Alla fine è crollata; anzi, non alla fine, perché l’idea del progettista, l’artista svizzero Urs Fischer, era che le due statue di cera, intitolate per l’appunto “Tuscan men” e raffiguranti Fabrizio Moretti, factotum della XXX^ Biennale d’Antiquariato fiorentina che ha chiuso i battenti la scorsa domenica a Palazzo Corsini, e il curatore Francesco Bonami, grande sponsor dell’iniziativa, avrebbero dovuto sciogliersi lentamente quanto meno a ridosso della conclusione della performance, prevista per la fine del prossimo mese. Curioso rito –questo della consumatio- con cui Fischer pensava di omaggiare due personaggi, Moretti e Bonami appunto, che pure si sono prodigati come mai prima per cercare di rinsaldare un legame –da non pochi ritenuto blasfemo- tra i capolavori rinascimentali che arricchiscono possiamo dire ogni crocicchio del centro storico di Firenze e queste espressioni della creatività contemporanee di ardua inquadratura artistica. Sarà pure vero -come ci ha detto il sindaco nell’intervista pubblicata qualche giorno fa su questo magazine, e come ha tenuto a ribadire in questa imprevista circostanza- che Firenze è sempre stata una città contemporanea perché ha saputo recepire ogni creazione artistica frutto della contemporaneità, tuttavia quel moncone di cera mezzo consumato raffigurante l’antiquario Moretti che ora giace nell’Arengario di Palazzo Vecchio è assai più che un incidente di percorso dovuto magari all’imperizia di chi può aver “sbagliato i calcoli” come ha suggerito lo stesso Moretti (senza però l’usuale aplomb che solitamente lo caratterizza). Quella faccia a terra, prona ai piedi dei capolavori antichi, immobile per sua stessa sostanza, assume inevitabilmente un significato simbolico, è come un segno di resa, di sottomissione: a Donatello, a Giambologna, a tutti coloro insomma che l’arte l’hanno resa immortale; quella faccia a terra è come se stesse ad ammettere la sua sconfitta e, se non la sua vacuità, quanto meno il fallimento di una spregiudicata operazione tesa ad un livellamento che la storia e la cultura latu sensu non possono ammettere.
Due anni fa, il maldestro inserimento di una squillante (per la carta da regalo con cui era avvolta) imitazione del Ratto di Proserpina di Jeff Koons –ispirata al capolavoro di Gian Lorenzo Bernini nella Galleria Borghese- nello stesso Arengario, aveva fatto arricciare il naso a parecchi se non altro per i clamori e le voci che avevano accompagnato l’intera operazione, presentata come un “evento eccezionale”, collegata alla passata edizione della Biennale e conclusa con un ricevimento faraonico.
C’è da credere che quell’evento “eccezionale” non solo non abbia prodotto quel traino che ci si attendeva per il rilancio del mercato dell’arte antica, se è vero come è vero che quest’anno si è registrato un calo tra gli espositori di un 10% (ed ancora non si conoscono i dati relativi agli ‘affari’ conclusi); ma soprattutto occorre rilevare che altro ricordo non rimane di quella performance se non quello delle polemiche nate intorno all’accoglienza di un imprenditore, più che un artista, considerato com’è organizzato il suo atelier, spacciatosi come novello Bernini e trattato come se tale fosse.
Ecco, almeno quest’anno la performance ce la ricorderemo: la performance della caduta; dalle stalle alle stalle
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