di Nica FIORI
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1485 ca. – Venezia 1576) è uno dei pochi artisti universalmente noti con il solo nome di battesimo, forse perché, come scrisse di lui il contemporaneo Ludovico Dolce, era in grado di accordare
“la grandezza e terribilità di Michel Agnolo, la piacevolezza e venustà di Raffaello, et il colorito proprio della natura”.
Parliamo di un “mostro sacro” della pittura, protagonista indiscusso per quasi 70 anni del Cinquecento veneziano e al tempo stesso europeo (fu pittore di corte di Carlo V e di Filippo II di Spagna), e il cui codice espressivo è alla base della pittura moderna, da Velázquez a Rubens agli Impressionisti.
Dato il suo grande successo al di fuori della Serenissima, non è un caso che siano proprio alcuni musei europei a detenere il maggior numero di sue opere. Tra questi vi è il Kunsthistorisches Museum di Vienna, che ha prestato il quadro Ninfa e pastore (1570-‘75) alla Galleria Borghese, nell’ambito di un programma di scambio culturale tra le due istituzioni, rendendo così possibile la realizzazione della piccola, ma preziosa mostra “Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore”, a cura di Maria Giovanna Sarti (fino al 18 settembre 2022).
L’opera prestata è una tela di grande formato dell’ultimo periodo di vita di Tiziano, eseguita non su commissione, ma per sé stesso, senza dover tener conto del gusto altrui: una “poesia” o una “favola”, come lui chiamava le sue opere mitologiche ambientate in contesti bucolici, che fanno pensare a quei paesaggi d’Arcadia che tanto successo ebbero in campo artistico e letterario, a partire dall’Arcadia di Jacopo Sannazaro, pubblicato nel 1504, fino a tutto il Settecento e oltre.
Non sappiamo se egli abbia voluto rappresentare un’anonima sensuale fanciulla, ovvero una ninfa, che sta per essere sedotta da un pastore che suona il flauto, oppure i protagonisti del celebre romanzo Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, di Longo Sofista (II-III secolo d.C.); c’è anche chi ha ipotizzato che si tratti di Dioniso e Arianna, visto che il giovane è rappresentato con dei pampini di vite in testa e lei ricorda tanto quell’Arianna che, abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso, cede al sonno dopo aver tanto pianto, e viene poi risvegliata dal dio del vino, che, innamoratosi di lei all’istante, ne fa la sua sposa.
Più rilevante del contenuto narrativo era per Tiziano la raffigurazione dei due personaggi integrati in un paesaggio pieno di suggestioni arcane, un soggetto che egli aveva trattato nelle sue opere giovanili, ispirate a Giorgione.
A 60 anni di distanza e forte delle esperienze della sua lunga vita d’artista, la trasposizione pittorica risulta molto cambiata: ciò che conta non è più la forma plastica e dai contorni ben definiti, ma l’apparenza dell’insieme, rappresentata attraverso un uso innovativo del colore. Dal bagliore oscuro del cielo, la cui aria con lui per primo diventa vibrante e palpabile, si accendono improvvise poche macchie luminose e sullo sfondo si intravedono le cime innevate delle montagne cadorine. Con ampie pennellate (si dice che si aiutasse anche con le dita) Tiziano riesce a dare una visione grandiosa e commovente della seduzione amorosa e della bellezza della natura, dove il tutto visibile sembra far parte di un’unità cosmica. E il tempo, che tutto divora, è pure emblematicamente rappresentato dal “capro che divora l’ultimo ramo verde di un albero ormai secco”, come ha fatto notare la curatrice.
La grandezza dell’ultimo Tiziano l’aveva capita anche Giorgio Vasari, pur evidenziando la sua carenza nel disegno rispetto alle opere giovanili:
“… Con ciò sia che le prime son condotte con una certa finezza e diligenza incredibile, e da esser vedute da presso e da lontano, e queste ultime, condotte di colpi, tirate via di grosso, e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e di lontano appariscono perfette. E questo modo sì fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parer vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche” (Le vite 1568).
L’incontro tra la tela di Vienna e i Tiziano della Galleria Borghese ha permesso di far dialogare le opere intorno ad alcuni temi sempre presenti nella produzione del pittore, dagli esordi agli estremi momenti della sua attività: la Natura, intesa come paesaggio significante e luogo dell’agire umano; e l’Amore, personificato come amore divino da Venere, nella sua forma naturale dalla ninfa e nella forma matrimoniale dalla giovane sposa. In realtà, come ha precisato Maria Giovanna Sarti, i temi dei dialoghi sono tre. Il terzo è quello sul Tempo, apertamente dichiarato nelle Tre età, ma anche nell’evolvere dello stile del pittore.
Alla fine della sua lunga vita, che ha avuto piena di piaceri e di dolori, è come se il vecchio Tiziano si interroghi sul senso dell’inutilità della finitezza della sua opera e, come aveva fatto Michelangelo (morto circa un decennio prima di lui), scelga il non finito.
Al primo piano della Galleria Borghese, nella sala XX, il primo dialogo avviene tra i celebri capolavori di Tiziano Amor sacro e Amor profano (1514) e Venere che benda Amore (1565), che sono rimasti nella loro collocazione, uno di fronte all’altro. Entrambi sono nati per un’occasione matrimoniale, nel primo documentato, nel secondo presunto.
Amor sacro e Amor profano è un dipinto di una bellezza abbagliante, commissionato da Niccolò Aurelio, uno dei maggiori funzionari della Serenissima in occasione delle sue nozze con Laura Bagarotto nel 1514. Apparentemente si tratta di un’allegoria dell’amore terreno e di quello spirituale, personificati da due bellissime donne sedute ai lati di una fontana, ma, più realisticamente, la donna con l’abito bianco a sinistra potrebbe essere la sposa, la cui cintura allude alla sua verginità, mentre la dea Venere, coperta solo in minima parte da un velo sul pube e da un drappo rosso poggiato sul braccio sinistro, la inizia ai misteri dell’amore. Il piccolo Cupido (Eros per i greci), figlio di Venere, increspa le acque della fontana, che sembra quasi un sarcofago, nel cui fregio appare un cavallo che ricorda molto i celebri cavalli di San Marco a Venezia. Anche l’idilliaco paesaggio sullo sfondo ricorda le origini venete del pittore.
In Venere che benda amore, un’altra composizione tutta al femminile, Tiziano decide di dare più rilievo al paesaggio, in realtà piuttosto affollato, eliminando dallo sfondo una donna che recava in mano un cesto di frutta, come è stato evidenziato dalle indagini diagnostiche condotte in funzione del prestito dell’opera al museo viennese e dell’attuale mostra. Riguardo alla scena, si tratta di una complessa allegoria, nella quale Venere benda il piccolo Eros alato, a significare che l’amore è cieco, mentre una ninfa reca l’arco e un’altra le frecce. Quest’ultima ha il seno scoperto, alludendo al fatto che la sposa deve donare il cuore al proprio uomo e allo stesso tempo alla fertilità che si aspetta dal matrimonio. Alle spalle della dea c’è un altro piccolo personaggio che si contrappone a Eros. Si tratta di Anteros, nato da Ares e Afrodite, che nella religione greca è il dio dell’amore corrisposto, mentre Eros impersona il desiderio d’amore, e pertanto ha come attributo un arco, dal quale scocca frecce in grado di provocare passioni incontrollabili, alle quali non possono resistere né gli uomini né gli dei.
In occasione della mostra, oltre al catalogo, è uscito anche un saggio a cura di Maria Giovanna Sarti, intitolato “Venere che benda Amore e i dipinti degli ultimi anni” (De Luca Editori d’arte), che indaga sui contenuti, sugli aspetti storico-artistici, sulla tecnica e le modalità di esecuzione delle opere. Vengono presentate le indagini effettuate anche negli altri due dipinti tardi di Tiziano oggi in collezione Borghese: il cosiddetto San Domenico e il Cristo flagellato, anch’essi esposti nella stessa sala dedicata alla pittura veneta.
L’altro quadro che dialoga nella mostra alla Borghese, in asse con Ninfa e pastore, è Le tre età dell’uomo, una copia secentesca da Tiziano del Sassoferrato (l’originale, del 1512 circa, è conservato nella National Gallery of Scotland a Edimburgo), che la Galleria conservava nei magazzini.
Questa volta l’evoluzione della vita è mostrata nelle sue diverse fasi (l’infanzia, la maturità e la vecchiaia), anche grazie alla distinta collocazione dei protagonisti nelle diverse porzioni dello spazio all’interno del dipinto. Evidenti sono i richiami, sia nel paesaggio sia nel soggetto criptico, a Giorgione, dal quale si discosta perché affronta anche il tema dell’amore.
Per rappresentare la maturità della vita, infatti, Tiziano non utilizza una singola figura di uomo o di donna, ma una coppia di giovani innamorati: l’uomo, disteso e seminudo, è accanto a una fanciulla vestita, che sta per suonare il doppio flauto. I due putti sulla destra dormono sotto la protezione di Cupido, la cui presenza allude al desiderio amoroso che caratterizzerà l’età adulta, mentre un vecchio in lontananza medita sulla caducità della vita osservando dei teschi.
I due innamorati del dipinto sembrano il perfetto pendant della Ninfa con pastore, ma è diverso l’abbigliamento. Nel dipinto di Vienna l’uomo è vestito, mentre la ninfa è nuda ed è consapevole della sua sensualità, resa con quel gesto di accarezzarsi il braccio, che non può sfuggire al nostro sguardo, posto come è al centro della scena.
Nica FIORI Roma 19 Giugno 2022
“Tiziano. Dialoghi di Natura e di Amore”
Galleria Borghese, Piazzale Scipione Borghese, 5 Roma 14 giugno-18 settembre 2022
Orario: da martedì a domenica, ore 9-19 (turni d’ingresso ogni ora, ultimo ingresso alle 17,45), chiuso il lunedì. Prenotazione obbligatoria: +39 06 32810; www.galleriaborghese.it