di Francesca SARACENO
Francesca Saraceno (Catania, 1971)) è una blogger; dopo gli studi magistrali, nel 1990 sostiene e supera l’esame da esterna per entrare all’Accademia di belle Arti di Catania, indirizzo “pittura” senza però poter frequentare per seguire l’attività commerciale della famiglia; ha continuato a condurre studi di carattere umanistico su autori classici e contemporanei, specie riguardo alla saggistica e alla critica d’arte, che l’hanno da tempo avvicinata in particolare alle figure e alle opere di Buonarroti e di Caravaggio oltre che all’Impressionismo con saggi e articoli che hanno ottenuto notevole riscontro in particolare sulle maggiori opere del genio lombardo; attualmente scrive su varie testate online ed ha in preparazione un volume con i contributi fin qui pubblicati. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.
La recente scoperta presso una casa d’aste di Madrid di un “Ecce Homo”, da molti studiosi ritenuto autografo del Caravaggio, riapre il dibattito non solo sull’attribuzione, ma anche sul tema dell’iconografia nei dipinti del maestro lombardo, sempre originale ed innovativa nella sua reinterpretazione, rispetto alle versioni classiche dello stesso soggetto, pur rimanendo nel solco di una doverosa e imprescindibile correttezza dottrinale.
Il caso più eclatante, tornato in auge non molto tempo fa, è quello sulla identità di San Matteo nella “Vocazione” della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, per il quale la lettura del saggio di Sara Magister “Caravaggio. Il vero Matteo” è stata per me illuminante tanto quanto la luce della Grazia per il pubblicano Levi, perché ha dato conferma alle mie prime impressioni fornendo risposte dettagliate e circostanziate a tutti quegli interrogativi che, per poca dimestichezza, fino ad allora, non avevo saputo come spiegare. Ho sempre pensato che Matteo nella “Vocazione” Contarelli fosse il ragazzo a testa bassa, chino sui soldi, seduto a capotavola, e la storia del dito ricurvo nel personaggio barbuto al centro del dipinto che si autoproclama “Santo” non mi aveva mai convinta.
Pur rimanendo nel dubbio io quel dito l’ho sempre visto “dritto”. Per me quel dito non significava “Dici a me…?” ma “…dici a lui????”. L’ espressione di meraviglia stampata sul volto dell’uomo sarebbe stata la stessa, sebbene con presupposti diversi.
Mi ero costruita una serie di teorie senza però trovare mai riscontri oggettivi. Ebbene, oggi so perché per me Matteo era (ed è) quel ragazzaccio torvo e scarmigliato e non l’elegante “dandy” barbuto dall’indice ingannatore.
Il Matteo che non ti aspetti è quello che quello che nessuno vuole vedere perché è come guardarsi allo specchio: ci vedi dentro te stesso e la tua grettezza. L’altro è più “comodo”, più confacente al nostro bisogno di illuderci, più “centrale”, protagonista e autorevole. È uno “che conta”. È quello che vorremmo vedere nello specchio, invece.
Beh, spiacente … tocca accettare lo specchio della verità. Quella di Michelangelo Merisi da Caravaggio che non fa sconti a nessuno.
Comincio col dire che, a dispetto di quanto si possa pensare, il nostro Michelangelo in realtà fu molto poco “eversivo” nel pensare quella sua iconografia della “Vocazione” così eterodossa. Di fatto egli rispose a precise indicazioni della congregazione di San Luigi dei Francesi e della nuova committenza, ovvero i delegati della Fabbrica di San Pietro (nella persona di Berlinghiero Gessi, colui che materialmente affidò al Merisi l’esecuzione dei laterali), subentrati al defunto Mathieu Cointrel nella gestione dei lavori della cappella e nel controllo dei contenuti espressi nelle opere. Molto probabilmente anche il Cardinal Del Monte fornì all’artista preziosi consigli. E questo per due motivi:
1) perché quelle sue prime opere pubbliche avevano un’importanza “didattica” enorme in vista del grande Giubileo del 1600 che avrebbe richiamato in città pellegrini “peccatori” da ogni parte, e dunque Merisi fu seguito e controllato passo dopo passo nell’esecuzione delle sue tele. Comprese la costruzione scenica e l’iconografia. Nulla poteva essere lasciato al caso.
2) perché, se il primo intento del defunto cardinale Cointrel era stato quello di riabilitare la propria immagine (aveva dei trascorsi, diciamo, non proprio “limpidi”…) attraverso la storia della conversione di Matteo, morto lui questo scopo non aveva più importanza; mentre per i delegati della Fabbrica e per i preti di San Luigi, era certamente più opportuno assecondare gli interessi dottrinali ecclesiastici nell’indurre il popolo – pellegrini e non – a specchiarsi nella vicenda del Santo e trarne i dovuti insegnamenti. C’erano – soprattutto – una quantità di “pecorelle smarrite” sui sentieri del protestantesimo da ricondurre all’ovile di Santa Romana Chiesa.
Lo scopo delle due tele laterali era dunque essenzialmente pedagogico; esse dovevano “delectare, docere et movere” ovvero dovevano attrarre l’interesse dell’osservatore, istruirlo e indurlo alla sequela dei precetti cattolici allo scopo di raggiungere la salvezza. Come ottenere questo scopo?
L’ottimo studio della dott.ssa Magister parte da un presupposto ben preciso, che sembra ovvio ma in questo caso non lo è affatto, ed è forse il primo motivo per cui non riuscivo a spiegare le mie sensazioni: l’osservazione del dipinto.
Tutti noi abbiamo un po’ la tendenza a pensare il quadro sempre nella sua visione frontale; soprattutto io che non ho mai avuto occasione di vederlo dal vivo ma solo in foto. Ebbene il punto di vista, nel caso delle tele Contarelli (ma anche per quelle Cerasi) è fondamentale, perché l’osservatore in loco non guarda i dipinti frontalmente ma dall’esterno della cappella e quindi ne ha una visione laterale e prospettica. Sembra un’ovvietà e invece cambia tutto.
Partendo da questo particolare punto di vista si può meglio comprendere la struttura compositiva dei due quadri che Caravaggio fu indotto (su specifica indicazione della congregazione di San Luigi e dei delegati della Fabbrica, per gli scopi di cui sopra) a “orientare” verso il pubblico, che avrebbe assistito alle funzioni guardando i due dipinti da un punto di osservazione che non sarebbe stato frontale. Infatti, la scena della “Vocazione” si sviluppa da destra verso sinistra mentre, al contrario, quella del “Martirio” da sinistra verso destra. Entrambe dal punto più lontano, ossia quello interno alla cappella, verso quello più esterno e quindi più vicino al pubblico.
Il punto di osservazione è fondamentale perché cambia totalmente la nostra percezione di quanto sta accadendo nel quadro. Se per anni (secoli) si è pensato (e si continua a pensare) che il Matteo della “Vocazione” fosse il personaggio barbuto è anche perché lo sì è sempre percepito come il centro geometrico del dipinto e quindi il “protagonista” della scena. E questo anche perché lo schema classico della composizione pittorica vuole il protagonista della storia al centro in modo che sia immediatamente individuabile. Ma questo può essere valido quando il dipinto nasce per la visione frontale. Qui il discorso è diverso e il protagonista non può essere posto al centro geometrico della scena perché egli deve essere individuato da osservatori che lo guarderanno lateralmente e dall’esterno della cappella.
Questo primo assunto ci è utile anche per motivare e definire meglio altri due elementi fondamentali a supporto della attendibilità del Matteo meno ovvio, ossia le fonti di luce e la figura del Cristo.
Nelle tele Contarelli è presente una fonte di luce primaria che irradia dall’alto e si dipana in tre direzioni diverse seguendo l’orientamento delle tre scene. Nella “Vocazione” questa luce primaria è quella che vediamo di taglio, soffusa e polverosa, dividere la scena in diagonale e investire in pieno alcuni personaggi seduti al tavolo di gabella, tra cui il volto dell’elegante barbuto, che quella luce se la beve tutta e ne fa la “prova regina” della sua identità “santa”.
Ma … c’è una seconda fonte di luce in questo dipinto, che sfugge forse ad un primo esame e che ha un’origine più centrale e più bassa rispetto alla prima. Ed è una luce che la Magister definisce “irrazionale”, metafisica, proprio perché non ha una fonte “naturale” (vera o presunta) come potrebbe essere quella che filtra dalla vetrata, ma irradia da un punto preciso, quello in cui si compie ed ha origine la Grazia … ovvero l’altare.
Questa luce è la manifestazione visibile della Grazia che nel dipinto assume una funzione salvifica; infatti è questa, e non quella diagonale, ad investire il ragazzo chino sui soldi e indicargli la strada della salvezza; muovendo dall’altare alla tunica di Pietro (ovvero la Chiesa, che funge da tramite nell’opera di redenzione), fino alle mani, al volto e soprattutto alla sua gamba destra aperta su una “savonarola” già spostata verso l’esterno, perché di lì a poco Levi, ormai Matteo, si alzerà per seguire il Signore.
È attraverso questa seconda luce che si compie la conversione dell’avido pubblicano. La luce “naturale” primaria, invece, investe un uomo già redento, sia nel “Martirio” che nella pala d’altare.
La luce della salvezza irrompe in un interno, un “magazzino, ovvero un salone ad uso di gabella” come richiesto dalle indicazioni testamentarie del cardinale Cointrel. Un ambiente scuro, ombroso; Tomaso Montanari lo definisce “underground” rendendo perfettamente l’idea di un posto di dubbia fama, come l’esistenza del peccatore Matteo. E insieme a questa luce salvifica che trafigge l’oscurità del peccato, si materializza un Cristo spettacolare, per fattura pittorica e per presenza scenica.
Egli non sta “passando” all’esterno come dice il Vangelo (Mt. 9, 9-13) ma è “dentro” il magazzino-gabella. Si manifesta ai peccatori del 1600 e a noi, nel nostro “presente”, con i suoi abiti di foggia antica, a ribadire una chiamata che è per tutti e che non ha tempo. Non si può dire che sia entrato da una porta perché di fatto Cristo emerge dal buio della parete alle spalle dei personaggi seduti al tavolo. È un uomo “vero” che “appare” dal nulla.
Non essendo in loco bisogna fare uno sforzo di immaginazione, ma non è difficile visualizzare la figura del Cristo che procede dal muro di fondo in avanti verso l’esterno della tela, lasciandosi alle spalle i personaggi seduti sul lato lungo del tavolo, e all’improvviso vederlo voltarsi verso la sua destra; in un attimo tutti noi ci troviamo il suo sguardo addosso e quel dito michelangiolesco puntato dritto verso le nostre coscienze. È a questo punto che ci rendiamo conto che quello sguardo e quel dito, prima di arrivare a noi, proprio “prima di noi” dal punto di vista spaziale, hanno attraversato la mente, la coscienza, il cuore, la vita intera dell’unico personaggio a quel tavolo che poteva intercettarli: il ragazzo chino sui soldi. È lui il “traguardo” dell’azione di cui Gesù è il motore propulsivo. La chiamata viaggia dalle labbra socchiuse del Cristo che stanno pronunciando la parola “Seguimi”, procede dal suo braccio teso e dal dito puntato, attraversando tutta la scena – compresi gli altri personaggi seduti al tavolo – per arrivare al destinatario designato. E attraverso lui, a tutti noi.
Perché? Perché è proprio quel ragazzo, Matteo?
Perché a quel tavolo è l’unico totalmente concentrato sul denaro, l’unico che sta contando soldi e appare quindi “in atto di aver riscosso qualche somma” come richiesto nelle indicazioni della committenza originaria; l’unico che nasconde un sacchetto di monete sotto il tavolo da quell’infingardo, truffatore, farabutto che era, manifestando tutto intero l’orrore del suo peccato. L’unico che può, volendolo, alzarsi e seguire Gesù immediatamente, perché la sua destra è libera.
Tutti gli altri personaggi, compreso – e forse più di tutti – il barbuto, sarebbero variamente impediti nel dar seguito “immediato” alla chiamata come riferisce il Vangelo. Il ragazzo chino sui soldi è l’unico vestito in maniera trasandata, mentre gli altri sono tutti damerini ben vestiti, qualcuno con la spada al fianco, a manifestare uno status sociale altolocato; esattamente come nei “Bari”, dove i personaggi “negativi” sono abbigliati in maniera diversa, più trascurata, rispetto all’elegante “vittima”. E anche qui, come nei “Bari”, il personaggio più ben vestito, il barbuto al centro, è quello che sta snocciolando denari sul tavolo subendo probabilmente la truffa del gabelliere.
L’aspetto trasandato di Matteo doveva servire (e serve, ora lo so!) a identificarlo immediatamente, alla prima occhiata, come il farabutto disonesto. L’osservatore doveva individuare subito nel dipinto il “peccatore” chiamato alla redenzione e identificarsi con lui. E lo trova infatti, curvo, silenzioso, completamente rapito dalla sua avidità, vicinissimo al suo spazio fisico, perché il giovane Matteo è proprio il personaggio più prossimo all’osservatore.
Giovane, si, perché la stessa controriforma imponeva di riferire le vicende evangeliche in maniera storicamente esatta e gli apostoli, prima di diventare i “Santi” vegliardi alla cui immagine siamo tutti abituati, Gesù li prese con sé che erano giovani uomini. Ed è per questo che il Matteo della “Vocazione” Contarelli non può essere rappresentato come un uomo maturo, “carico di anni e di meriti”, perché egli non è ancora “Santo”, non ha ancora vissuto una vita di fede, come si vede invece nel “Martirio” e nella pala d’altare con l’angelo. Ma sta per diventarlo. Matteo è colto nel momento più altamente significativo della sua esistenza: quello che io definisco “il tempo sospeso della scelta”, in cui egli sta decidendo se “servire Dio o il denaro”. È quell’attimo “fermo” che racconta tutta la storia e che forse sfugge solo a noi posteri ma non sfuggiva ai contemporanei del Merisi, avvezzi a “leggere” le immagini sacre col filtro delle intenzioni ecclesiali. Scrisse Marzio Milesi:
“E già veggio il mio Cristo, ch’a chiamare e pubblicani venne, e peccatori, come al primo apparir sgombra e rischiara la mente di Mattheo, ch’ingorda e cieca, si stava al mondo in duri lacci avvolta.”
La luce della Grazia non investe il volto ma “la mente” di Matteo, la sua coscienza. Per questo ci è più difficile individuare sul ragazzo a capo chino i segni della conversione che sta avvenendo; eppure è solo lui quello che incarna una coscienza “ingorda e cieca” proprio con il suo atteggiamento e la sua postura. Ciò che sta accadendo dentro quel dipinto noi non possiamo vederlo perché sta accadendo “dentro” la mente, la coscienza, il cuore di Matteo. Caravaggio lo farà di nuovo, di negarci l’immediata visualizzazione di un’azione che si compie, in un’altra conversione, quella di Saulo nella Cappella Cerasi. Anche lì vedremo una “istoria affatto senza azione” , per dirla alla Bellori.
Eppure, a parte l’encomiabile Sara Magister, anche qualcun altro, nel nostro tempo, ha saputo vedere ciò che ai più sembra tanto difficile da risultare illogico; non uno a caso ma uno “che ne sa”… Papa Francesco. Durante un suo viaggio nelle Filippine, il 18 gennaio 2015, sua Santità raccontò l’episodio della “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio davanti a migliaia di persone:
“[…] Passa Gesù, lo guarda e gli dice: Vieni! Seguimi ! Non ci poteva credere. Se poi avete tempo andate a vedere il quadro che Caravaggio ha dipinto su questo episodio. Gesù lo chiama e quelli che stavano con lui dicono: ‘Questo qui, che è un traditore, uno svergognato ?’ E lui sta curvo sul denaro e non lo vuole lasciare. Ma la sorpresa di essere amato lo vince e segue Gesù.”
Beh, pensate quello che vi pare ma…se lo dice il Papa …
Francesca SARACENO Roma 2 maggio 2021