Tra Architettura e Storia: la Stazione Termini e gli inutili tentativi di un equilibrio fra necessità urbane, archeologia e riqualificazione (parte 2^)

di Francsco MONTUORI

Migranti su About

M.Martini e F. Montuori

DESTINO  DI  TERMINI

Parte seconda

Modernità di Termini

La Stazione non è luogo innocente:

da essa parte la ferrovia “per la conquista del mondo”; nei suoi vagoni prendono posto i pionieri diretti alla frontiera, pronti a compiere gran strage di indiani … Qui sarà Roma ad essere conquistata: la ferrovia porterà nella Capitale una nuova classe dirigente, l’aristocrazia politica piemontese, gli industriali settentrionali, la burocrazia albertina, pronti ad una fruttifera mediazione con i già consolidati e vasti interessi fondiari del Vaticano. Quanto agli indiani da sterminare: si trattava di costruire le nuove periferie per accogliere fiumi di migranti in fuga dalle campagne impoverite.

Un ciclo, ancor oggi incompiuto di demolizioni, ristrutturazioni, nuove costruzioni stravolgerà il senso e l’ordine di questo grandissimo spazio di monumenti, ville orti e giardini per conferirgli quel carattere di modernità di cui appunto le stazioni sono l’inconfondibile messaggio. Il sovrapporsi affastellato di nuovi fabbricati, di nuovi spazi e funzioni, con i criteri della casualità, dell’episodicità, della provvisorietà trasformano Termini in un cantiere di cui ancor oggi non si intravvede il compimento.

Il nuovo fabbricato viaggiatori di Salvatore Bianchi comporterà la demolizione di Porta Quirinale, del Palazzetto a Termini, della Villa Peretti Montalto, delle botteghe di Farfa che delimitavano, sopra la cinta delle muraria esterna delle Terme, i giardini della villa stessa (fig.1).

fig. 1 Thomas Jones, Scavi a Villa Montalto, 1777. Tate Gallery

Importanti reperti archeologici andranno irrimediabilmente perduti: il grande serbatoio d’acqua detto la Botte di Termini; l’Aggere serviano veniva per vari tratti mutilato fino a ridurlo al frammento oggi visibile; un oratorio cristiano domestico, decorato con affreschi del IV sec. spariva definitivamente nel corso di una notte, inghiottito dalle ruspe; pavimenti e mosaici di epoca imperiale finivano a decorare le ville ed i palazzi della nobiltà romana (fig. 2).

fig. 2 I mosaici dell’antica domus

Di seguito tutto il comprensorio viene investito da un incalzante serie di eventi edilizi: l’apertura dell’asse di via Nazionale e i nuovi edifici di G. Kock sulle strutture murarie dell’esedra terminale; il nuovo quartiere dell’Esquilino che si affaccia sul lato degli arrivi della nuova Stazione con gli edifici porticati, arretrati dal filo stradale a definire timidamente una piazza e il grande asse di via Cavour il cui stradone termina appunto nella piazza stessa.

E ancora: il nuovo quartiere alberghiero, polo di attrazione di una moltitudine composita di avventori, dirigenti, burocrati lestofanti, prostitute; l’edificio dell’Istituto Massimo che ingloba i resti del Palazzo a Termini; gli uffici compartimentali delle Ferrovie dello Stato, ex edificio postale sul lato di via Marsala; la sistemazione del Monumento ai 500 di Dogali, prima dislocato di fronte all’originaria Stazione, oggi invisibile, nascosto nei giardinetti prospicienti i granai clementini; la mostra dell’acqua Pia, posta nell’angolo fra il Palazzo a Termini e i suddetti granai e spostata nel 1885 al centro dell’esedra di piazza della Repubblica, ornata originariamente di quattro leoni di cartapesta poi sostituiti, nel 1900, dalle naiadi di Rutelli (fig. 3);

fig. 3 La fontana dell’Esedra e la stazione di Bianchi

le grandi masse articolate degli edifici di Angiolo Mazzoni; la città sotterranea con le linee metropolitane che riversano, in questo grande scambio di trasporti pubblici, le masse provenienti dai quartieri a nord e sud della città; il nuovo edificio frontale e la galleria di testa realizzati nel 1950, con l’arretramento della testata di arrivo e partenza dei convogli e la creazione di risulta del grande ed indefinito “spiazzo” frontale.

Ed infine la miriade dei piccoli interventi, tettoie, baracche, marciapiedi che quasi quotidianamente spuntano o spariscono dalla piazza, ieri sede di grandi parcheggi, oggi “terminal” dei mezzi pubblici urbani, luogo di smistamento verso tutte le direzioni della metropoli urbana (fig. 4)

fig. 4 La statua di Giovanni Paolo II

Fra gli interventi non secondari e più bizzarri sono i “giardinetti” che, evidente segnale del senso di colpa di quanti si sentono responsabili di questo caos urbano, via via vengono recintati e piantumati con patetiche alberature; alberature che tuttavia hanno avuto il tempo di crescere rigogliose e “sempre verdi” attorno alle Terme, chiudendole alla vista di chi esce dalla Stazione, quasi a volerne sancire la definitiva estraneità alla vita della città.

Ma al bilancio delle immagini che solo in questi ultimi anni si sono accavallate su questo luogo non possono essere dimenticati i numerosi progetti mai realizzati, neppure in parte, interessanti singoli elementi o il contesto complessivo dell’area. Fra questi i tentativi di dare ordine alla provvisorietà creata dai ricorrenti cantieri delle linee metropolitane e i progetti che, dal 1950 ad oggi, per conto delle FF.SS. sono stati prodotti al fine di conferire alla piazza un assetto stabile, in un disperato ed inutile tentativo di trovare un equilibrio fra necessità del traffico urbano, archeologia, riqualificazione dei fabbricati che sulla piazza si affacciano, esigenze differenti e spesso irrimediabilmente contrastanti.

Si sono voluti qui elencare appositamente alla rinfusa gli episodi più significativi di questo perenne cantiere;

essi rivelano, se ce ne fosse stato ancora bisogno, il provincialismo della classe dirigente che governò la città nei cento anni che seguirono la radicale trasformazione dell’area di Termini. Ma non è la provvisorietà, il disprezzo della storia, la continua ricerca di un fare che si risolve, alla fine, di un nuovo sempre uguale, una delle caratteristiche della modernità? Non è forse l’indefinitezza del labirinto un segno caratteristico della moderna metropoli?

La perdita del limite.

E’ la natura stessa della Stazione che può essere assunta a simbolo della modernità.

La città antica era delimitata dalle mura, articolate nelle torri e nelle Porte di accesso, secondo un perimetro ben riconoscibile; mura che oggi compaiono qua e là, frammenti in un tessuto edilizio che le ha inghiottite.

La costruzione delle stazioni ha infranto questa delimitazione ed ha trasferito il limite nel cuore stesso della metropoli: alla Stazione corrisponde idealmente la grande ed indefinita estensione della periferia, polarità opposta al centro storico, nel nuovo linguaggio contemporaneo.

Non osavo quasi confessare a me stesso la mia meta, ancora per via ero oppresso dal timore, e solo quando passai sotto  Porta del Popolo seppi per certo che Roma era mia.”(fig. 5)
fig. 5 F. Muccinelli, Piazza del Popolo nel 1781. Museo di Roma

Con queste parole Goethe commentava il 1° novembre 1786 l’arrivo nella città che rappresentava per lui, come per molti altri viaggiatori, la certezza  di un sapere consolidato e trasmissibile.

Già nel momento dell’arrivo ogni immagine acquistava il senso nella direzione da Goethe a lungo sperata:

“Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri di un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso sul rame o sul legno, riprodotto in gesso o sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado, scopro in un mondo nuovo cose che mi son note; tutto è come me lo ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo.”

Roma è per Goethe una meta a lungo accarezzata e culturalmente già posseduta; il suo è un viaggio in una regione della storia in cui si manifesta una completa pienezza di senso. Roma è ancora una città trasparente, nuova e nota al tempo stesso, immagine vivente di un sogno a lungo accarezzato.

L’itinerario del grande scrittore tedesco è volto ad uno scopo, e lo scopo è realizzato grazie alla durata del viaggio: esiste una continuità temporale nell’ordine razionale delle conoscenze, un ordine che comincia appunto alla Porta del Popolo, nell’atto di attraversamento delle mura.

L’irruzione della ferrovia trasforma radicalmente la linearità di questo percorso della conoscenza.

La perdita del limite spezza, anche fisicamente, la sequenza dei nessi logici fra cause ed effetti, la sequenza dei nessi cronologici; La crisi della durata si manifesta allora nel disordine dei luoghi, nella perdita di senso della storia, nella discontinuità degli spazi. Rispetto ad una ragione che ieri aveva ordinato le immagini all’interno di un sistema gerarchico di particolarità e di totalità, la città si presenta oggi come un’indefinita collezione di immagini, allineate, come in una galleria di museo, lungo le sue strade e le sue piazze.

Luoghi di passaggio.

Ricorda Walter Benjamin nei Passagen-Werk che

“Caratteristica storica della ferrovia consiste nel fatto che per prima (insieme alle grandi navi a vapore) rappresenta un mezzo di trasporto che forma masse”.

Così Termini. Oltre un milione di persone, appartenenti ad ogni classe sociale, vi passano, giornalmente. Non a caso le stazioni sono luoghi transitori per eccellenza; una folla di uomini e donne attraversano nelle due direzioni la galleria di gomma  e il grande atrio voltato. Solo una parte di essi sono passeggeri  in arrivo o in partenza; la maggioranza “passa” semplicemente, attraversa la soglia del grande atrio per farsi inghiottire dalle scale mobili che portano al sottosuolo, per acquistare ricordi nelle botteghe aperte giorno e notte, per un appuntamento, o semplicemente per bighellonare fra la folla. Termini interpreta l’astrazione propria della metropoli: è luogo dove non ci si può arrestare, dove alla massa fluttuante dei passanti fanno riscontro i vagabondi che trovano nella stazione il loro rifugio.

fig. 6 Montgomery Clift e Jennifer Jones in stazione_termini

Termini è luogo di ogni direzione e di tutte le immagini: è luogo di teatralità e di movimento, luogo di eventi memorabili e di “brevi incontri” di “strazianti addii”, di amori eterni e passeggeri (fig. 6). Il transito verso ogni dove e l’anonimia del passante che abita la stazione senza scopo, alludono alla modernità di uno spazio provvisorio e mutevole, complesso e contraddittorio, luogo di “fuga e di dimora”.

Nella costruzione delle stazioni ferroviarie De Chirico ritrovava le prime fondamenta di un’estetica metafisica;

solo una metafisica può spiegarne il carattere intimamente misterioso, il silenzio temporale che le avvolge, l’assenza e il disordine che le dominano. Solo un “altro pensiero” può rilevarne l’assenza, “può pensare il disordine”. Solo la Metafisica saprà svelare questo spazio vuoto ed indefinito, privo di identità, di gerarchie, di senso della modernità della metropoli. Nello spazio vuoto i passanti, le statue, i palazzi vi compaiono come ombre, a testimoniare lo sdoppiamento della realtà; l’orologio e il treno, al contrario, riempiono la rappresentazione e sembrano voler ricordare la provvisorietà e la transitorietà di questo luogo enigmatico (fig. 7).

fig. 7 G. De Chirico,  L’angoscia della partenza. The Albright Knox Art Gallery. Buffalo

Modernità di Termini.

Arrivando con la ferrovia nel grande anfiteatro si è accolti dal ritmo serrato delle pensiline che, rispetto alla campagna infinita, cominciano a misurare il brevissimo tratto dell’arrivo.

La galleria di testa, grande passaggio ortogonale alla linea degli arrivi, confonde il viaggiatore nella folla indistinta. Come una grande navata trasversale, divide Termini nei due mondi: quello lineare delle linee ferrate e quello labirintico della metropoli (fig. 8).

fig. 8 La Galleria di testa

La merce tipica degli oggetti-ricordo accoglie il passeggero, nei negozi sempre-aperti, allineati come una città in miniatura.

L’effetto trainante del treno è ormai spento: dal procedere sicuro verso la meta siamo ormai nel luogo dell’incertezza e dell’esitazione. Il grande atrio, con la slanciata pensilina  del dinosauro (è un interno ? un esterno ?) è ormai la città, la continuazione del caos delle strade e delle piazze.

L’edificio frontale che si affaccia sul grande caotico “spiazzo” è concepito come un grande velario, il fondale di una scena che si svolge nella metropoli. Chi arriva non può vederlo se non voltandosi dopo averlo attraversato. Si renderà conto allora che la soglia è ormai varcata e la soglia altro non è che un impercettibile ed invisibile linea di transito.

Siamo nello spazio indifferente ed amorfo dove si susseguono le grandi e piccole mutazioni del cantiere ininterrotto.

Il frammento dell’Aggere serviano indica un orientamento “qualunque”; le Terme, violate dall’asse viario diagonale della via L. Einaudi che ne cela l’orientamento originario, nulla ricordano della loro funzione ordinatrice dello spazio. Occhieggiano dietro il ridicolo boschetto che ne accentua, nella sua artificiosità, l’estraneità al contesto urbano. I grandi ruderi sembrano piuttosto un romantico ricordo, distrutto e conservato nello stesso tempo. Sul fondo l’Esedra e l’asse di via Nazionale indicano un ulteriore direzione dello spazio.

 Ai lati: il tessuto a scacchiera del quartiere Esquilino che si apre, con i palazzi in stile neo-rinascimentale, sulla piazza “che non c’è più”; il palazzo dell’ex Massimo che avanza enigmaticamente nello spazio vuoto e, dall’altro lato, l’edificio del palazzo Compartimentale – sotto il quale, un tempo, passava inopinatamente un tram! – che sfugge a qualsiasi descrizione razionale: esso non riesce ad essere fronte stradale né lato comprensibile del grande spiazzo, semplicemente “galleggia” nello spazio senza forma.

Speculare alla superficie della piazza, la città sotterranea, doppio labirinto di cunicoli e negozi  si mostra nella casualità della miriade degli episodi volumetrici che, nel tempo, emergono allo scoperto: tettoie, bussole, prese d’aria, inghiottitoi; il disordine è divenuto ormai un ordine spietato, protetto contro ogni emergenza.

Terme, antiche mura, palazzi, giardini si compongono in una sequenza, in cui ogni cosa ha perso il suo valore cronologico e ordinatore.

Non l’urgenza di mettere ordine; né il desiderio di attardarsi nell’amore di queste rovine: il destino ragionevole per Termini risiede nel tentativo di illuminare questa sequenza, di incorporare e comprendere ciò che è passato, ricostruire una memoria dei luoghi, nella disponibilità  ugualmente aperta al passato e al futuro.

Termini, ambigua e contraddittoria metafora della modernità di Roma, sfugge in realtà ad ogni riforma;

ad una riqualificazione che sia semplice aggiustamento o ricomposizione gerarchica di ciò che irrimediabilmente è stato infranto. E’ sensato invece sottolineare il carattere casuale di questi luoghi, per valorizzare l’ineludibile complessità di un contesto fatto di pluralità, stratificazioni, tensioni, differenze inconciliabili.

Certamente una possibile sistemazione di Termini riguarderà anche la rettifica di alcuni “cattivi ricordi”: primo fra tutti quelli che hanno oscurato la visione delle Terme dioclezianee, stravolgendone le volumetrie ed il rapporto con l’altro grande evento architettonico rappresentato dal fabbricato frontale, testimonianza dell’ultimo razionalismo italiano. E non ultimo l’ignobile palazzina della Nike, costruita “a tradimento” sotto la grande volta degli ingessi che cela definitivamente la vista interna dell’Aggere serviano (fig. 9) .

fig. 9 La palazzina della Nike

E poi il grande stradone di via Cavour, l’edificio Compartimentale, da demolire una volta per tutte, la sistemazione dei parcheggi delle autolinee, che chiudono la vista verso le Terme, i marciapiedi, l’attraversamento viario della piazza, le tettoie …

Tutto senza l’illusione di ricreare limiti effimeri, nuove gerarchie ed assialità: solo la grande folla che abita questo panorama, può divenirne protagonista consapevole perché  possa lanciare, come da una terrazza, uno sguardo ragionato sulle immagini di un passato recente o remoto.

Francesco MONTUORI  Roma  giugno 2019