiche.
Ma il Trovatore è anche il melodramma che si porta ad esempio per sostenere la cosiddetta “inutilità” della regia: secondo una famosa battuta attribuita a Toscanini, sempre ripresa dai cosiddetti “verdiani puri”, è facilissimo da mettere in scena, bastando allineare in scena il miglior soprano, mezzosoprano, tenore e baritono del mondo (non così semplice però…).
La regia di Wilson smentisce ovviamente questo autorevole parere,
essendo uno dei più convinti e convincenti rappresentanti contemporanei del teatro di regia; e di un teatro di regia che oggi sembra rivolgersi all’opera lirica come alla sua destinazione privilegiata. Di una lettura assolutamente personale si tratta, essendo egli responsabile, oltre che della regia, anche delle scene e delle luci. Ritroviamo molti degli elementi che ci hanno affascinato in passato, per esempio nel recente Macbeth (2013, ripreso nel 2015), anch’esso prodotto dal teatro Comunale bolognese: lo splendore delle immagini, la sapienza delle luci, l’appiattimento delle figure, la geometrica ieraticità dei gesti, il trucco “orientale”, l’effetto ralenti delle azioni. Fedele alla sua convinzione che uno spettacolo deve partire da un’unica idea forte che poi si sviluppa e si modula e anche a quella di uno stile registico che resta unico pur nella diversità delle singole realizzazioni spettacolari, così come unico e riconoscibile è lo stile di un musicista, egli non teme di esprimersi con le stesse scene in due recenti spettacoli, Le trouvère, dato a Parma nel recente ottobre, e questo Trovatore di Bologna; due spettacoli, è da notare, che non sono l’uno la semplice traduzione dell’altro, ma due versioni della stessa opera pensate per due pubblici dai gusti diversi, quello romano (1853) e quello parigino (1857).
Spazio cubico nudo dove il suo famoso blu elettrico sfuma in blu-verde-grigio,
con squarci di luci e di rossi dalle alte finestrelle quadrate, unica concessione al ricordo del castello; parete di fondo a tratti usata come schermo di proiezione, prima di una piazza ottocentesca, poi di un mare mosso a strisce mobili, infine di un cielo fitto di nubi. Costumi essenziali che citano appena una memoria storica (non sempre quella del Quattrocento); gestualità meccaniche, di fronte o di profilo, mimica facciale annullata con occhi bassi, sottolineati, nelle donne, dal trucco; azioni diagonali e disposizioni triangolari che evitano accuratamente il rapporto tra i personaggi (elemento questo che mi sembra accentuato in questo spettacolo). La ripresa delle scene parmigiane è davvero ostentata nel momento in cui egli mantiene nello spettacolo bolognese (con un certo sconcerto nel pubblico) l’ “invenzione” di un ring collettivo con nota umoristica, residuo dei ballabili (soppressi nel Trovatore) pensati per lo spettacolo parmigiano.
E’ forse vero che, come è stato osservato, alle medesime scene i teatri diversi in cui sono state fruite –maggiore intimità e più profonda immersione nelle sue famose illuminazioni colorate consente ovviamente il teatro bolognese- le diverse lingue dei due testi –l’uso dell’italiano permette un diverso rapporto con il pubblico– e la maturazione nel tempo di alcune scelte registiche conferiscono sensi diversi. Ma si ha anche l’impressione che la sua attività parallela di scultore, architetto, designer, grafico (per la quale ha anche vinto, nel ‘93, un Leone d’Oro alla Biennale di Venezia) non sia per lui uno strumento e neanche una sorgente vitale di ispirazione, ma che egli la insegua, questa sua attività di artista, anche nel dinamismo dell’immagine scenica, a prescindere dal testo. Anche perché se c’è un testo che pare totalmente estraneo alla sua ispirazione spesso definita minimalista, sembra proprio il Trovatore, anche per quel che si è scritto all’inizio. Wilson ammette di avere avuto notevoli resistenze di fronte a questa messinscena, ma dice di aver trovato la sua chiave di lettura proprio nell’esplicito contrasto con il mondo feudale, a cui ha preferito una realtà generalmente ignorata, ispirata dalle cartoline vintage e popolata di gente comune dell’Ottocento:
“un uomo anziano seduto, una vecchia signora alla fontana, una giovane ragazza che spinge una carrozzina: queste figure silenziose vivono in un altro mondo, un mondo di ricordi. Esistono al fianco dei personaggi di Verdi ma raramente interagiscono tra loro».
Dunque, e per la stessa ragione per cui ha potuto dichiarare che un grande attore parla come se non capisse ciò che sta dicendo, egli pensa a una vera, autonoma drammaturgia dello spazio e soprattutto della luce.
«Prima della musica, prima di qualsiasi altra cosa, illumino lo spazio vuoto. Inizio sempre dalla luce, è essenziale per il mio lavoro. La luce non è una cosa a cui penso in un secondo momento, non è una decorazione, è struttura. Fa parte del libro visivo. E’ come un attore”.
Il pubblico dei melomani, conservatore per definizione,
generalmente fatica molto ad accettare l’autonomia dal testo, più consueta nel teatro recitato. Ma la regia di Robert Wilson sfronda da tanti orpelli più o meno storici che non hanno più presa sul pubblico contemporaneo e ha il merito di realizzare una sua rigorosa e originale idea di bellezza. Non sono pregi da poco.
Caldi applausi hanno salutato questa inaugurazione della stagione 2019 del teatro bolognese.
Nel cast le famose quattro voci sono: Dario Solari (il Conte di Luna), Guanqun Yu (Leonora), Nino Surguladze (Azucena), Riccardo Massi (Manrico). Particolarmente applaudita la cantante cinese interprete di Leonora.
Dirige l’orchestra e coro del teatro Comunale di Bologna Pinchas Steinberg.
Coproduzione tra teatro Comunale di Bologna, teatro Regio di Parma e Change Performing Art, ancora per poco (fino al 29 gennaio) in scena al Comunale di Bologna.
Elena TAMBURINI Bologna gennaio 2019