di Luca BORTOLOTTI
“Le idee ereditate, beh, sono una faccenda curiosa e anche interessante da considerare. Io avevo le mie, il re e il suo popolo le proprie. In entrambi i casi, allignavano in solchi scavati dal tempo e dall’abitudine; e colui che si fosse ficcato in testa l’idea d’estirparle per mezzo della parola e del ragionamento, ah, si sarebbe scontrato contro un muro”.
Mark Twain, Uno yankee alla corte di Re Artù
Ringrazio l’amico Umberto Giacometti che mi ha dato l’occasione per formalizzare le presenti riflessioni invitandomi a un pomeriggio di studi dedicato a queste tematiche tenutosi recentemente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli.
Cos’hanno in comune un Rhyton iraniano del VI / VII secolo venduto in asta a 750 Euro,
un paravento coreano del XIX secolo venduto a 12.000,
un modesto e lacunoso affresco staccato di presumibile area umbra dell’inizio del XVI secolo venduto a 7.000 e, infine, un bel ritratto virile eseguito intorno al terzo decennio del XVII secolo, di artista anonimo ed effigiato d’incerta identificazione, transitato fra XVII e XVIII secolo in collezione Rondanini e recentemente venduto a 17.000 Euro (figg. 1-4)?
Questi quattro oggetti, così diversi per epoca, area di produzione, storia collezionistica, prestigio, rarità e valore commerciale, condividono la sorte di essere stati tutti e quattro vincolati dallo Stato italiano, beninteso – ad eccezione del Ryton- senza essere stati acquistati né indiziati di essere acquistati per essere destinati a una collezione pubblica. La possibilità di uscire dall’Italia è stata loro negata “semplicemente” in quanto oggetti ritenuti, per le ragioni più varie e diverse, di particolare interesse e importanza, e la cui esportazione, conseguentemente, una commissione del MIBACT ha stimato che danneggiasse gravemente il nostro patrimonio nazionale.
Conflitto tra ministero mercato
Esiste una spessa barriera che divide e pone in uno stato di tensione permanente il mercato dell’arte, nei suoi molteplici soggetti, e il Ministero dei Beni Culturali in quanto principale entità pubblica preposta al controllo, alla gestione e alla tutela del nostro patrimonio nazionale (come pure, è sempre bene rammentarlo, alla sua valorizzazione e fruizione).
Tale barriera si compone di aspetti culturali (a mio avviso prioritari) e psicologici, oltreché legislativi e istituzionali, che nel loro insieme rischiano di avvolgere in una spessa nebbia i fondamenti teorici generali da cui dipendono le normative vigenti. Una nebbia che complica la messa a fuoco dello spirito della legge, al quale deve primariamente rispondere chi è chiamato a tradurlo in atti concreti.
Il mondo del commercio, di fatto, viene spesso percepito dal punto di vista ministeriale come una cittadella del vizio, popolata di mercanti truffaldini, avvezzi a eludere la legge, indifferenti al valore culturale e collettivo delle opere d’arte e interessati solo a speculare su di esse; dall’altro lato, gli operatori del mercato tendono a etichettare il ministero e i suoi funzionari come una realtà composta per lo più di burocrati non tanto accessoriati delle necessarie competenze tecnico-materiali, impegnati in una meccanica osservanza della lettera della legge e in un esercizio di potere orientato a “sorvegliare e punire”, per dirla con Foucault, in spregio a qualsiasi visione liberale della circolazione dei beni.
Se questi due piani del mondo dell’arte, che pure ne costituiscono due dimensioni organicamente correlate, si guardano con sospetto, quando non con aperta ostilità, è necessario capire le ragioni di questo dissidio per riportarlo su un razionale piano di dialogo, che includa e contempli le reciproche fondate ragioni, seppur non sempre coincidenti.
La legislazione italiana
La nostra legislazione si fonda su una visione radicalmente idealista dell’arte, che in linea di principio tende a collocare quest’ultima in una categoria distinta e superiore rispetto agli aspetti “accidentali” che ne caratterizzano la vita materiale, in primis quelli commerciali. In tale prospettiva, questi vengono inquadrati, in una visione totalmente astratta e avulsa dalla realtà, come una sorta di male inevitabile, ma in fondo estraneo alle motivazioni autentiche da cui traggono origine la creazione artistica e l’amore per l’arte. Tale impostazione idealista si è tradotta in una cultura e una prassi iper-protezionista, tutta specificamente italiana, che vede nel mercato un elemento potenziale di corruzione rispetto ai valori più genuini dell’arte, mirando a proteggere, e in linea di principio persino a sottrarre, l’attività artistica dai meccanismi economici.
Nelle sue varie formulazioni successive, dalla legge 1089 del 1939 fino al codice unico dei beni culturali e del paesaggio del 2004, la nostra legislazione ha sempre mantenuto un’impronta marcatamente statalista, entro una prospettiva chiusa e protezionistica che non ha un vero omologo in nessuno dei principali Paesi occidentali. Essa si muove nel quadro di una concezione estensiva della categoria di “patrimonio artistico nazionale”, e quindi della singola opera, che coinvolge le valenze storiche, documentarie, sociologiche, antropologiche e filosofiche che possono accompagnare ciascun frutto della creatività umana.
Da tale concezione estremamente larga e inclusiva (non legata solo alla qualità di un manufatto, o alla sua obiettiva importanza storica, ma anche al suo essere un oggetto culturalmente significativo) deriva un approccio sfavorevole alla libertà del mercato e orientata alla limitazione della circolazione dei beni al di fuori dei nostri confini. Ciascuno di essi, infatti, può essere considerato rilevante per un qualche motivo e inquadrato come un tassello sotto un qualsiasi rispetto rilevante nel quadro di quell’ideale insieme, immaginato come un organismo coerente, che sarebbe il “patrimonio nazionale”.
Conseguentemente, quando si richiede il documento che autorizza a esportare un’opera d’arte quest’ultima viene sottoposta a un iter di controllo che lascia alla commissione ministeriale una piena discrezionalità e un margine di manovra pressoché illimitato per negare il rilascio dell’attestato di libera circolazione, con conseguente vincolo del bene. L’atto del diniego è bensì necessariamente accompagnato da una relazione che deve dare conto delle motivazioni che hanno ispirato la scelta della commissione, ma queste possono essere talmente generiche e vaghe che consentirebbero senza possibilità di replica di vincolare anche un bottone, se solo si presumesse, sia pur senza prove, che possa essere appartenuto, tanto per dire, a una camicia di Garibaldi o di Giuseppe Verdi, o di qualunque altro personaggio storico, nemmeno necessariamente italiano. Peraltro, tale piena arbitrarietà in merito ai criteri adottati nella valutazione del rilascio della licenza di esportazione, può eccezionalmente trasformarsi in un boomerang sotto il profilo della tutela, avendo reso possibile clamorose uscite dal Paese di autentici capolavori dell’arte italiana, come, tanto per fare un esempio, il Miracolo dellle quaglie di Jacopo Bassano, fra i massimi capolavori dell’artista, da decenni di ubicazione ignota (fig. 5).
Una testimonianza fondamentale della sua più matura fase manierista, nella prima metà del sesto decennio, per di più pochissimo rappresentata nelle collezioni pubbliche italiane.
Per come è delineato legislativamente l’esercizio del vincolo in sé è totalmente disgiunto sia da un criterio generale di “museabilità” del bene, ossia del riconoscimento in esso di ragioni effettive e concrete che ne giustifichino la collocazione in una specifica sede museale statale, sia dalla finalità (che dovrebbe essere discriminante) di assicurare alla fruizione pubblica il bene notificato: in primo luogo perché il vincolo non è quasi mai propedeutico all’acquisizione del bene da parte dello Stato, né a un tentativo di acquisizione entro un termine temporale definito e neppure, incredibilmente, a una sia pur ipotetica espressione di interesse all’acquisizione, configurandosi così, in linea di principio, come una sorta di arbitrario atto d’imperio, per così dire “a capriccio” del funzionario; in secondo luogo perché, limitandone la commerciabilità e il valore, e sottoponendolo al rigido controllo dello Stato, esso finisce per lo più per confinare più a lungo un bene all’interno delle raccolte private in cui esso è detenuto, rallentandone il fisiologico processo di confluenza all’interno di collezioni pubbliche.
Il vincolo non implica, così, alcuna responsabilità da parte dell’Ufficio Esportazione, non solo nelle sue conseguenze una volta attuato, ma nemmeno nelle premesse teoriche e pratiche che dovrebbero ispirarlo, poiché esso non è realmente dipendente, dapprima, dal chiaro rilevamento della potenzialità museale dell’oggetto vincolato, e quindi del suo riconoscimento in quanto bene meritevole di essere destinato al godimento pubblico; e poi da un nemmeno vago e astratto impegno ad assicurarne il possesso allo Stato.
Sarebbe purtroppo agevole redigere un desolante elenco di beni acquistati in asta da collezionisti esteri per poche migliaia o perfino centinaia di Euro che sono stati sottoposti a vincolo, con il conseguente riconoscimento da parte di un Ufficio Esportazione di una loro presunta particolare rilevanza, senza che però lo Stato, auto-contraddittoriamente, per quella medesima cifra insignificante abbia ritenuto che valesse la pena comprarli e garantirli alla pubblica fruizione. Cito a mero titolo di esempio un caso recentissimo occorso alla casa d’aste di cui sono responsabile per il comparto degli old masters: un bozzetto in gesso (cm. 52 x 44), di Enrico Quattrini (Collevalenza, PG, 1864 – Roma, 1950), preparatorio per un gruppo scultoreo destinato al Palazzo di Giustizia in Roma e battuto a € 2.400, al quale è stata negata la licenza di esportazione, con le abituali iperboliche considerazioni sulla sua qualità e importanza storica, ma al contempo, paradossalmente, non ritenuto degno dal Ministero di essere acquistato per quella stessa cifra (fig. 6).
“L’ideologia” protezionistica
Nella legislazione italiana si possono cogliere di fatto elementi di comunanza ideologica, che meritano di essere adeguatamente rilevati, tra la visione corporativistica, autarchica e razziale del fascismo e i tratti più marcatamente statalisti della legge 1089 del 1939. In essa, infatti, si può cogliere in controluce un principio di celebrazione nazionalistica della nostra koinè artistica che, più o meno larvatamente, sottintende anche una rivendicazione di superiorità sulle altre civiltà figurative: una specie di mitologia strisciante, particolarmente subdola e perniciosa dal punto di vista epistemologico, perché fondata letteralmente sul vuoto di qualsiasi parametro oggettivo (statistico, quantitativo, assiologico, storico, economico etc.) o quanto meno esplicitato in modo trasparente e intersoggettivamente condivisibile: a meno di non voler considerare tale il fortunatissimo, per quanto in sé piuttosto grottesco, assioma volto ad accreditare l’Italia della detenzione di percentuali iperboliche, seppure inevitabilmente assai variabili, di un fantomatico patrimonio artistico mondiale (non è chiaro calcolato in che modo e in base a quali criteri).
Anche da qui trae origine la grande differenza in senso restrittivo rispetto alle legislazioni artistiche di pressoché tutti gli altri Stati europei, compresi quelli con le più cospicue e rilevanti civiltà figurative e tradizioni storiche, invariabilmente caratterizzate, sia pure con accenti diversi, da posizioni significativamente e talora straordinariamente più aperte nei confronti del mercato e della circolazione dei beni. Differenza dalla quale dovrebbe immediatamente derivare, dal punto di vista del legislatore, un quesito basilare e inaggirabile: come si giustifica razionalmente tale sostanziale diversità?
Metterei anche in rilievo come l’originaria componente ideologica in senso lato “fascista” sia poi venuta progressivamente incrociandosi con una dominante culturale di matrice marxiana, ma forse sarebbe più opportuno definirla sic et simpliciter comunista, assai accreditata e tenacemente assunta in valore nelle nostre Soprintendenze. Quest’ultima, del tutto anti-storicamente, tende a riconoscere nella proprietà privata di opere d’arte, a prescindere dall’importanza e dal valore, un’indebita sottrazione a quel corpo organico e inattaccabile che viene considerato il “Patrimonio nazionale”, da preservare come bene pubblico che non deve essere minacciato e quindi da sottoporre al rigido controllo dello Stato, se non a una sorta di velata “comproprietà” con quest’ultimo. Una miscela, quella tra elementi culturali di matrice fascista e comunistica, della quale, tanto nelle premesse quanto nelle conseguenze, non dovrebbero sfuggire i rischi dal punto di vista di una società autenticamente aperta e liberale.
Le contraddizioni di metodo
Aggiungo a margine, da storico dell’arte di lungo corso, che non finisco mai di sorprendermi di come la storia sociale e la storia del collezionismo – paradigmi oggi centrali nella disciplina storico-artistica e pienamente calati nella dimensione commerciale dell’arte – nonché la sempre maggiore attenzione alla funzione assolta dalle opere d’arte come strumento comunicativo, diplomatico, politico ed economico, nonché come potente veicolo di conoscenza e scambio fra culture diverse, continuino ad avere così modesti riflessi sulla sensibilità prevalente riguardo al tema del mercato e della libera circolazione delle opere: sensibilità della quale le leggi rappresentano al contempo la codificazione teorica e l’attuazione entro un sistema di norme.
Eppure non c’è saggio di storia dell’arte che oggi trascuri il ruolo chiave svolto dalle figure dei committenti, dei collezionisti, dei mercanti e di tutti gli attori che ruotano attorno all’opera d’arte e ne sanciscono la sua indissolubile appartenenza alla sfera del commercio: sfera della quale, ovviamente, sono pienamente partecipi gli artisti, non solo in quanto essi hanno sempre vissuto del frutto dei loro talenti, ma anche in quanto promotori di sé stessi e/o dei loro amici, e poi nelle vesti di restauratori, consiglieri, curatori, agenti, copisti, falsari, e ancora periti o testimoni nell’ambito di controversie, concorsi, stipula di contratti e, ultimo ma non per importanza, in quanto titolari di bottega (di rado generosi con i loro dipendenti).
In quest’ottica, non si può non rilevare la lettura direi opposta che molti funzionari di soprintendenza tendono a dare del mercato dell’arte se riflettono su di esso al passato o se si confrontano con esso al presente.
Le maggiori criticità
Il più urgente tema pratico generale da affrontare consiste a mio avviso nella definizione di confini più stabili e certi entro i quali delimitare l’azione delle soprintendenze nella valutazione dell’esportabilità di un bene artistico: confini che possano rappresentare anche un elemento di garanzia a tutela del loro stesso lavoro. Si tratta di un aspetto rilevante del problema, che peraltro chiama in causa l’operato degli uffici esportazione in quanto parte della PA e non come entità al di fuori e al di sopra di essa.
Non è raro che funzionari dell’Ufficio esportazione richiedano di allungare i tempi di ispezione e studio di un bene, perfino ad evidenza irrilevante dal punto di vista storico-artistico, solo in ragione di una remota o puramente ipotetica possibilità di essere coinvolti in un’indagine legata al rilascio incauto dell’Attestato di libera circolazione ad un’opera successivamente rivelatasi significativa per qualche rispetto.
Da un punto di vista pratico le principali criticità mi sembrano legate soprattutto a due aspetti. Il primo, di carattere più teorico, riguarda i criteri di giudizio attraverso i quali si definisce un bene di “rilevante interesse storico-artistico” per il “Patrimonio Nazionale”: definizione che implica una chiara visione (ovviamente non facilmente oggettivabile) sia di cosa vada considerato, e sulla base di quali fattori, di rilevante interesse, sia di cosa sia il Patrimonio Nazionale. È chiaro, però, che, al netto della complessità delle questioni, senza una cornice teorica adeguata la risposta a questi due quesiti generali rischierà di essere per entrambi: “tutto”. Il che però, come sempre, finisce per somigliare al suo opposto, giacché è chiaro che dove tutto è rilevante niente lo è.
Un secondo aspetto critico, di carattere più tecnico, è legato ai tempi per il rilascio dei permessi di esportazione, che, pur fissati chiaramente dalla legge in 40 giorni a partire dalla data di formulazione della richiesta, in realtà possono dilatarsi a dismisura a causa di tre fattori: 1) l’interpretazione di questa tempistica, la cui decorrenza è intesa a partire non dalla data di richiesta del permesso, ma dal giorno in cui la commissione visiona le opere, appuntamento che viene fissato unilateralmente dall’Ufficio Esportazione e che a volte segue di settimane, o perfino di mesi, la domanda al SUE; 2) la possibilità da parte della commissione di richiedere indagini supplementari quando essa ritenga che, a causa dell’interesse riconosciuto nel bene in oggetto, esso richieda analisi più approfondite per decidere in merito alla sua esportabilità: possibilità che di fatto (non so se anche di diritto) sospende sine die qualsiasi tempistica prevista dalla legge; 3) il fatto che comunque questa attività della P.A. sia disancorata al principio (sacrosanto) del silenzio/assenso.
La mancanza di certezze sia in merito alla possibilità che un bene, anche di trascurabile qualità e importanza, venga autorizzato a varcare legalmente i confini nazionali, sia riguardo ai tempi di rilascio dell’ALC – ma di fatto anche del DVAL, il documento di recente introduzione che rende generalmente, ma non necessariamente, più agile il rilascio del permesso di esportazione per le opere d’arte al di sotto della soglia di valore di € 13.500 – determina inevitabilmente un approccio a dir poco prudente da parte degli acquirenti internazionali. Attese che non di rado si protraggono per 5 o 6 mesi, o anche di più, e che a volte si chiudono con il diniego all’espatrio, anche in riferimento a beni di contenuto valore, scoraggiano l’acquisto e spesso spingono a non ripetere più l’esperienza dopo la prima disavventura: e si spiega essenzialmente così la ben diversa competitività e importanza del mercato dell’arte in Italia rispetto a quello internazionale.
A questo riguardo, conclusivamente, mi pare importante ricordare a tutti quanto sia ampio e diversificato lo spettro dei soggetti che operano all’interno del mercato dell’arte: un settore che coinvolge – oltre naturalmente a case d’asta, antiquari, galleristi e collezionisti – storici dell’arte, restauratori, spedizionieri, assicuratori, magazzinieri, uffici stampa e personale amministrativo e tecnico di ogni genere. Un mondo vasto e composito, che rappresenta un segmento non irrilevante dell’economia italiana e avrebbe straordinarie potenzialità da sempre costantemente soffocate. Un mondo che, tra mille difficoltà, vive intorno all’arte e tratterrebbe tutto insieme straordinario beneficio da una visione e da una legislazione maggiormente liberale.
Luca BORTOLOTTI Roma 31 Luglio 2022