di Massimo PULINI
Ci sono opere che nascono con un destino segnato. Pitture che mostrano, nella loro superficie, la storia che saranno chiamate a vivere.
Il tema della Fuga in Egitto è per eccellenza il racconto del viaggio e ci parla ancora oggi, con immutabile attualità, della condizione dei profughi e delle famiglie costrette a raccogliere in fretta e furia poche cose indispensabili prima di scappare dalle insidie di qualche potente. Gli editti di allora e le guerre di oggi fanno cambiare gli scenari alle fughe, ma le condizioni di necessità restano simili.
Il dipinto del quale intendo parlare restituisce dell’episodio evangelico una delle rappresentazioni più efficaci ed evocative. Mostra, attorno al nucleo della Sacra Famiglia, un vero e proprio convoglio di viandanti che lo accompagna e lo scorta da ogni lato, ‘da cima a fondo’, a significare una vicinanza sia del divino che del modesto. Vi sono raffigurate diverse presenze celesti, angeli adulti a fungere da apripista e putti infanti che volano in cielo tenendo sollevato un ampio tessuto a guisa d’ombrello o di baldacchino da processione. Sotto quella coltre che sventola vengono protetti la Vergine e il suo Bimbo, che si trovano in groppa all’asino, ma ai profughi non manca nemmeno l’assistenza più terrena, perché alcuni poveri, seminudi e scalzi, affiancano l’animale come se un’intera Adorazione dei pastori si fosse messa in cammino.
Difficile trovare un’interpretazione della Fuga che restituisca meglio il senso di andante e di arioso che questa ci offre; con grande intelligenza viene trasmesso infatti un passo sincronico verso la stessa direzione, così come lo scambio di relazione tra le figure e l’aria che le circonda. Pur marcate nel disegno delle vesti e nella linearità dei caratteri si percepisce un vibrato pittorico che dal cielo si trasmette a tutta la superficie del quadro, ma è soprattutto quel mantello stropicciato a imprimere un senso di movimento alla scena.
L’altra pertinenza al tema risiede nel fatto che anche lo stesso dipinto si è trovato ad affrontare un lungo viaggio e, pur non sapendo in quali tempi precisi, c’è da credere che abbia dovuto sfollare dalla propria Betlemme agli inizi dell’Ottocento, probabilmente in seguito alle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi, se non all’indomani della seconda guerra mondiale. Questi sono stati in effetti i due momenti storici che hanno provocato le diaspore più drammatiche dell’arte italiana falcidiando in particolare il patrimonio marchigiano, al quale il dipinto di certo apparteneva in origine.
La bellissima opera ora si trova al Museo de Belas Artes di Rio De Janeiro[1] (Foto 1) e in quella sede viene considerata frutto del genio di Simone Cantarini (Pesaro 1612 – Verona 1648). È tuttavia ad un altro suo conterraneo che intendo restituirla, un marchigiano di minore fortuna, ma che ebbe dignità di professione, guarda caso, negli stessi campi primeggiati dal Pesarese: il disegno, l’incisione e la pittura.
Domenico Peruzzini (1602 – 1673) nacque dieci anni prima di Cantarini, a Casteldurante (chiamata poi Urbania dal 1636), ma a Simone sopravvisse per almeno un quarto di secolo. Anche il padre di Domenico era pesarese, ma lavorava come cuoco alla corte dei Della Rovere e per questo il pittore nacque nella città durantina, nel periodo in cui i signori marchigiani vi si erano insediati. In varie iscrizioni apposte in calce ai suoi dipinti il Peruzzini si definisce lui stesso Pisauriensis, anche se l’ultima stagione professionale la trascorrerà nel capoluogo dorico, aiutato dai tre figli pittori: l’ancora misterioso Paolo e poi Giovanni e Antonio Francesco, che dimostreranno talento, indipendenza e notevole ingegno. È possibile confrontare la nuova opera brasileira con numerose imprese già certe dell’artista, ma basterebbe anche solo porla a fianco di due incisioni, entrambe firmate e datate al 1661[2] (Foto 2 e 3), per comprenderne la medesima poetica, invero tarda e dialogante con quella di Simone Cantarini.
Facilmente riconoscibile è il fare tornito e chiuso in un disegno elegante che descrive figure longilinee, talvolta fin troppo affusolate, ricorrenti nel suo secondo alfabeto ed è da questo che preferisco partire, sospendendo una sequenza temporale che tenterà di prendere posizione corretta sul finire del saggio.
Le opere di Domenico Peruzzini mettono in repertorio una singolare varietà di volti, talvolta di matrice arcaica, che sembra derivare da un rovello di natura grafica e che indugia su espressioni arcigne, che in qualche caso giungono al caricato.
Bonita Cleri, alla quale spetta la prima riabilitazione nel campo degli studi, ha parlato di Domenico Peruzzini come di un “creato della cultura metaurense” [3],tracciandone implicitamente il perimetro periferico e la natura appartata dello stile. Quella lucida definizione trattiene tuttavia l’artista in una filiazione zuccaresca che forse solo nell’intimo mondo del disegno trova un preciso riscontro.
Un recente saggio di Giulio Zavatta apparso nel 2021 sulla prestigiosa rivista Master Drawings[4], oltre ad aver dato lustro internazionale all’artista, riflette e aggiunge conoscenze sulla sua attività di disegnatore, fortemente caratterizzata da un arguto spirito tardomanierista.
Certi fogli a penna indugiano ancora su antiche favole e alcuni paiono volontarie contraffazioni temporali, uscite da un poema dell’Ariosto[5] (Foto 5, 6, 7 e 8).
Mentre la produzione calcografica risulta di fatto più piena e modellata su forme apertamente secentesche.
Non è forse casuale che proprio negli ultimi anni di vita di Cantarini e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1648, si registri una nettmetamorfosi dello stile di Domenico, verso una sigla che trova sintesi aggiornata e una nuova misura.
Per valutare la svolta di stile e l’accostamento a certe invenzioni di Simone rendo noto un disegno che ho ritrovato nelle collezioni dello Smithsonian Musem of Design di New York[6] (Foto 9),
nella cui catalogazione è, non a caso, ritenuto opera di Cantarini, pur essendo preparatorio per un’incisione di Domenico datata al 1640 (Foto 10).
Questo tentativo di aggiornamento assume, nel caso specifico, un carattere estremo e contiene il sapore di una dedica, cionondimeno si mostra sorretto da una indipendenza, che in quasi tutte le altre opere rimane nitida, senza cedimenti da epigono.
Soprattutto nei dipinti maturi la sua sigla si percepisce come la messa a registro di un proprio canone. La Visitazione di Sant’Angelo in Vado[7] (Foto 11), che venne eseguita ad Ancona negli anni Sessanta, adotta una composizione articolata che fa coesistere la scena evangelica con altre presenze mistiche assise sui gradini della scala e dispiega un ventaglio di caratteri fisionomici che ritroviamo in altri dipinti inediti.
A Mongardino di Sasso Marconi, dunque fuori dallo stretto ambito marchigiano entro il quale si conserva il maggior numero di suoi dipinti, ho potuto ritrovare una Immacolata Concezione[8] (Foto 12) che mostra lo stesso fraseggio di forme e di tipi somatici dell’estrema attività di Domenico Peruzzini.
Ancora più decentrata è una Presentazione al Tempio di Maria (Foto 13), anch’essa inedita, che si trova addirittura in Corsica[9].
Mi è stato possibile identificarla consultando l’archivio del patrimonio nazionale francese e c’è da credere si tratti di una predazione di guerra avvenuta durante l’oscuro periodo di occupazione napoleonica delle Marche.
Anche dalla sola visione fotografica è possibile rilevare lo stile lineare e tornito del nostro artista. La Madonna giovinetta che si volta verso la madre con un’aria quasi perplessa è molto vicina alla santa martire che assiste alla Visitazione di Sant’Angelo.
La disponibilità e la capacità di unire in modo armonico, due differenti iconografie entro un’unica immagine, la ritroviamo anche in un altro dipinto ora riemerso. Si tratta di una Incoronazione della Vergine con transito di Santa Caterina da Siena (Foto 14), conservata nel Museo Diocesano di Ascoli Piceno[10] e proveniente dalla chiesa di San Venanzio.
16. Domenico Peruzzini, Salvator Mundi e santi, Recanati, chiesa di San Domenico
Questo doppio registro compositivo trasforma la pala d’altare in una sorta di grande Ex Voto, dove la morte della monaca domenicana è raccontata in modo lineare, come un momento di affettuosa ritualità.
A chiudere gli inediti dell’ultima stagione professionale di Domenico presento un Santo Stefano (Foto 15), un Salvator Mundi (Foto 16) e un San Girolamo (Foto 17).
Il primo, posto nella collegiata dei santi Stefano e Giacomo di Potenza Picena [11], è stato ritenuto fino ad ora opera bolognese e di recente ha ricevuto un’attribuzione a Flaminio Torri, che fu allievo diretto di Simone Cantarini. In realtà anche questo dipinto mostra senza equivoco la matrice del pittore metaurense.
Bellissimo risulta il dialogo tra la Trinità celeste e il protomartire, che innalzandolo verso il cielo offre in dedica al Redentore il sasso della propria lapidazione. Sullo sfondo, scavalcate le rovine disseminate a terra, che contengono anche lo stemma della committenza, si erge il promontorio di Potenza Picena. Ne risulta un affascinante saggio di memoria storica nel quale si dispiegano notevoli capacità vedutistiche che ritroveremo ancora più esaltate nel suo seguito ereditario.
Nel secondo dipinto si assiepano sei santi, alcuni dei quali di ambito domenicano. Si dispongono ai piedi del giovane Salvator Mundi[12] della chiesa di San Domenico a Recanati che vediamo stagliarsi in controluce davanti a un’apertura di paesaggio e sotto un teatro di tende e di angioletti che reggono il suo nome.
Mentre non conosciamo l’origine di un San Girolamo in eremitaggio di collezione privata a Orciano[13], visitato da un angelo che soffia entro una lunghissima tromba. Sotto un’imponente costa di roccia e sul degradare di grandi lastre di pietra l’asceta si è acconciato un altare per la preghiera e insieme uno scrittoio per redigere le memorie della propria vita contemplativa. Una scelta estrema che lo portò a rifiutare il cardinalato, come attesta il cappello appoggiato alle spalle della croce.
L’anziano padre della chiesa mostra ancora folti i capelli scompigliati da un vento che spettina anche le chiome dell’angelo.
Se questa sequenza di opere dispiega in forma limpida l’ultima lingua espressiva dell’artista, vale a dire nel suo periodo anconetano, intendo chiudere il racconto dell’articolato tragitto di Domenico con una sorta di flash back.
Merita infatti di essere qui ripresa e maggiormente divulgata l’acuta identificazione, raggiunta da Massimo Moretti[14], del Ritratto di Margherita Gatti Panezia (Foto 18) conservato nel Palazzo Barberini di Roma[15], dove fino a qualche anno fa era considerato opera di Ludovico Carracci.
Si tratta invece del dipinto eseguito dal vero di una vedova donatrice che Domenico Peruzzini compì per inserirne il busto entro una pala d’altare di Urbania. Nel 1631, data apposta nella grande Immacolata Concezione [16] (Foto 19 e 20), lo stile dell’artista era questo, ancora sospeso tra l’ultima maniera zuccaresca e le aggiornate suggestioni lasciate da Giuseppe Puglia, detto il Bastaro, a Fabriano.
È precisamente a quella fase di prima maturità che va ricondotto l’inedito dipinto raffigurante un Noli me tangere (Foto 21) e rappresenta il momento in cui, all’indomani della resurrezione, il Cristo viene riconosciuto da Maddalena. Il tentativo della santa di abbracciarlo incontra il rifiuto di Gesù, che si ritrae chiedendo alla seguace di non trattenerlo, così come si narra nel Vangelo secondo Giovanni (20.17).
Davvero prossima alle opere fabrianesi del Puglia o a quella collocata a Pergola del Cerrini, questa nuova pittura documenta la rara stagione nella quale l’artista metaurense metteva a punto una cifra stilistica piena di carattere e di potenziale novità, che univa una vocazione classica a una solida attenzione al naturale. Agli inizi degli anni Trenta la sua personalità avrebbe potuto prendere dunque una piega molto più energica di quella che ora conosciamo e che ho appena descritto attraverso le opere tarde. Il quel momento lo si poteva vedere ancora libero dall’orbita gravitazionale di Cantarini e per induzione da quella reniana.
La prima opera che ho presentato, quella di Rio de Janeiro, documenta forse una fase di passaggio entro la quale coesistono le migliori qualità dei due periodi, ma in seguito quella tensione del racconto tenderà a smorzarsi in una sigla d’abitudine.
Fino agli anni Quaranta la sua posizione nel panorama artistico regionale spiccava per scelte che poi in buona misura si affievoliranno. Basterebbe constatare la forza e la bellezza della pala di Osimo, quella Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e Santa Caterina d’Alessandria con un ritratto di donatore (Foto 22) datata, nella lunga iscrizione, al 1634[17].
Anche questa composizione è giocata su una sorta di gradinata teatrale che dal golfo mistico, dal quale il devoto committente ci guarda, giunge fino al sipario sollevato dalle teste di cherubini volanti sopra la Vergine. Una grande misura classica e una solida tornitura delle forme si incaricano di plasmare le figure del Battista e della principessa d’Alessandria.
Dello stesso momento creativo dovrebbero essere altri due ovali inseriti dall’artista in uno degli edifici religiosi più importanti dell’entroterra marchigiano, la chiesa di San Benedetto a Fabriano e qui presentati per la prima volta. Una Santa Rosa da Viterbo (Foto 23) e un San Nicola da Tolentino[18], sono posti a cimasa di due laterali d’altare.
In particolare è la Santa Rosa ad avere strette parentele con la Santa Caterina di Osimo (Foto 24). Una medesima luce piove diagonale sul volto gemello delle due religiose, la fronte esposta, gli occhi ribassati mentre il naso diventa una meridiana che segna la stessa ora.
Dietro ogni svolta stilistica forse si annida un momento di crisi, di intimo ripensamento, e come per un viaggio possono incidere fattori esterni a provocarlo. Poco sappiamo di Domenico per riuscire ad intuire le ragioni di questo continuo mutare quando si trova la penna in mano, quando impugna la punta per incidere o quando cambia espressione al pennello nel corso degli anni, ma in fondo i diversi modi in cui si trasfigura moltiplicano e arricchiscono ai nostri occhi i volti di questa singolare e plurale personalità.
Massimo PULINI 4 Dicembre 2022
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