di Sergio ROSSI
Da Botticelli a Michelangelo: ancora sulla Cappella Sistina
I
All’interno degli affreschi quattrocenteschi della Cappella Sistina dipinti da Sandro Botticelli, con andamento circolare e quasi a mo’ di puzzle, in modo che non tutti dovessero coglierne i precisi rimandi storici, si dipana un racconto drammatico e incalzante (come un moderno thriller) dei coevi avvenimenti storici culminati con l’assassinio di Giuliano dei Medici.
Mi sono già occupato della questione in tre miei saggi (citati in bibliografia[1]) ed ai quali rimando per ulteriori approfondimenti ed i necessari riferimenti bibliografici, in particolare quelli riguardanti i fondamentali studi di Maurizio Calvesi ed Heinrich Pfeiffer. In questa sede, per mantenere viva la necessaria suspense del racconto, proverò a mettere in continua relazione gli affreschi ed i coevi avvenimenti (direi quasi di cronaca), che li hanno ispirati.
All’inizio del suo pontificato Sisto IV era in ottimi rapporti con il giovane Lorenzo il Magnifico; ben presto però i rapporti tra i due si deteriorarono irreparabilmente, tanto che il della Rovere affidò la cura delle finanze pontificie alla famiglia fiorentina più ostile ai Medici, quella dei Pazzi. Questi ultimi, insieme all’arcivescovo di Pisa Salviati e altri nobili fiorentini ordirono presto una congiura con l’obbiettivo non solo di rovesciare i Medici, ma addirittura di ucciderli. Sisto era solidale con questa coalizione e con la sua finalità politica, ma non voleva che si arrivasse ad uno spargimento di sangue omicida. Cosa che invece avvenne la domenica del 26 aprile del 1478, quando l’arcivescovo di Firenze Riario Sansoni officiò in S. Maria del Fiore, luogo in cui i Medici si sarebbero recati senza armi, una messa solenne: alla cerimonia religiosa erano presenti i due giovani signori di Firenze ed i congiurati, tra cui due preti ingaggiati come sicari, Stefano da Bagnone e il vicario apostolico Antonio Maffei da Volterra, oltre naturalmente ai capi dei ribelli, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini.
Ed ecco che nell’affresco botticelliano con le Tentazioni di Cristo notiamo, sulla sinistra in primo piano, tre persone riccamente abbigliate e che parlano tra loro in modo ravvicinato (fig.1). In particolare quella sull’estrema sinistra tiene in mano un oggetto allungato, che ad una più attenta analisi ci appare inconfutabilmente come un pugnale; si tratta di figure assolutamente non pertinenti con la scena rappresentata e cioè con La purificazione del lebbroso e pertanto esse devono alludere a qualcosa di diverso, che molto probabilmente solo in pochi dovevano immediatamente percepire e questo qualcosa non poteva che essere proprio la congiura antimedicea (come già intuito a suo tempo da Pfeiffer).
I tre personaggi prima descritti sono dunque, da sinistra a destra, Francesco de’ Pazzi, raffigurato appunto con un pugnale in mano e pronto a colpire; l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e Jacopo Bracciolini, cioè proprio i tre congiurati che vennero impiccati il giorno stesso della congiura fallita a metà.
Torniamo ora al fatidico aprile del 1478 in Santa Maria del Fiore: nel momento in cui il cardinale Riario sollevò l’ostia si consumò il vero e proprio agguato e mentre Giuliano cadeva in un lago di sangue sotto i colpi del Bandini, Lorenzo, accompagnato da Angelo Poliziano e dai suoi scudieri Andrea e Lorenzo Cavalcanti, veniva ferito solo di striscio dai preti prima citati e riusciva a riparare in sacrestia, mettendosi definitivamente in salvo. Di tutto questo troviamo ancora una volta puntuale riscontro nei nostri affreschi, anche se dobbiamo spostarci a quello noto come Mosé e le figlie di Jetro dove, sull’estrema destra, è rappresentato quasi alla lettera quanto accadde il 26 aprile nella cattedrale di Firenze.
In primo piano, infatti, abbiamo un giovane che sta per essere assassinato a colpi di spada e appena più dietro un altro giovane ferito che, sorretto da una figura femminile (la Vergine Maria, “Mater misericordiae” e provvidenziale salvatrice)[2] riesce a mettersi in salvo riparando nell’edificio posto alle sue spalle. Giuliano pertanto, contrariamente a quanto pensa Pfeiffer, è da identificarsi nell’egiziano che sta per essere colpito a morte, mentre Lorenzo, le cui fattezze sono per altro simili a quelle del fratello, è l’ebreo che riesce a mettersi in salvo.
Ma cosa accadde realmente dopo il sanguinoso attentato? Quando Jacopo de’ Pazzi, arrivò in Piazza della Signoria al grido di “Libertà”, la reazione popolare fu in effetti opposta a quella che lui si attendeva, perché il popolo fiorentino si dimostrò schierato completamente a favore dei Medici e contro i congiurati, che furono tutti catturati e in qualche caso addirittura linciati dalla folla inferocita. Francesco de’ Pazzi, Jacopo Bracciolini e l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati furono impiccati sul momento; mentre i due preti che si erano rivelati degli incapaci sicari vennero catturati pochi giorni dopo e linciati dalla folla prima di essere giustiziati in piazza della Signoria ormai tumefatti e senza orecchi.
L’ennesimo riscontro visivo di tutto ciò lo ritroviamo nell’affresco della cosiddetta Punizione di Core, Datan e Abiron. Ebbene in questa scena tre congiurati vengono puniti con la morte, perché la terra si apre ai loro piedi inghiottendoli.
E se nessuno finora, ha mai messo in relazione questo dipinto con gli altri da noi presi in considerazione è perché tutti gli storici, pur cercando precisi collegamenti con l’atto di ribellione descritto, hanno sempre ritenuto che quest’ultimo dovesse essere rivolto contro Sisto IV e che quindi Core, Datan e Abiron fossero da identificare con quanti (per esempio l’arcivescovo slavo Andrea Zamometich) avessero in qualche modo messo in dubbio l’autorità del Pontefice o ne avessero addirittura chiesto la rimozione.
Ma così facendo hanno del tutto ignorato quanto è scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio che compare in bella vista proprio al centro dell’affresco sistino (fig.4): NEMO SIBI ASSUMMAT HONOREM NISI VOCATUS A DEO TANQUAM ARON (Nessuno si arroghi alcuna autorità se non chiamato da Dio come Aronne).
Colui che si è arrogato un diritto che non gli competeva, cioè punire con la morte tre ribelli che pure si erano macchiati di una indubbia colpa, è Lorenzo il Magnifico e non certo papa della Rovere, che a più riprese e anche pubblicamente si era sempre dichiarato contrario, almeno in via di principio, alla pena di morte, anche in occasione della congiura dei Pazzi.
Ben presto però, dopo varie ed alterne vicende che non posso qui analizzare nel dettaglio, la riconciliazione tra i Medici e Sisto IV era diventata improcrastinabile, sia per salvaguardare l’unità interna dell’Italia, ma soprattutto per fare fronte al pericolo sempre più imminente che andava assumendo la minaccia turca. Perché ciò avvenisse era però necessario che i fiorentini si dimostrassero disposti ad accettare alcune condizioni poste dal papa e a chiedere il proscioglimento dell’interdetto che nel frattempo li aveva colpiti: e il 25 novembre 1480 giunse a Roma un’ambasceria composta dai rappresentanti delle famiglie più nobili di Firenze, con in testa proprio il giovane Lorenzo. Il 3 dicembre i legati fiorentini comparvero nell’atrio della basilica di S. Pietro, dinanzi al Pontefice e al collegio cardinalizio, si prostrarono a terra, confessarono le loro colpe nei confronti della Chiesa e del suo capo supremo e chiesero perdono per sé stessi e per il loro popolo.
Anche questo episodio è raffigurato nel ciclo sistino, esattamente nell’affresco delle Tentazioni di Cristo, proprio quello da cui siamo partiti, dove gli ambasciatori sono appunto ritratti al centro della scena e tra essi è ben riconoscibile lo stesso Lorenzo nel personaggio con veste blu, maniche gialle e cappello rosso piumato in mano (proprio dietro il gran sacerdote al centro dell’affresco) nell’atto di inginocchiarsi accanto all’altare dell’olocausto e di chiedere umilmente perdono.
Ed è da notare come egli appaia molto più giovane di come non fosse in realtà a quella data, forse per rendere meno evidenti i collegamenti storici di quella identificazione. Però, secondo Pfeiffer (e con ancora maggiore intransigenza Michele Nigro, su cui presto ritorneremo), con il suo affresco Botticelli ha girato le accuse: non sono i fiorentini ma il papa e la sua famiglia ad avere bisogno di purificazione.
Naturalmente noi non condividiamo queste ultime osservazioni, del tutto incompatibili con una spiegazione logica degli affreschi, tutti tesi a dimostrare proprio la superiore “umanità” e “cristianità” di Sisto IV e non certo a denigrare il committente degli stessi. E per meglio motivare il nostro assunto dobbiamo ancora una volta confrontare le due scene che hanno per tema le rispettive Conturbatio, di Mosé e di Cristo. Mentre quella botticelliana si chiude in modo cruento, con la morte di tre ribelli, così come nella realtà si era conclusa la Congiura de’ Pazzi, in quella peruginesca, come spiegato a suo tempo da Maurizio Calvesi:
«Cristo offre la vita per liberare dalla morte anche i propri nemici e quindi il pontefice, che di Cristo è il rappresentante, non può condannare a morte nessuno, neanche chi si rivolta contro di lui. Ed è proprio grazie al perdono di Gesù, al suo generoso sacrificio, che l’umanità peccatrice può redimersi e “risorgere”, così come simbolizzato dall’edificio ottagono che campeggia solenne nello sfondo della Consegna delle chiavi».
D’altra parte è la logica prima che qualsiasi dotta analisi iconologica a dirci che Sisto IV non avrebbe mai permesso che in un ciclo di tale enorme importanza e visibilità comparisse un così preciso riferimento alla Congiura dei Pazzi se non per dichiararsene completamente estraneo. Dunque, lungi dal criticare o addirittura deridere il Pontefice questi affreschi sono interamente tesi ad assolverlo da ogni complicità in quegli eventi e ad esaltarne piuttosto le qualità di equilibrio e lungimiranza.
Sisto si propone infatti come nuovo Salomone, anzi a questi superiore per devozione e saggezza politica, quest’ultima messa in pratica anche nel “perdono” da lui concesso alla fine a Lorenzo il Magnifico nel nome di una necessaria pacificazione: e non è certo un caso se proprio perdono e misericordia siano le parole chiave usate da Sisto IV (non ci importa quanto sinceramente) per delineare la sua politica e con essa tutta la visione ideologica che ha ispirato il ciclo sistino.
Comunque, con queste mie precisazioni, io non ho mai inteso sostenere l’estraneità del della Rovere alla Congiura dei Pazzi, ma solo che questa era la tesi ufficiale che egli naturalmente voleva che si facesse trapelare e che alla fine lo stesso Lorenzo aveva dovuto accettare. D’altro canto anche il Magnifico veniva decisamente riabilitato, come è logico che fosse in pitture che egli stesso aveva contribuito a realizzare: innanzi tutto era riuscito ad imporre (e che l’idea sia nata da lui io sono assolutamente convinto) che nei dipinti sistini comparisse un preciso riferimento al tentativo di omicidio che aveva dovuto subire in quel fatidico aprile del 1478 ed al quale aveva sì reagito in modo eccessivo, ma macchiandosi al massimo di quello che oggi verrebbe definito come “eccesso colposo di legittima difesa”; anche di questo, però, egli si era poi pentito chiedendo grazia al pontefice e ottenendo da Sisto IV una piena assoluzione. In tal modo il suo atto di sottomissione al della Rovere non poteva essere in nessun modo tacciato di viltà ma doveva apparire anzi come un gesto di lungimiranza politica.
II
Torniamo ora al denso studio di Michele Nigro da me pubblicato su Theory and Criticism…[3], nel quale lo studioso si sofferma in realtà soprattutto sull’affresco michelangiolesco della Volta raffigurante l’episodio de La creazione delle piante.
E così come aveva collegato i dipinti botticelliani alla presunta critica contro Sisto IV, collega quello michelangiolesco ad una ancor più presunta critica del Buonarroti all’altro papa della Rovere, Giulio II, che sarebbe stato addirittura bollato, anche se indirettamente, con l’infamante accusa di “omosessualità”. Sempre secondo Nigro, infatti, Michelangelo avrebbe in quell’affresco raffigurato Dio mentre ostenta il suo deretano nudo, alludendo così anche alle pratiche sessuali “contro natura” del suo committente.
Peccato però che per dimostrare questa sua tesi Nigro parta dal completo fraintendimento del brano vasariano relativo al nostro affresco, dal quale derivano poi a cascata tutta una serie di sviste interpretative che cercherò man mano di evidenziare. Afferma infatti il Nigro:
«Nella prima redazione (1550) de Le vite, Giorgio Vasari scrive che Michelangelo, sulla volta della Cappella, “fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe. Il medesimo fece nella medesima storia quando, benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu cammini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso” (carattere e grassetto di chi scrive».
E così prosegue: «Riguardo al punto 2 del periodo precedente, occorre, tuttavia, precisare che ove il passaggio che suona “Il medesimo […] fece” venga inteso come “Lo stesso, la stessa cosa [egli, Michelangelo] fece” (il “fece” riprende, in tal caso, il precedente “fa”)” e non come “[Michelangelo, soggetto della frase] il medesimo Dio fece” (le due diverse interpretazioni ad alcuni potranno apparire irrilevanti e potrebbero anche esserlo), non pare esservi dubbio che l’autore delle Vite, nel momento in cui non si giova affatto dell’espressione condiviana “il medesimo Iddio”, privilegiando, appunto, la “difficilior lectio” “una figura”, tende, in qualche modo, a bipartire la scena e a differenziare, appunto, detta “figura” da “il medesimo Iddio”».
Contrariamente a quanto pensa Nigro, però, il testo vasariano è chiarissimo e va così interpretato: Il medesimo, cioè la medesima cosa, ossia una scena eseguita con bellissima discrezione et ingegno, fece Michelangelo nella medesima storia, [dal momento che il Buonarroti ha unito in un unico riquadro i due episodi della Creazione del sole e della luna e della Creazione delle piante] quando, avendo benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta …: dove è evidente innanzi tutto che colui che ha “benedetto la terra e fatto gli animali” non può essere che Dio, anche se in questo caso il suo nome è sottinteso, e di conseguenza anche la figura che scorta sempre a lui si riferisce[4] e non a chissà quale ipotetico e inesistente personaggio, di cui del resto nessuno studioso si è mai accorto e di cui per altro lo stesso Nigro non spiega minimamente né il significato né la ragione d’essere, se non quella, a dir poco non plausibile, di alludere attraverso il suo deretano nudo (che poi nudo non è) alla presunta omosessualità di Giulio II.
Riepiloghiamo dunque dall’inizio il testo vasariano rivolgendolo in un italiano di oggi: «Michelangelo fece con bellissima discrezione ed ingegno quando Dio crea il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e si mostra molto terribile per lo scorcio delle braccia e delle gambe. La stessa abilità egli (Michelangelo) dimostra nella medesima storia quando, avendo Dio benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta la sua figura di scorcio, ecc.»
Per chiarire meglio tutta l’intricata questione voglio ora rivolgermi ad un bel libro di Marco Bussagli I denti di Michelangelo[5], in cui l’autore osserva come «basta guardare con attenzione alcuni dei personaggi dipinti o disegnati da Michelangelo per rendersi conto che essi si caratterizzano per un’anomalia anatomica di cui non si può dubitare: la presenza di un quinto incisivo che spicca al centro della bocca» e che li denota come coloro che appartengono al mondo prima della rivelazione di Cristo, ma che allude anche alla violenza, alla bestialità, nonché alla natura lussuriosa.
Anche «in tutta la volta della Sistina Michelangelo affronta il problema del male e del suo rapporto con l’uomo che, per via dei denti, passa attraverso la sua conformazione fisica e la costruzione armonica del corpo che diviene dissonante quando non è illuminata dalla Grazia Divina. Un’altra immagine significativa di quella anomalia anatomica la troviamo nella scena della Creazione del sole e della luna (quarto giorno) collocata da Michelangelo insieme a quella delle piante (terzo giorno) per mancanza di spazio. Quasi a commento della possente figura di Dio che, di scorcio, lancia nel cielo la gialla palla di fuoco del sole e quella argentea della luna, ci sono quattro figure di bambini che si possono variamente interpretare come allegorie o, meglio, come angeli i quali, come è noto avevano nella visione teologica dell’epoca funzioni diverse, inclusa quella di spostare le stelle del cielo, oppure di alternare la presenza del giorno e della notte ruotando il grande marchingegno dell’universo».[6]
Sintetizzando il pensiero di Bussagli osserviamo con lui come, proprio attraverso le diverse posture e fisionomie degli angeli, a seconda che essi rappresentino il giorno o la notte, Michelangelo declini il valore del male che viene posto in diretta relazione con la mancanza di luce, anche sulla scorta di Sant’Agostino :
«La separazione fra quella luce, cioè la santa società degli angeli che la luce della verità fa rifulgere in modo intellegibile, e le tenebre ad essa contrarie poté operarla Colui al quale non poté essere nascosto il male futuro».[7]
Ma come si connette tutto questo con la porzione di affresco esaminata da Nigro e riguardante appunto la Creazione delle piante?
Da una parte Dio ha creato i luminari maggiori che sono anche le immagini della luce e dell’ombra, dall’altra crea le piante che sono il fondamento della terra; e siccome anche quel piccolo universo che è l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, è formato da nuda terra, ne mostra le fondamenta, che guarda caso, hanno lo stesso nome delle piante: piante dei piedi. Ed è evidente che per mostrare le piante dei piedi di Dio ripreso di spalle mentre si libra nel cielo anche un virtuoso dello scorcio come Michelangelo non poteva non dipingerne le terga; comunque il posteriore di Dio non è nudo, o coperto da un sottile velo di organza, come vorrebbe Nigro, ma è coperto da una veste, sia pure color carne e che in ogni caso ne copre le pudenda, mentre le piante dei piedi, che alludono al contempo a quelle dell’uomo che sarà creato da lì a poco, sono nude ed evidenti in primo piano.
Cadono così alla luce di questa semplice, sintetica ma ineccepibile spiegazione, che è il frutto di un mio confronto con l’amico Bussagli e che integra quella, secondo me assolutamente corretta, dello Pfeiffer, tutte le malevole e (mi perdoni il Nigro) veramente inaccettabili illazioni sui presunti riferimenti all’omosessualità di Giulio II[8], così come la goliardica spiegazione che prova a fornire, senza per altro alcun tipo di riscontro, Antonio Paolucci:
«Nella raffigurazione della creazione degli astri [sic! si tratta invece di quella della “creazione delle piante”] nostro Signore svolazza con le natiche ben in vista. In effetti è una visione inusuale, difficile da spiegare. Mi diverto a pensare a un lazzo tipo ‘amici miei’. Michelangelo, talvolta capace di ordire scherzi con i suoi amici Granacci e Bugiardini, magari avrà detto: Scommettiamo una cena che io, nella cappella del papa, dipingo il sedere di Nostro Signore? Così è stato».[9]
Che poi Michelangelo abbia una visione, per così dire “umana, troppo umana”, se non addirittura antropomorfa, ma comunque mai, neppure lontanamente, blasfema, del divino è altra questione[10], di estremo interesse, che mi riservo di approfondire in altra sede. In ogni caso la figura “svolazzante” nella scena duplice, tratta dal terzo e quarto giorno della creazione, altri non può essere che l’Eterno, come conferma questa stringata ma perfetta analisi di una studiosa al di sopra di ogni sospetto come Cristina Acidini che scrive:
«A sinistra, Dio procede in volo di spalle, compresso nello scorcio prospettico che lascia primeggiare le falde svolazzanti del manto tra rosa e purpureo ma mostra, con forte effetto naturalistico, le piante dei piedi nudi»[11]
Tornando al Nigro, appare del tutto pretestuosa anche l’altra sua osservazione circa il fatto che «l’ostentazione delle piante dei piedi sia, nel costume islamico, considerato offensivo nei confronti di chi guarda». Ammesso che sia così, e non ne dubito, cosa però c’entri tutto questo con Michelangelo è davvero impossibile da capire. Infine un’ultima chiosa sulla presunta omosessualità di tanti «nudi di giovani maschi dalle posture sovente effeminate» che ancora una volta alluderebbero a Giulio II perché molti di loro recano serti di ghiande con evidente riferimento allo stemma dei della Rovere: qui veramente Nigro si fa trascinare un po’ troppo dalla sua inarrestabile foga antipapista.
Sergio ROSSI Roma 14 novembre 2020
NOTE