di Nica FIORI
Messina: leggende e folclore dello Stretto
Lo Stretto di Messina nel suo breve tratto ha sempre racchiuso un mare estremamente pericoloso:
qui sono avvenuti i fatidici terremoti e maremoti che hanno annientato più volte la città; sulle sue acque soffiano venti procellosi, sorgono miraggi e si verificano strani prodigi che hanno stimolato la fantasia popolare.
Leggende e infinite storie legate al mare sono di casa a Messina, fin dalle sue origini. Non a caso il monumento più amato dai messinesi è la cinquecentesca fontana dedicata a Nettuno (opera del fiorentino Giovanni Angelo Montorsoli), riproducente il dio del mare nell’atto di placare due ninfe furibonde, Scilla e Cariddi, le stesse che nell’Odissea mettono a dura prova Ulisse. Molti sono i miti che si riferiscono al dio, chiamato dai Greci Poseidone, che era venerato nel territorio già in epoca micenea. Si ricorda in particolare l’ira del dio contro Ulisse, dopo l’accecamento del figlio Polifemo, il mitico Ciclope che abitava sulla costa siciliana. Secondo Strabone, il nome di Reggio Calabria (l’antica Rhegion) era dovuto alla frattura (in greco regma) che separò la Sicilia dalla Calabria, in seguito a un colpo di tridente dato da Nettuno.
Un altro mito attribuisce la fondazione della città di Messina al gigante Orione, figlio di Nettuno, che nella scenografica fontana di Orione (opera del Montorsoli e del messinese Domenico Vanello), è raffigurato con il suo cane Sirio. Questa importante fontana si trova in piazza del Duomo, proprio di fronte al celebre Orologio astronomico a più piani, ed è anche per questa felice posizione uno dei monumenti più ammirati dai turisti. Il culto del dio del mare era pregnante per la città dello Stretto, tanto che i Monti Peloritani erano chiamati un tempo Nettuni e nella città dovevano esserci tre templi dedicati alla divinità. Uno era situato nel sito della Chiesa dei Catalani (SS. Annunziata dei Catalani, splendido esempio di architettura bizantina del XII-XIII secolo, con influenze arabo normanne), uno presso Capo Peloro e un terzo forse sul monte di Antennammare, dove si venera una Madonna che secondo la tradizione sarebbe stata portata lassù da delfini.
Tra i fenomeni più singolari dello stretto suscita molta curiosità quello della Fata Morgana, un’illusione ottica dovuta alla rifrazione e riflessione della luce, percepibile nelle giornate più calde e afose, poco prima dell’alba. Si ha l’impressione di vedere in alto sull’acqua delle costruzioni fluttuanti, le città di Messina e Reggio Calabria riflesse.
Diversi viaggiatori nei secoli passati ne hanno dato testimonianza con la descrizione di archi e colonne oltre che di torri merlate; probabilmente ciò era dovuto alla presenza della cosiddetta Palazzata (una serie continua di palazzi che incorniciava l’intera cortina del porto) a Messina e della vecchia via Plutino a Reggio. La tradizione popolare, che probabilmente risale ad età normanna, ha voluto vedervi la città sottomarina di Morgana, fata e sorella di re Artù. D’altra parte in molte leggende messinesi si ritrovano echi e figure del ciclo carolingio e di quello bretone.
Nella novellistica locale vi è un racconto che richiama vecchie favole orientali, quello di Colapesce, cui si intitola una delle banchine del porto. All’inizio del Novecento Giuseppe Pitré, il più grande studioso di tradizioni popolari siciliane, raccolse in un’ampia monografia più di 40 versioni della leggenda che lo riguardava. Nicola, detto Cola e poi Colapesce, era un pescatore abilissimo che viveva presso Capo Peloro. Egli disincagliava le reti dei pescatori e li informava se stava per sopraggiungere una tempesta; conosceva talmente bene i fondali marini da essere considerato mezzo uomo e mezzo pesce. La sua fama era giunta fino all’imperatore Federico II, che, trovandosi a Messina (la sua presenza è attestata nel 1221), volle conoscerlo. Una versione ci racconta che l’imperatore mise alla prova l’abilità di Colapesce promettendogli in premio la mano della figlia. Costei gettò uno dei suoi anelli in mezzo allo stretto e Colapesce lo recuperò per ben due volte, ma alla terza, aumentata la profondità, non riemerse più, probabilmente perché preferì cercar moglie tra le sirene.
La variante forse più affascinante ci narra che il re chiese un giorno a Colapesce di controllare su cosa poggiava Messina. Dopo essersi tuffato, Cola risalì riferendo che la città era poggiata su uno scoglio ed era sorretta da tre colonne: una intatta, una scheggiata e una rotta. Per evitare che la sua amata Messina si inabissasse, Colapesce si rituffò e si sostituì alla colonna rotta e ancora oggi sorregge questa parte della Sicilia. Appare evidente il riferimento alla sismicità del luogo, già nota in età medievale.
La dura vita marinara e la preoccupazione costante dei terremoti fanno dei messinesi un popolo di devoti. Di particolare venerazione gode San Francesco di Paola, del quale si ricorda il miracoloso transito sullo stretto sopra il proprio mantello. Grandissima devozione, inoltre, circonda la Madonna della Lettera, la cui statua si erge su una colonna all’imbocco del porto.
Secondo un’antica tradizione, nel 42 d.C. Messina inviò a Gerusalemme alcuni ambasciatori per attestare la conversione della città avvenuta per opera di San Paolo, e lo stesso santo li avrebbe accompagnati alla presenza della Madonna. Questa decise di gratificarli con una lettera in cui affermava la sua protezione. Lo scritto, ovviamente redatto in ebraico e datato 3 giugno, sarebbe stato tradotto in latino nel XV secolo dall’erudito bizantino Costantino Lascaris.
Naturalmente il fatto di possedere una reliquia di tale importanza suscitò la gelosia delle altre città, specie di Palermo che ne negava l’autenticità. Nella festa del Corpus Domini viene portato in processione il Vascelluzzo, un vascello a tre alberi lungo circa un metro, al quale è fissato un reliquiario che contiene i capelli con cui la Madonna avrebbe legato la lettera inviata ai messinesi.
A questo prezioso simulacro sono legati alcuni avvenimenti storici. L’episodio più noto risale al 1603 quando una terribile carestia affliggeva la città. Mentre una grossa nave carica di grano transitava nello stretto, una miracolosa tempesta provocata dalla Madonna costrinse l’imbarcazione ad approdare nel porto, salvando così gli abitanti dalla fame.
A partire dalla prima metà del Cinquecento, con l’affermarsi della leggenda relativa alla Madonna della Lettera, ebbe inizio la splendida festa mariana che culmina, il 15 agosto, con la processione della Vara. È questa una macchina con una serie di ingranaggi interni che, azionati manualmente, ne consentono i vari movimenti. In una grande struttura di forma piramidale, che simboleggia l’Assunzione della Vergine in cielo, troviamo inferiormente la tomba della Madonna circondata dagli apostoli; sopra vi sono numerosi angeli su più livelli, il sole, la luna, il cielo stellato e in cima Gesù Cristo che tiene sul palmo della mano destra l’Alma Mater (l’anima della Vergine). Tutti i personaggi della Vara anticamente erano viventi. Solo nel 1866 vennero sostituiti con delle statue.
Ma la processione più singolare è quella del 14 agosto, quando un fastoso corteo in costume accompagna per la città due enormi statue equestri, i cosiddetti Giganti, ovvero Mata e Grifone.
Sulla loro origine le tesi sono diverse. Nel 1547 a Palermo furono rinvenute delle ossa gigantesche, probabili resti dell’antica fauna che aveva popolato la Sicilia in epoca preistorica. Questo ritrovamento fece asserire ai palermitani che la loro città era stata fondata da “Giganti”, e ciò le conferiva un maggior prestigio rispetto alla rivale dello stretto.
Forse fu per reazione a queste pretese che il senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue colossali. Queste superano gli otto metri in altezza e sono scolpite in legno cavo all’interno. L’attuale posizione, a cavallo, risale al 1723, ma è solo dal 1950 che i due giganti vengono caricati su carrelli con ruote per essere trainati più facilmente.
Grifone, che cavalca uno stallone nero (un tempo bianco), ha una bellissima testa di moro, incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro. Il colore della sua pelle ha fatto attribuire antichissime origini etiopi al personaggio (ritenuto a torto il fondatore di Messina), oltre a qualche legame con alcune tradizioni arabe. Il suo matrimonio con una donna bianca, Mata, ha certo un emblematico significato in una città per tanti secoli al centro del Mediterraneo.
Nel 1993 è stata ripresa la tradizione, interrotta più volte dal 1909, di far seguire i Giganti da un’altra macchina raffigurante un cammello. Per alcuni rievocherebbe l’entrata a Messina di Ruggero d’Altavilla sul dorso di un dromedario dopo la sconfitta degli arabi; per altri l’elemento arabo-predone che esigeva tributi dal popolo.
Ricordiamo che i Giganti e la Vara sono esposti tutto l’anno in una mostra permanente, in via Consolato del Mare, 6.
Nica FIORI Messina marzo 2019