di Francesco MONTUORI
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M.Martini e F. Montuori
DESTINO DI TERMINI
Prima parte Arrivi e Partenze
A quanti si fossero avventurati, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, in quella parte della città di Roma sita sul Monte Viminale, sarebbe apparso un grandissimo spazio di campagna con i grandiosi resti delle Terme di Diocleziano circondate da orti e giardini.
Osservando la pianta della città disegnata da Giovan Battista Nolli nel 1748 (fig. 1),
questo grandissimo spiazzo, seppur cinto dalle mura aureliane, appare come uno dei grandi complessi suburbani della Roma antica, al pari del Laterano o delle Terme di Caracalla. Fin quassù si poteva pervenire grazie alla ripida salita del Clivius suburranus che dal Foro romano conduceva al Monte Viminale.
Lo spiazzo di Termini, dominato dai resti imponenti delle antiche terme (fig. 2),
che avevano dato il nome a questo comprensorio, appare delimitato e riconoscibile: compreso nel recinto definito della villa del cardinal Felice Peretti, futuro papa Sisto V, dai Granai pubblici voluti da papa Clemente XIII, dai resti dell’antica esedra delle Terme dioclezianee, dai confini della villa Strozzi, dall’acquedotto dell’Acqua Felice che alimentava la monumentale fontana del Mosè a piazza San Bernardo, dalle ville e vigne limitrofe, villa Quarantotto, villa dè Vecchi, villa Lattanzi, vigna Martini, vigna Polidoro.
Ogni settimana in questa grande spianata si teneva il mercato del bestiame da macello che Alessandro VII aveva qui trasferito dal Campo Vaccino e di sabato e lunedì vi si svolgeva la fiera dei cavalli e degli asini. Era questa grande spianata che funzionava da piazza d’armi del regno pontificio; ed infine gli edifici pubblici che su di essa si affacciavano furono presto trasformati in stabilimento penale per ospitare i galeotti: “finire a Termini” significava dunque una brutta sorte…”.
Nella stessa pianta del Nolli è ben visibile un lungo cordone che emergendo da terra nasconde le fortificazioni della città antica, particolarmente necessarie in quel terreno pianeggiante. Le fortificazioni serviane correvano quasi in linea retta da nord a sud, attraversando diagonalmente l’area occupata oggi stazione; dal lato dell’attuale via Marsala si apriva nell’Aggere Serviano la Porta Viminale in cui confluiva vicus Portae Viminalis, una via romana che correva esterna al fronte murario delle Terme di Diocleziano, tangente alla Botte di Termini, la grande piscina che serviva da rifornimento dell’acqua per l’edificio termale (fig. 3).
Subito all’esterno dell’Aggere Serviano si sviluppò la più grande necropoli di Roma che dal Campus Viminalis si estendeva verso sud, al Campus Esquilinus.
Racconta Lanciani che durante la costruzione del quartiere Esquilino si rinvennero grandi quantità di ossa, insieme ad una melma grassa e maleodorante che costringeva gli operai addetti allo sterro a frequenti interruzioni dei lavori. All’epoca di Augusto, quando Roma crebbe a dismisura, Mecenate intraprese su questi terreni una vasta bonifica mediante il riporto di una coltre di terra di ben sette metri che seppellì la necropoli e raggiunse quasi la sommità del muro esterno dell’aggere. Il nuovo quartiere divenne di moda: sorsero numerose ville, gli Horti Lolliani, gli Horti Tauriani, e gli Horti Liciniani presso cui si insediò il ninfeo omonimo, oggi rinominato tempio della Minerva Medica, ben visibile a quanti pervengono in treno nella Roma moderna. (fig. 4).
Ben cinque acquedotti penetravano nella Roma antica all’altezza di Porta Maggiore. Tutto il complesso, collocata su un colle in alto rispetto alla città abitata, si caratterizzava per le numerose opere idrauliche la cui testimonianza è riscontrabile ancor oggi, nei resti degli acquedotti, delle mostre d’acqua e fontane, dei ninfei, delle cisterne.
Infine durante i lavori di scavo per la metropolitana del 1948 furono rinvenuti i resti murari di un edificio termale privato, di alcune tabernae e i resti di insulae, con splendidi resti di pavimenti a mosaico, il tutto rilevato, fotografato ed infine demolito.
Per secoli questa parte alta e eccentrica di Roma, seppur racchiusa nel giro delle mura, fu campagna, ben lontana dall’abitato.
Nella seconda metà del Cinquecento, il cardinale Felice Peretti, mise gli occhi su una serie di piccoli poderi, alla ricerca di un luogo ove costruire una sua residenza. Gli acquisti si intensificarono dopo la sua ascesa al pontificato nel 1585. Domenico Fontana costruì l’edificio principale; un altro palazzotto fu realizzato dove più tardi sarà costruito l’Istituto Massimo. La villa, ebbe il nome corrente di villa Montalto il paese d’origine del cardinale (fig.5).
Nella parte destinata a vigna il papa aveva proceduto ad ulteriori rinterri, facendovi scaricare la terra che proveniva dai lavori urbani eseguiti su suo ordine; nei pressi dell’Aggere Serviano crebbe un colle che fu nominato Monte della Giustizia:
sul colmo fu sistemata una statua della dea Roma, rinvenuta nelle terme costantiniane del Quirinale, contornata da una corona di cipressi (fig.6). La villa fu acquistata dai Negroni ma gli ultimi proprietari della Villa Peretti saranno i Massimo: Villa Massimo-Montalto scomparve quando la stazione di Termini sarà insediata nel suo territorio.
Buon ultimo fra gli Stati dell’epoca, il papato romano si decise a sviluppare una limitata rete ferroviaria. Una prima stazione provvisoria fu dislocata a Porta Maggiore, ma la forte distanza dal centro urbano convinse a scegliere un luogo più adatto all’interno delle mura. Il 5 dicembre 1857 viene notificato al Principe Massimo che Sua Santità ha approvato la proposta di costruire la stazione centrale nella villa alle Terme. Il 3 ottobre 1860 papa Pio IX dispone che le diverse linee ferrate facessero capo ad una sola stazione e che questa si costruisse nella villa Massimo alle Terme di Diocleziano.
L’ingresso delle tre linee ferroviarie già esistenti alla zona di Termini non fu cosa agevole per via della presenza del Monte della Giustizia. Si provvide a scavarne un segmento, lo stretto necessario per creare la sede dei binari senza toccarne la cima. Una fotografia d’epoca (fig. 7) mostra il piazzale interno della stazione provvisoria a Termini vista dal monte della Giustizia all’arrivo di un treno. Sui binari furono installate delle tettoie provvisorie di legno. Ma ormai era divenuta urgente la costruzione di un nuovo fabbricato. Furono presentati vari progetti e fra questi nel 1867 fu approvato il progetto redatto dell’ingegnere Salvatore Bianchi.
La nuova stazione, edificio “assai sontuoso e cinto da ogni parte da portici magnifici”, fu dislocata quasi a ridosso delle Terme, assai più avanti dell’attuale stazione Termini; fu ultimata e collaudato l’8 gennaio del 1874.
Era costituita da due corpi porticati simmetrici su due livelli, con due altane tripartite a chiara imitazione della Porta Quirinale (fig. 8), collegate al corpo sottostante da due ampie volute; nelle colonne dei portici frontali furono impiegati i tre ordini classici: tuscanico, jonico e corinzio. I due corpi si prolungano diversamente; in particolare l’ala verso via Cavour si articolava in una piazza laterale destinata agli arrivi dei viaggiatori. Fra due corpi murari fu realizzata un’ampia tettoia metallica destinata ad accogliere il fascio dei binari: una struttura simile a quelle di cui erano dotate le stazioni di grandi e meno grandi città, come testimoniano l’imponente galleria della stazione di Milano o la Gare de Lyon a Parigi. Per realizzarla si dovette ricorrere ad una ditta specializzata in carpenterie metalliche, la francese Joret di Parigi. Davanti alla tettoia metallica un basso corpo di fabbrica collegava i due edifici maggiori; aveva un portale centrale con volute con al centro un grande orologio. Nella piazza di Termini fu collocato il monumento dei 500 caduti di Dogali sovrastato da un piccolo obelisco egizio rinvenuto dal Lanciani scavando presso la chiesa di Santa Maria sopra Minerva.
Paolo Portoghesi, descrivendo la stazione nella sua pubblicazione sull’ “L’eclettismo a Roma” elogia il Bianchi per la “clamorosa applicazione del ferro”. Salvatore Bianchi godette a Roma di particolare prestigio, a 37 anni fu ammesso all’Accademia di San Luca. La sua opera più importante, oltre la nuova stazione, fu il palazzo Marignoli su via del Corso ove si stabilì il famoso caffè Aragno.
Termini assunse così la fisionomia di una stazione degna della capitale dell’Unità d’Italia da poco proclamata.
La stazione si affacciava addirittura su due piazze: la originaria piazza di Termini, destinata a chiamarsi Piazza dei Cinquecento, su cui prospettavano le facciate dei due padiglioni e la grande tettoia metallica e la nuova piazza sul lato degli arrivi dalla quale partivano le vie che scendevano verso il nuovo quartiere dell’Esquilino, con al centro il grande stradone di via Cavour.
Non era trascorso un quindicennio dall’ultimazione dei lavori che si manifestarono nelle murature le prime gravi lesioni e gravi insufficienze strutturali. Nel 1876 crollò la sala del ristorante. La grande tettoia metallica era stata realizzata con sottili lamiere che facilmente venivano divelte dal vento; cosi l’acqua piovana penetrò facilmente dalla copertura allagando i marciapiedi. La situazione si aggravò dopo l’Unità, quando Roma divenne meta di pellegrinaggi sacri e profani. Il 1900 è Anno Santo, e la folla dei pellegrini straripa dagli oltre cento treni giornalieri che si riversano su Termini. La stazione costruita per il piccolo stato pontificio si dimostrò assolutamente insufficiente.
Alla vigilia dell’Anno Santo del 1925 si cercò adeguare funzionalmente Termini e si installarono nuove pensiline metalliche, per far fronte a treni sempre più lunghi. Un milione e mezzo furono i pellegrini che si riversarono nella città e ben un terzo fu trasportato dai mezzi speciali delle ferrovie.
L’ultimo tentativo per la trasformazione radicale della stazione fu fatto in occasione del Piano regolatore del 1931. Il piano prevedeva due stazioni centrali, entrambe di transito: Casilina al sud, su cui avrebbero dovuto confluire i treni provenienti da nord e Flaminia a Nord, all’incirca dove sorgerà il Villaggio olimpico, in cui avrebbero dovuto confluire i treni provenienti da sud. Le due stazioni avrebbero dovuto essere collegate da una lunga galleria passante per Termini, divenuta stazione sotterranea, dotata di ben sedici binari.
Ma il grandioso progetto dell’Esposizione Universale assorbì tutti i fondi del nuovo piano ferroviario: Termini sarebbe rimasta l’unica stazione centrale di Roma.
Diventano ormai maturi i tempi per sacrificare il vecchio fabbricato di Salvatore Bianchi; Milano nel 1931 e Firenze con la nuova stazione di S. Maria Novella nel 1933 avevano ormai rinnovato radicalmente i loro impianti. Molte proposte furono fatte per Roma quando Angiolo Mazzoni divenne direttore dell’Ufficio architettura delle Ferrovie dello Stato. Mazzoni, che aveva partecipato con Marinetti alla fondazione del futurismo, aveva già dato prova di grandi capacità unite ad atteggiamento profondamente eclettico nella realizzazione di numerose stazioni italiane.
Dopo l’abbandono delle direttive del Piano Regolatore del 1931, propose nel 1937 un nuovo edificio ferroviario a Termini, arretrandone decisamente il fronte, onde superare l’ostacolo rappresentato dall’aggere serviano e creare una nuova grande piazza fra la Stazione e le Terme di Diocleziano. Mazzoni concentrò tutti i servizi della stazione sulle ali laterali come in una stazione di transito, creando ampi collegamenti sotterranei trasversali. Immaginò una semplice facciata razionalista, impostata su una lunga finestra a nastro ed una pensilina a sbalzo della stessa lunghezza (fig.9).
Ma ormai l’indirizzo politico di Mussolini aveva virato sul monumentale, così nel 1938, Mazzoni ripropose un nuovo progetto con una facciata scandita da una doppia fila di imponenti colonne con capitelli “a foglie d’acqua” come proposto da Piacentini. Mazzoni non smentiva la sua disinvoltura di grande eclettico, capace di passare dal razionalismo al rinascimentale e, all’occasione, al romano imperiale. Un prototipo al vero fu realizzato per convincere il Duce (fig.10) ma fortunatamente tutto fu rinviato a causa della guerra.
Del progetto di Mazzoni furono edificate le due ali laterali, che presentavano complesse e differenti volumetrie su via Giolitti e via Marsala prima che la guerra imponesse un arresto alla prosecuzione dei lavori (fig.11). Arrivando con la ferrovia nel grande anfiteatro si presentano ancor oggi al viaggiatore imponenti volumi razionalisti: lo sbalzo, la compenetrazione dei volumi, le finestre squadrate nel travertino, gli archi spogli da cornici e lesene, archetipi depurati dal segno dei tempi.
Rimase comunque il vuoto del fabbricato di testa. Il progetto mazzoniano rimaneva arretrato di ben 225 metri dal fronte delle Terme, ma le Ferrovie dello Stato avevano bisogno di allungare i binari di almeno altri 50mt. e ritenevano necessario un fabbricato frontale non solo per il passaggio dei viaggiatori dai mezzi di trasporto ai treni, ma di un vero e proprio edificio dotato di un atrio biglietti e di uffici ai piani superiori. Così, esiliatosi volontariamente in Colombia Mazzoni, che volle scontare così le sue complicità con il regime fascista, fu bandito nel 1947 un concorso per il completamento della stazione. Fu vinto da due gruppi di concorrenti: l’uno costituito dall’ing. Leo Calini e dall’arch. Eugenio Montuori; l’altro dagli architetti Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati e Annibale Vitellozzi e dall’ ingegnere Achille Pintonello.
La nuova stazione, inaugurata nel 1950 (figg. 12-13), si fonderà su semplici presupposti: un grande atrio coperto da una struttura fortemente ondulata che si apre verso le Terme di Diocleziano; un fabbricato per uffici che, per la sua astrazione, appare come un grande velario che evidenzia sullo sfondo i Colli Albani ed una grande galleria trasversale fra via Giolitti e via Marsala, una struttura urbana che collega i due quartieri popolosi dall’Esquilino e del Nomentano-Salario.
Scriverà Giò Ponti: la nuova stazione è un
“monumento non monumentale”, “Dobbiamo persuaderci che il nostro tempo è il più leggendario di tutti, che le cose che facciamo sono le più meravigliose che mai siano state fatte e che le loro dimensioni sono le più grandi che siano mai esistite” e conclude lodando “la pensilina ad ondate che si protende davanti all’edificio”… “A noi non spiace che sia scoppiato fuori questo elemento frutto dell’irrequietudine italiana, di quell’alta irresistibile birichineria o, più rispettosamente, vivacità italiana che è uno dei coefficienti creativi che rendono terribilmente vivente questo nostro paese”.
Francesco MONTUORI Roma maggio 2019