Tondo Doni e Crocefissione di Gibellina, una teofania delle Immagini. Un saggio di Marcello Fagiolo

di Marcello FAGIOLO*

*Il presente saggio fa parte del volume Per le arti e per la storia: omaggio a Tonino Cassiano, da poco in libreria per i tipi dell’editore Congedo. Ringraziamo il Prof. Marcello Fagiolo e il dott. Mario Congedo per aver gentilmente concesso in anteprima la pubblicazione

“Post tenebras Lux”: l’eclisse e la rinascita. Tra morte e gloria celeste: la veronesiana ”Invenzione della Croce”

Ho già avuto modo di accostare al rosone di Santa Croce a Lecce una pala di ambito veronesiano
con l’Invenzione della Croce acquisita dai cappuccini per la chiesa di Santa Croce a Bari, rifondata nel 1573, due anni dopo la vittoria di Lepanto (fig. 8b) n1. l’opera, attribuita a Carletto Caliari ed eseguita verso il 1585 (poco prima della morte, nel 1588, del padre, Paolo Veronese), presenta una straordinaria iconografia della croce come abbagliante gloria di luce, circondata da una rosa di otto cherubini.
Il quadro di Bari, ispirato forse dal committente, l’arcivescovo Antonio Pozzi (il quale nel concilio di Trento aveva sostenuto il valore salvifico della croce) va collegato ad altre opere di Paolo Veronese. Penso innanzitutto alla Crocefissione di S. Lazzaro a Venezia (1580 c.) con analoga gloria di cherubini intorno al cristo morto. La narrazione appare drammatica e sconvolgente, nella metamorfosi tragica degli Elementi. La Terra scompare nel buio, trafitta dal legno della croce; l’Aria è nera come l’abisso; l’Acqua delle nubi si accende come ghiaccio torrido; il Fuoco dell’empireo, rappresentato dalla gloria dei cherubini, avvampa con bagliori quasi infernali. Viene evocato forse il “battesimo di fuoco” promesso dal Battista, il quale disse di Cristo: “Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Luca 3, 16, Matteo 3, 11); lo stesso Cristo aveva detto: “Sono venuto ad accendere il fuoco sulla terra e che cosa posso desiderare se non di vederlo infiammarsi?” (Luca 12, 49).

1a-c. Carletto Caliari, Invenzione della Croce, Bari, S. Croce, olio su tela, 1585 ca. La Gloria angelica è messa a confronto col rosone di S. Croce a Lecce (1b).
2. Paolo Veronese, crocefissione, Venezia, S. Lazzaro, olio su tela, 1580 ca.
3. Paolo Veronese, crocefissione, Budapest, Szépmüvészéti Museum, olio su tela, 1580 ca.

Parole che, significativamente, vengono riprese nella Gloria di sant’Ignazio, il colossale affresco di Andrea Pozzo nella chiesa romana di S. ignazio: le parole di Cristo vengono adattate al fondatore della Compagnia di Gesù, l’uomo che intendeva la predicazione come un progressivo avvampamento delle coscienze: e sappiamo che i gesuiti puntavano sulla discendenza etimologica del nome Ignazio da ignis, il Fuoco … Rimbalza da parte a parte nell’immenso affresco di Pozzo l’esaltazione ora segreta ora esplicita del potere del fuoco: è la stessa forma infuocata che percorre tanta parte del nostro Seicento, dalle forme spirali o tortili di Bernini e Borromini fino ai bagliori di Baciccio. Nell’affresco di S. Ignazio l’aspirazione eroica al fuoco dell’Empireo non è più soltanto una metafora ma sostanzia la vita stessa delle immagini. Il Cristo con la spada di cui parla talvolta il Vangelo prevale sul Cristo misericordioso.
La Crocefissione di Veronese a Venezia appare complementare a quella di Budapest (Szépmüvészéti Museum, 1580 c.): dal corpo di Cristo si diffonde un alone di luce abbagliante per diradare la notte dell’eclisse. In basso la Madonna è accasciata in grembo a Giovanni, in una suggestiva ripresa della Pietà michelangiolesca in Vaticano ma con inversione delle parti: la Madonna recita la parte del Cristo michelangiolesco (col braccio sinistro abbandonato sulle gambe della madre), mentre Giovanni, con sguardo amorevole e occhi socchiusi, recita la parte di Maria. Su tutto sembrano prevalere l’amore spirituale (con la Maddalena che abbraccia l’albero della croce) e soprattutto la luce, identificata con la divinità secondo l’incipit del Vangelo giovanneo che recita il primato originario del Verbo-Dio-luce. e sembrano riecheggiare le parole del discorso profetico di Gesù: “Come il lampo esce da levante e si vede fino a ponente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo … Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo splendore, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno scrollate” (Matteo 24, 27-29). Ma infine lo splendore intorno al crocefisso sigilla il trionfo della luce sulle Tenebre nell’attesa del terzo giorno di resurrezione, se non anche della ascensione finale.

Di estremo interesse appare una terza Crocefissione di Veronese (Padova, Musei Civici, 1580 c.; fig. 4), in cui le Tenebre non costituiscono il punto di arrivo pittorico ma sono materialmente il punto di partenza, dato che il quadro fu eccezionalmente dipinto su una pietra nera! E dunque sulla pietra-notte l’artista fa apparire il biancore splendente del corpo di Cristo, la contorsione spaziale dei due ladroni e il gruppo delle tre Marie con Giovanni. Sullo sfondo, poi, si accendono le luci su Gerusalemme, a simulare quasi il sollevamento del “sipario” del cielo nero.

4a. Crocefissione, Padova Musei Civici olio su pietra nera

Aggiungerei una nota su una piccola Crocefissione seicentesca, inedita, che ho visionato recentemente n2. La Maddalena stringe il lignum crucis in uno scenario notturno illuminato soltanto dalla luce quasi metafisica che sembra irradiarsi dal corpo di Cristo (mentre la testa è in ombra) rifrangendosi sul volto della Maddalena, tondo come la luna, e sul suo braccio che regge un telo, alludente

4b-c. Maestro fiammingo (?), Crocefissione, Roma, collez. privata, olio su tela, secolo XVII (veduta generale e particolare con la presumibile “eclisse di sole”).

forse alla “Veronica”. Sul cielo plumbeo, nello sfondo, emerge la cupola della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, curiosamente assimilata al coperchio semisferico del vasetto di unguenti, da cui emanano bagliori dorati. In assenza del Sole è visibile soltanto la luna: ma la geometria della sua configurazione sembra rappresentare non tanto la consueta falce illuminata
dal pianeta quanto la dinamica dell’eclisse e cioè il passaggio dell’astro oscuro che oscura il disco lucente del Sole.

 

Le nuvole tenebrose e le stelle: da S. Croce di Lecce alla Sindone di Torino.

5. Lecce, chiesa di Santa Croce, altare del Crocefisso (Cesare Penna, 1637-39)

In questo panorama tragico, va osservato con attenzione l’altare del crocefisso nel transetto destro di S. Croce a Lecce (realizzato da Cesare Penna nel 1637-39; fig. 5) n3, riservato alla conservazione e ostensione delle reliquie della croce e della corona di spine. Un’iscrizione dedica l’altare “GLORIOSO SALUTIFERAE CRUCIS TRIUMPHO”: e la Croce sull’altare si staglia davanti a un cielo stilizzato geometricamente con stelle dorate e con le consuete immagini del Sole e della Luna, che qui si presentano avvolte da nuvole oscure. E’ chiaro, seguendo quanto abbiamo detto in precedenza, che si tratta di una rappresentazione dell’eclisse di sole: il Sole dorato e splendente sembra in procinto di essere oscurato dalle nuvole e dal passaggio della Luna (rappresentata con un volto nero anziché argenteo).

6. Torino. Planimetria della Cappella della Sindone (Guarino Guarini) a confronto con lo schema dell’eclisse di sole, in basso (da G. Guarini. Placita Philosophica, 1665).

L’immagine appare in sintonia con la reinterpretazione della cappella della Sindone nel Duomo di Torino dovuta a Guarino Guarini (la fabbrica, dopo lunga interruzione, fu ripresa su suo disegno nel 1668). Ho chiarito in passato l’analogia fra l’impianto della cappella e gli schemi guariniani che illustrano l’eclisse di sole (fig. 7), immagine riassuntiva per eccellenza di tutti i contrasti fra l’ombra e la luce presenti nella vicenda evangelica e architettonica della Sindone n4. La geometria ternaria-trinitaria della cappella è strettamente connessa con la tragedia del Venerdì Santo: “Dall’ora sesta all’ora nona si stesero le tenebre su tutta la terra” (Matteo, 27, 45). l’eclisse di sole nelle 3 ore della morte di Cristo si poneva insieme come presagio di sventure e partecipazione della natura al dolore universale; e, sia pure nella scarna descrizione degli evangelisti, si tratta forse del più spettacolare paesaggio come stato d’animo nella storia del mondo.
Vediamo come viene rappresentata in pratica, nella sezione a livello del pavimento, l’eclisse di sole. I vestiboli sono nel luogo della luna prima e dopo l’eclisse (fra l’altro, le 30 stelle del circolo esterno coincidono quasi col mese lunare di 28 giorni). La congiunzione fra luna e sole avviene al centro della cappella; il sole eclissato si configura nell’altare con la reliquia, e intorno al sudario, sul pavimento, le stelle si moltiplicano e infittiscono come se fosse scesa la notte; chi vuole avere una visione del sole risplendente deve alzare lo sguardo fino alla raggiera al culmine della cupola.
Nel firmamento che si schiude sotto ai nostri piedi, Cristo viene esaltato al centro delle stelle nella notte più angosciosa della storia: e questo “cristocentrismo” potrebbe equivalere – se si pensa al concetto di Christus-Solalla teoria eretica dell’eliocentrismo, condannata da Guarini nella sua opera. Cancellato di colpo il geocentrismo, sia pur soltanto sul piano simbolico, il Sole viene chiamato a reggere il sistema universale riprodotto nel pavimento della cappella: l’armonia delle sfere celesti viene evocata dai dieci giri concentrici degli astri intorno all’altare (e anche gli angeli reggi torcia sulle sporgenze della balaustrata ripetono il mistico, pitagorico numero “10”). Se la cappella con i vestiboli era adattata con qualche variante al tema dell’eclisse, così pure i “marmi negri” si calano puntualmente nella drammatica interpretazione luministica della Sindone, quasi sacra rappresentazione del conflitto luce-Tenebre (il preludio si era avuto, il 9 novembre 1611, con la prima pietra di fondazione della cappella, “di marmore negra”).

7-8. Torino. Cupola della Cappella della Sindone a confronto con una immagine allegorica della Sindone (da Balliani 1610-16).

E’ stato acutamente illustrato da Eugenio Battisti il percorso di avvicinamento alla reliquia n5.
A chi proviene dalla navata del Duomo, il portale si presenta come immagine luttuosa e inquietante, grande macchia nera rispetto alla scala umana della chiesa. La luce sfiora appena i marmi neri e si accende come un fuoco fatuo sulle convessità (sfere, cuori proliferanti, ventre delle cariatidi); la luce delle vetrate appare riflessa come in uno specchio dallo spazio luminoso del transetto. Si sale con l’impressione di scendere in un pozzo, o in una cripta.
La scala è soffocante, angosciosa, come un cuore che pompa sangue a senso unico: malgrado la tripartizione delle pareti non c’è neppure un ripiano per sostare, e le onde concave dei gradini accrescono psicologicamente la fatica, l’ascesi dell’ascesa. Nell’architrave dei portali e sotto le nicchie si materializzano nelle strane borchie cuoriformi le palpitazioni sincopate degli animi, in una atmosfera da Dies irae più che da Venerdì Santo. Ma insieme alla caduta nell’abisso troviamo uno spiraglio di salvezza: tre volte i lucernari rimandano una debole luce, che poi filtra pure dalla volta del vestibolo e attraverso le colonne “une e trine”.
Poi si esce a riveder le stelle, che troviamo però a terra, precipitate come gli angeli ribelli e ardenti come una pioggia di sangue. accanto al brano evangelico, già ricordato (“il sole si oscurerà, le stelle cadranno dal cielo”, Matteo, 24, 29), possiamo trovare un riferimento apocalittico: all’apertura del sesto sigillosi fece un gran terremoto: il sole diventò nero e la luna diventò tutta come sangue, e le stelle del cielo caddero sulla terra…” (Apoc. 6, 12).
Ritornando alla Passione di Cristo, va ricordata la suggestiva immagine evangelica del sudore di Cristo che sul Getsemani cadeva al suolo in gocce di sangue rappreso. Già le borchie cuoriformi avevano fatto presagire la presenza del sangue di Cristo, “questo sangue meraviglioso onde la morte è morta” n6. La Sindone sarebbe stata appunto un’immagine dipinta col sangue di cristo, un “compendio della legge evangelica scritto con lettere di sangue” n7. E concludiamo con l’immagine agghiacciante del cavalier Marino sulla Sindone, “il cui pittor fu cristo esangue / pennelli i chiodi e fu colore il sangue”.
Perfino nella luce della cupola resta la presenza plumbea dell’ombra. E’ stata chiarita n8 la connessione del dramma luce-tenebre con le pagine dei teologi seicenteschi sulla Sindone, che illustravano “la sacratissima notte di questo misterioso giorno […] principio de’ gloriosissimi trionfi contro il principe delle Tenebre”. La Sindone era “regola per misurare la grandezza della luce, della gloria, e della maestà della resurretione”. “Da queste oscurezze, e da questi horrori invece di raggi fu aggirato il nostro sole Christo”.
La cupola della Sindone dovette apparire come un autentico terremoto delle strutture tradizionali, completamente dilaniate e frantumate da un vento rivoluzionario (figg. 1, 9), nel contesto dell’emozione psicologica legata alla Passione: al momento della morte di Cristo “il velo del tempio si squarciò in due parti, la terra tremò, le pietre si spezzarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di santi che vi riposavano resuscitarono” (Matteo, 27, 51). Il brano evangelico spiega forse anche il significato delle strane incorniciature semiovali delle finestre, quasi “arche” michelangiolesche che sembrano rievocare le tombe scoperchiate, accatastate dalla furia del terremoto.
L’archeggiatura delle “arche” è delineata in pianta come una sorta di rosa, ma la rosa mistica è intessuta di pietra grigia, conosce l’asprezza delle spine. Si tratterebbe di una corona di spine, simbolo raffigurato anche nei grandi capitelli e al culmine della lanterna; del resto, la Sindone si diceva “ornata de’ segni della corona di spine” n9.
La grande stella transparente (fig. 9) che conclude la cupola è forse una parafrasi della Pentecoste (vedi la colomba dello Spirito Santo al vertice) o dell’Ascensione dopo la Resurrezione: dove il prodigio della tecnica umana diviene di per sé immagine di trasfigurazione e ascesa all’Empireo. L’illuminazione controluce, che illumina e accende i contorni, può richiamare ancora una volta la sagoma del sole oscurato dall’eclisse: e si tratterebbe del “Christus-Sol (coi dodici raggi corrispondenti agli apostoli) n10.
Nelle incisioni che accompagnano il trattato del Balliani (1618, figg. 10-11) sopra alla Sindone appare un sole irraggiante, la cui sagoma stellare ritorna nella struttura guariniana (va rimarcato che il teologo proclama che “l’imagine nella Santissima Sindone contenuta […] è vivo raggio di Christo Sole”).

Post tenebras lux”: la Crocefissione di Gibellina.

L’ultima scheda è dedicata allo straordinario trittico della Crocefissione di Giuseppe Modica, inaugurato nel maggio 2016 nella chiesa Madre di Gibellina, progettata da Ludovico Quaroni.
L’opera esprime tutta la psicologia della dialettica visibile-invisibile. Nel pannello sinistro appare visibile la scala e invisibile la croce (raffigurata con la sola ombra); nel pannello centrale appaiono soltanto le ombre della croce di Cristo e della scala; nel pannello a destra appare l’ombra della croce e del ladrone crocefisso. Ma credo che aldilà di questo ragionamento abbia prevalso l’inconscio della passione, e sembra di leggere la contemporaneità delle tre scene, tutte rivolte al momento conclusivo della Passione. Scompaiono così le figure del Figlio dell’Uomo e, alla sua destra, del buon ladrone: resta in croce il cattivo ladrone, e all’estremità del trittico si apre un inquietante spazio di tenebra, non senza uno spiraglio di luce provvidenziale. L’elaborazione del lutto della Passione induce Modica a rimuovere lo strumento reale del martirio, sostituito dalla sua ombra. All’estrema sinistra appare, come immagine della malinconia, il poligono irregolare desunto dalla incisione di Dürer, che qui dialoga forse con l’illuministica bianca sfera di Quaroni.

9. Giuseppe Modica, Crocefissione, Gibellina,
Chiesa Madre (2010)

Mi sembra straordinaria l’evocazione del ragionamento dell’incipit del Vangelo secondo Giovanni, che costituisce sicuramente il background della Crocefissione di Gibellina, se non anche della metodologia della luce secondo Modicain principio era il VERBO, e il Verbo era appresso Dio, e il Verbo era Dio… in lui era la VITA; e la vita era la LUCE degli uomini: e la luce splende fra le TENEBRE, e le tenebre non l’hanno ammessa…”.
La luce della Terrasanta è luce mediterranea e dunque anche luce della Magna Grecia di Modica, luce di scienza pitagorica e archimedea. Il mistero della luce coincide col mistero della Tenebra che ritorna Luce. E diventa Luce anche l’Ombra: l’ombra della croce si imprime sulla parete di tufo affondata tra i due muri, a celebrare il mistero della Montagna che diviene cava, caverna artificiale, sepolcro di morte e di rinascita. Vuota la croce, vuota la cava-caverna che rievoca l’epopea michelangiolesca del finito/nonfinito.
Perché la cava? Perché al posto del pieno, della montagna dell’uomo (la croce piantata sul Golgota, nel luogo della tomba di Adamo), Modica propone il vuoto, il cavo utero della madre-terra, quasi prefigurazione del sepolcro scavato nel banco roccioso?
Modica mi ha rivelato che quella cavità ripropone con stilizzazione geometrica le cave di tufo e di pietra nei dintorni della sua Mazara. Quando gli feci notare che la cavità dove si staglia la croce centrale appare del tutto analoga allo spazio retrostante alla Madonna di Michelangelo nel Tondo Doni, Modica è rimasto sorpreso dall’accostamento a cui non aveva pensato. A questo punto il quadro di Gibellina si è dimostrato a sua volta una chiave inaspettata per comprendere il significato di quell’enigmatico spazio michelangiolesco.

11a-c. Michelangelo, l’esedra del Tondo Doni (restituzione geometrica di Fabio Colonnese) a confronto con l’apertura sopra il Mosè e con la pianta della Cappella Sforza in S. Maria Maggiore.

E’ stata notata, per il Tondo Doni, la differenza tra il punto di vista dal basso per la Madonna col Bambino e il punto di vista leggermente dall’alto per quella cavità aldilà del muretto che dunque va intesa come una cava di marmo. E’ come se lo sguardo di Michelangelo, partendo dal basso salisse progressivamente in alto per scoprire la cavità dove si trovano gli ignudi e il Giovannino che guarda preoccupato in alto verso Cristo, a profetizzarne la morte (a cui allude la piccola croce sulla sua spalla). Portandosi in alto, Michelangelo scopre la fine tragica della storia, col Giovannino collocato nella fossa che allude forse alla sepoltura nella cava di pietra, come sembrerebbe proporre anche Modica. E anche Modica sembra compiere lo stesso movimento con la sua ideale telecamera che si solleva fino a cogliere l’ombra della croce nella cava, al centro del trittico.
La cava geometrica ideata da Michelangelo – nella forma a esedra che rievoca l’orchestra del teatro antico – sembra effettivamente riprodurre i teatri artificiali delle cave di Carrara (o di Seravezza), nelle quali lo scultore si recava per lunghi periodi a scegliere personalmente i blocchi di marmo. La cava è sicuramente metafora della Madre Terra da cui si estrae la divina perfezione del marmo (dal greco “màrmaron”, “pietra splendente”: abbagliante come il sole). Questo è indubbiamente il significato anche di due opere di Mantegna:

la prima è la Madonna delle cave (1488-90 c.; Firenze, Uffizi) con l’esplosione tellurica della montagna e con il ventre della grotta da cui gli scalpellini estraggono le Pietre dell’arte e della sepoltura, sopra al basamento geometrico dei blocchi geologici; la seconda è poi la Pietà di Copenaghen (1490-1500 c.; Statens Museum for Kunst) con l’analoga grotta da cui si estraggono le meraviglie della Scultura e dell’architettura. Ma già nell’Adorazione dei Magi agli Uffizi (1462-64) Mantegna aveva esposto la circolarità dei significati della grotta, dalla maternità-nascita fino alla morte-resurrezione.
Nel trittico di Modica, la cava e i muri del pianto diventano Muro di Resurrezione, là dove si afferma la vera eternità. Nelle muraglie si fissano la Sindone del martirio ormai invisibile, l’ombra delle coordinate cruciali e la scala dell’opus (croce-fissione della luce) che diviene strumento mistico di estasi e di ascesi.
L’Ombra ritorna Luce, dunque, simbolo ascetico. E la luce mediterranea discende come aureola sul muro-sindone, a suggellare il patto delle genti del mare. Il mare come cristallo assorbe e rifrange, moltiplica la luce e i colori in un mezzogiorno iridescente che non vedrà il tramonto, nella visione di Modica, perché la fissazione del tempo-spazio (croce-fissione) non consente più evoluzione. I dadi sono tratti sulle vesti dell’uomo, e le quattro parti divise dai soldati sono trasvolate nelle quattro del mondo, trasportate dalla luce. L’aceto della spugna è ormai solo sale, residuo del mare-morto prosciugato dal sole-vita.  E sulla nigredo cristallizzata trionfa l’opus del sole-oro.
Dove sono finiti gli uomini, Longino Giuseppe e Nicodemo? E dove sono le donne che dialogavano con gli angeli vestiti di bianco? “Noli me tangere” aveva detto l’uomo alla Maddalena, e poi avrebbe indicato la via, la vita e la verità (la scala) della sua ascensione di luce-nella-luce. Quindi l’uomo della luce sarebbe apparso presso il mare ai discepoli e avrebbe misteriosamente ipotizzato la non mortalità del figlio prediletto a cui affidava la trasmissione del Verbo.
E allora possiamo ritornare all’incipit per trasformarlo in racconto, in Parola (parabola) di Luce attraverso l’inversione della Luce operata dall’Ombra che ritorna luce secondo Modica. “In principio era la Luce” potremmo dire per concludere, “e la Luce era Dio, in lei era la Vita; e la Vita era il Verbo trasmesso agli uomini che splende fra le Tenebre, e le Tenebre non sono più, cancellate dal Verbo che diventa Immagine”.
Ma poi come in un lampo affiora, fra tenebre e luce, la nuda rivelazione: la cava e i muri altro non sono che metafora del genius loci di Gibellina, la città sconvolta dal terremoto del 1968. Sappiamo che nel muro sinistro si rispecchia il palazzo Di Lorenzo, risollevato da Francesco Venezia, e dunque la Crocefissione di Modica canta infine la passione della città atterrata dal sisma e la sua resurrezione nell’arte memoriale. Come non ricordare che – come abbiamo visto nelle due schede precedenti – il ruggito del terremoto aveva coperto l’ultimo respiro dell’Uomo e che il sole si sarebbe eclissato facendo sprofondare la terra nel freddo di tenebra?
Post tenebras Lux. E così sia.

NOTE

1 Vedi Mariella Bonsante, L’iconografia della Croce nel periodo postridentino:note sulla pala d’altare della primitiva chiesa dei Cappuccini a Bari, in “Quaderno n. 7 dell’istituto nazionale di Studi sul rinascimento Meridionale”, pp. 5-21 
2 Non ho ancora avuto modo, peraltro, di studiare questa piccola opera, forse di artista fiammingo (olio su tela, cm. 61,5×75; Roma, collez. privata).
3 Ho trattato recentemente di questo altare in M. Fagiolo, Survival e revival del Medioevo nel Rinascimento e Barocco Leccese, 1. Intorno a S. Croce e alla Colonna di Sant’Oronzo (in corso di stampa).
4 La Sindone e l’enigma dell’eclisse, in Guarino Guarini e l’internazionalità del Barocco, atti del convegno (Torino 1968), Torino 1970, pp. 205-25. l’analogia della pianta della cappella con gli schemi astronomici dell’eclisse di Sole si basa sul brano guariniano (Placita philosophica, 1665, pp. 300-301) relativo al problema di “eclipsim Solis in plano representare data latitudine lunae ad finem, medium, et initium eclipsim”.
5 E. Battisti,(Note sul significato della cappella della Sindone, in atti del X congresso di Storia dell’architettura”, Roma 1959, pp. 339 ss.) ricostruisce il significato del percorso determinato da una precisa volontà di “psicagogia”. M. PaSSanTi (Nel mondo magico di Guarini, Torino 1963) vede nella cappella una ascesa verticale “dalla cieca caotica zona terrena alla radiosa celeste armonia”. Scrive a. griSeri (Le metamorfosi del Barocco, Torino 1967) che la scala “è una camicia di fuoco” e appariva ancor più stregata quando doveva essere attraversata a lume di torcia: “se ne esce allucinati, non liberati”.
6 E’ il finale di un sonetto di Torquato Tasso, dedicato a san Carlo Borromeo in occasione della comunione ricevuta presso la Sindone.
7 C. Balliani, Ragionamenti della Sacra Sindone di N. S. Giesù Christo, Torino 1610-16, p. 263. Più avanti, riprendendo un pensiero di Origene, si parla di coloro che “col mezo del Battesimo, et della penitenza bramano di consepelirsi con Christo” (p. 315): il dramma di Cristo diventa dramma di tutti gli uomini, e il suo sepolcro mausoleo universale. 
8 Dal saggio di Battisti sono tratte le citazioni seguenti.
9 C. Balbiani, Ragionamenti sopra la santa Sindone di N.S. Giesu Christo, ne’ quali si trattano molti misteri della Sua passione, morte…, Torino 1618. Va ricordato anche un verso del poemetto guariniano La pietà trionfante: “spine io semino tra le spine”.
10 Cristo appare con 12 raggi nei mosaici paleocristiani dell’arco trionfale di S. Paolo a roma. Ho trattato il tema del cristo solare in Theodericus-Christus-Sol: nuove ipotesi sul Mausoleo, in Atti del Convegno di studi italo-jugoslavo sull’Alto Adriatico (1971), Ravenna-Lubljana 1974, pp. 83-157.

di Marcello FAGIOLO   Roma  agosto 2017