di Nica FIORI
“San Francesco contempla un teschio”: il quadro di Zurbarán in mostra ai Musei Capitolini, tra Caravaggio e Velázquez
Entro una scura cornice rettangolare, verticalmente allungata, San Francesco spicca sullo sfondo di una parete dove a destra si vede la sua ombra. Indossa un saio con il cappuccio a punta e ha tra le mani un teschio, oggetto della sua meditazione. L’austerità dell’insieme, i colori e la luce che illumina la figura contribuiscono a farci vedere il santo sotto un aspetto spirituale e metafisico, che appare di una modernità sorprendente per il suo secolo, il Seicento, quello che per la Spagna è stato il siglo de oro.
Si tratta di un quadro dello spagnolo Francisco Zurbarán (1598-1664), di modeste dimensioni ma di grandissimo valore artistico, che è in mostra nei Musei Capitolini (fino al 15 maggio 2022), nella Sala di Santa Petronilla, accanto alle due opere di Caravaggio della Pinacoteca Capitolina (San Giovanni Battista e La Buona Ventura) e al Ritratto di Juan de Cordoba di Diego Velázquez per un dialogo a tu per tu tra tre grandi protagonisti della pittura secentesca.
Il dipinto, intitolato “San Francesco contempla un teschio” (1635 ca.), è stato prestato dal museo americano Saint Louis Art Museum, in cambio di un dipinto di Francesco Albani su lavagna, ed è tanto più gradito in quanto Roma non possiede nessun’opera di questo artista spagnolo, grande protagonista insieme a Velázquez e Murillo del siglo de oro spagnolo, ma la cui lezione fu compresa dai pittori francesi dell’Ottocento e riconosciuta dalla critica italiana e internazionale solo a partire dagli anni Venti del Novecento.
Nato a Fuente de Cantos, in Estremadura, il giovane Zurbarán si recò ancora ragazzo a lavorare presso un maestro sivigliano e a circa 18 anni cominciò a firmare le sue opere, imponendosi al pubblico, in contemporanea con Velázquez, tanto che nel 1629 Siviglia lo elesse “pittore della città”. Nel 1634 Filippo IV lo chiamò a Madrid a dipingere Le fatiche di Ercole per il Salone dei Regni nel Palazzo del Buen Retiro, ma, a parte questa parentesi, egli ebbe soprattutto incarichi per i cicli di pitture conventuali, tanto da essere chiamato “pittore di frati”, per aver ritratto i monaci del suo tempo in tutti gli aspetti della vita pratica e spirituale. Egli in realtà fu anche autore di nature morte, che spesso inserì anche nei quadri di composizione, aggiungendo con i fiori, i frutti e oggetti vari fascino e poeticità all’insieme.
Negli ultimi due decenni della sua vita egli subì una lunga crisi – forse determinata dal successo della pittura di Murillo – durante la quale la sua opera andò perdendo le caratteristiche migliori.
Anche se Zurbarán non ha avuto contatti diretti con Caravaggio e non si è mai recato a Roma, deve aver conosciuto le opere del Merisi attraverso le incisioni e le copie che circolavano in Spagna e deve aver ammirato le opere del caravaggista Jusepe de Ribera, che era particolarmente apprezzato dai sivigliani. Di Caravaggio gli deve essere arrivato solo il riflesso, ma il pittore è riuscito a utilizzare quel riflesso per una visione più mistica e metafisica della luce.
Ed è proprio questo aspetto contemplativo che ci incanta nel quadro in mostra, che faceva parte di una pala d’altare (retablo) conservata nella chiesa carmelitana del collegio di Sant’Alberto a Siviglia. San Francesco, il fraticello di Assisi, è stato una vera e propria ossessione pittorica dell’artista, che lo ha ritratto innumerevoli volte, probabilmente perché aveva il suo stesso nome. Il dialogo silenzioso tra il santo e il cranio allude alla fragilità dell’esistenza umana e simboleggia il memento mori, un tema ricorrente nel barocco spagnolo e nell’arte della Controriforma in genere. Il mistero della morte è stato per san Francesco occasione di innalzamento spirituale e poetico: basti pensare al passo del Cantico delle Creature (1224) “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare …” e, proprio per questa accettazione della morte terrena, i frati cappuccini hanno creato alcuni cimiteri decorati con ossa, come quello celeberrimo annesso alla chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma.
Il progetto espositivo “Zurbarán a Roma. Il San Francesco tra Caravaggio e Velázquez” a cura di Federica Papi e Claudio Parisi Presicce, è per i romani una grande opportunità per ammirare un pittore non presente nei musei della capitale (e rarissimo in Italia, dove lo troviamo soltanto a Firenze e a Genova) e per l’occasione è stato in parte cambiato l’allestimento della sala ospitante, come ha evidenziato la Sovrintendente Capitolina Maria Vittoria Marini Clarelli.
La curatrice Federica Papi ha sottolineato come il confronto tra il dipinto del Saint Louis Art Museum, i due di Caravaggio e il Velázquez della Pinacoteca Capitolina è incentrato sull’uso della luce, evidenziando le affinità e le differenze. Se infatti il rapporto tra forma, spazio, tempo e luce rappresenta il comune denominatore, molto diversa è la scelta pittorica e l’interpretazione simbolica. Anche se Zurbarán è stato soprannominato il “Caravaggio di Spagna” (titolo riferitogli per primo dal biografo spagnolo Antonio Palomino nelle sue Vite degli artisti del 1724), in realtà la sua luce è più fredda rispetto a quella di Caravaggio e nel bellissimo dipinto di Velázquez siamo coinvolti dal personaggio, e catturati dal suo sguardo, più che dalla luce, che potremmo definire atmosferica. Juan de Cordoba era il braccio destro di Velázquez a Roma e il pittore lo ha ritratto mettendo a nudo la sua individualità con un realismo penetrante e quasi vibrante di vita.
Ovviamente anche le due tele di Caravaggio sono di una bellezza straordinaria, soprattutto la prima: quel San Giovanni Battista adolescente e nudo, che sorride mentre abbraccia un montone e che, secondo un’ipotesi, potrebbe forse non raffigurare il santo, che di norma ha un atteggiamento ascetico, ma il giovane Isacco appena scampato al sacrificio che il padre Abramo stava per compiere e che al suo posto sacrificherà il montone. La luce, che batte fortissima sulle spalle e sulla gamba del giovane, potrebbe essere quella dell’invisibile Angelo di Dio che lo ha salvato. L’opera, risalente al 1602, è stata però eseguita per Ciriaco Mattei, che voleva festeggiare il figlio maggiore che si chiamava Giovanni Battista.
L’altra opera, La Buona Ventura (1597), è una scena di vita quotidiana, rappresentante una zingara che legge la mano a un giovane cavaliere, sfilandogli abilmente l’anello: un chiaro monito a non farsi ingannare, a non cedere ai falsi profeti.
Nica FIORI Roma 20 Marzo 2022
“Zurbarán a Roma. Il San Francesco del Saint Louis Art Museum tra Caravaggio e Velázquez”.
Musei Capitolini – Pinacoteca – Sala di Santa Petronilla. Piazza del Campidoglio, 1
Orario: tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima) Tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00) www.museicapitolini.org ; www.museiincomune.it