di Stefania MACIOCE
Docente La Sapienza Università di Roma
“Sapeva che i sensi non meno dell’anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare. Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall’Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d’animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l’incenso spinge al misticismo, perché l’ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l’intelletto e la magnolia colora l’immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un’autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall’aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell’ovenia che fa impazzire, dell’aloe dicono, scaccia la malinconia dall’anima”. [1]
La cultura degli odori e dei profumi ha origini antichissime poiché le prime indagini sugli odori si rintracciano nel mondo greco, notizie su aromi e spezie provengono infatti da Aristotele e Platone. Il primo a proporre tuttavia una trattazione estesa sull’argomento e a raccogliere, tra il 72 e il 77 d.C., lo scibile naturalistico accumulato in Grecia e a Roma durante i sei secoli precedenti, è Teofrasto di Ereso, autore dello scritto sugli odori Περί όσ μών. Si tratta di un’opera di rilevanza sorprendente, incrementata da una raccolta di brani di autori diversi, che rende per la prima volta accessibile la conoscenza dei profumi nel mondo antico, largamente sedotto da tutto ciò che avrebbe potuto implicare i sensi. Gli aromi più decisi e intensi si adoperavano sia nelle pratiche religiose che negli alimenti e nei cosmetici. In quel mondo arcaico ciò che colpiva l’odorato determinava una emozione profonda, come avvalora nella Naturalis Historia (XIII, 1) Plinio che si sofferma sulla funzione degli odori e in particolar modo in relazione agli unguenti.
Diverse poi le citazioni poetiche come il carme di Catullo:
“Nam unguentum dabo, quod meae puellae Donarunt Veneres Cupidinesque, Quod tu cum olfacies, deos rogabis, Totum ut te faciant, Fabulle, nasum”,[2]
mentre gli aromi più intensi ispirano diversi miti e leggende di amore e seduzione, di nascite e di morti: da Adone e Mirra, ad Afrodite e Persefone, di Menta, Narciso, Mirto, Giacinto.
Teofrasto è poi il primo a fornire indicazioni circa la preparazione dei profumi, nonché la ‘combinazione’ delle essenze o dell’amalgama, affinché nell’impiego dei profumi nessuno degli ingredienti utilizzati prevalesse.[3] Oltre l’estesa produzione di balsamari appositi, contenitori del tipo alabastron o lekytos, la classicità lascia singolari testimonianze figurative nell’affresco della casa dei Vettii a Pompei e nella villa Farnesina di Roma (Fig. 1).
L’utilizzo degli aromi nel contesto liturgico ha, come s’è detto, radici antiche e sembra sottolinearlo anche Montaigne quando afferma:
“Mi cambiano e agiscono sul mio spirito secondo la loro natura e questo mi fa consentire a ciò che si dice, che l’invenzione degli incensi e dei profumi nelle chiese, tanto antica e diffusa in tutti i popoli e in tutte le religioni, tende a deliziarci, svegliare e purificare il sentimento per renderci più adatti alla contemplazione” (Essais, I, LV).
Nel vasto contesto liturgico si riscontra infatti una completa corrispondenza tra profumo, anima e immortalità, come dichiara San Paolo:
“(Il Messia) ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore (Efesini, V,2).
Sebbene il carattere sintetico di questo scritto non consenta un riferimento articolato all’utilizzo degli aromi nell’ampio ambito liturgico, dall’incenso alla mirra dei re Magi, agli oli essenziali, si vuole accennare alla sopravvivenza delle sostanze aromatiche, in particolare tratte dai fiori, nelle raffigurazioni moderne dei miti antichi. Per gli antichi greci, come poi nel mondo ebraico, la tradizione di ungere il corpo del morto con unguenti profumati affida l’immortalità del defunto al profumo: il buon odore diviene simbolo di purificazione dalla corruzione del corpo defunto e il ruolo sociale e religioso del profumo è confermato anche dal mito.
La leggenda di Adone è tra le altre quella che più esplicitamente fa riferimento al profumo il cui abuso conduce alla perdizione. La valenza antropologica del mito rimanda al tema dell’alternanza delle stagioni e della fertilità vegetale. Ma al centro della narrazione si colloca il ruolo degli aromi rilevandone l’importanza nel mondo greco. Mirra, giovane figlia di Ciniro re di Cipro, offre la sua castità ad Artemide in segno di devozione, Afrodite Ciprigna ne è irritata e come castigo accende in Mirra una passione incestuosa per il padre del quale resta incinta. Nel momento in cui Ciniro, rientrato in sé dall’ubriachezza, è sull’orlo di uccidere la figlia, Afrodite impietosita la salva trasformandola in albero. Il tronco squarciato dalla lama di Ciniro rivela al suo interno un neonato di straordinaria bellezza, che viene preso in custodia da Afrodite. Adone è un bambino “profumato”, nato appunto avvolto dalla mirra e conosce soltanto piante aromatiche e fiori. Adone sarà vittima dell’ira di Ares, geloso delle attenzioni a lui rivolte da Afrodite e dal suo corpo morto germoglieranno gli anemoni (fig. 1 bis ).
Accomunato al mito di Mènte e della Fenice, ma per certi versi affine a quello di Narciso, quello di Adone conferma l’esistenza di una sorta di mitologia degli aromi e dei profumi assai composita nella civiltà del mondo ellenico. Vi si sottende forse una metafora poiché l’abuso del profumo, simbolo di immortalità, è causa della ferocia degli dei e, nella vita reale, dell’esclusione dal contesto sociale, analogamente a quanto avviene per le prostitute, donne ai margini della vita civile che alimentano l’illusione di una vita fatta di profumi e piaceri, originariamente destinati agli dei. È interessante notare come il tema mitologico del corpo profumato di Adone viene poi ripreso in senso inverso nel celebre romanzo di Patrick Süskind, in cui il protagonista è invece caratterizzato da un corpo inodore.
Tra i testi veterotestamentari, in particolare nel Cantico dei cantici, aromi e fragranze inebriano ogni pagina: lo Sposo e la Sposa si cercano e si attraggono “sopra i monti degli aromi”. In diversi passi del testo le sostanze odorose si effondono: dal profumo degli alberi di Cipro, al misterioso nardo, allo zafferano, alla cannella e al cinnamomo, cui si aggiungono specie diverse di alberi da incenso e poi la mirra e l’aloe; le travi della casa sponsale sono i cedri, i soffitti sono i cipressi e anche il letto è verdeggiante. “Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, aroma che si spande è il tuo nome” (Ct, 1, 3), “Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia, nel mio giardino si effondano i suoi aromi” ( Ct. 4, 16) e ancora “Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo” (Ct. 5,1).
Tuttavia, nonostante il prevalente coinvolgimento dei sensi, la connessione tra il profumo sprigionato dalle sostanze odorose e la realtà spirituale è profonda.
Nella lingua ebraica esistono infatti due termini, entrambi usati dal Cantico dei Cantici, lo shemen (Ct 1,3b) descrive l’identità della persona: “Profumo olezzante è il tuo nome”, “Aroma che effonde è il tuo nome”. L’amata risponde (Ct. 1, 13): “Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto”.
Il senso dell’odorato introduce dunque ad un dialogo interiore, metafora dello spirito divino; le sostanze aromatiche si identificano con la stessa essenza di Dio. Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della scena evangelica (Lc 7, 36 ss.), dove la peccatrice rompe un vasetto di olio profumato con cui cosparge i piedi di Gesù: il significato simbolico del gesto è che la donna ha offerto se stessa attraverso il dono dello shemen, simbolicamente rappresentato dall’olio aromatico.
Il secondo termine che si incontra nel testo biblico è reach (Ct 1,3a) cioè soffio, spirito: “Per la fragranza (reach) sono inebrianti i tuoi profumi (shemen); “I tuoi profumi sono soavi a respirare”. E dal soffio come vita si esprime la Sapienza creatrice di Dio:
“Ho diffuso profumo come cinnamomo, come balsamo aromatico e come mirra, come galbano, onice e storace, come vapore d’incenso nel santuario” (Sir 24,15)[4].
Secondo il Talmud (Berakhòt 43b) ovvero l’olfatto, è l’unico senso da cui l’anima trae diletto mentre tutti gli altri sensi danno piacere al corpo. “Un olio profumato è il Tuo nome…” e apprendere il profumato nome di Dio significa conoscere la sua invisibile natura, priva di forma, colore e tangibilità.
Nel Siracide, lo Spirito di Dio si diffonde come un profumo, e san Paolo (2 Corinzi 2,14) dirà: “manifesta in ogni luogo il profumo della sua conoscenza”, in termini di aromi si esprime la Sapienza dell’Altissimo:
“Come cinnamomo e balsamo ho diffuso profumo; come mirra scelta ho sparso buon odore; come galbano, onice e storace, come nuvola d’incenso nella tenda” (Sc 24,1, 23).
Per l’antichità e la permanenza del suo uso nella liturgia, oltre all’incenso va menzionato l’olio, ricco e luminoso prodotto del frutto dell’ulivo, naturalmente un simbolo di prosperità che l’antica mentalità ebraica associa allo Spirito di Dio (Samuele 16,13) e alla benedizione divina (Deuteronomio 33,24), tanto da impiegarlo in composizione profumata (crisma) per l’unzione dei sacerdoti e dei re d’Israele, ai quali l’olio conferiva autorità, potenza e gloria da parte di Dio.
Nel Nuovo Testamento si narra che compiendo gli oracoli messianici che annunciavano l’omaggio al Dio d’Israele tramite l’offerta di ricchezze e profumi e infatti i Magi portano in dono al bambino Gesù oro, incenso e mirra, nei quali i Padri della Chiesa hanno visto simboleggiata la regalità (oro), la divinità (incenso), l’amarezza della passione (mirra) di Cristo.
In seguito, saranno soprattutto le donne a onorare Gesù con i profumi: la peccatrice unge con fragranze rare e costose i piedi di Gesù, nella cui sepoltura verranno utilizzati unguenti a base di aloe.
I balsami e i profumi della Bibbia raccolgono un’esperienza di più di tremila anni di olfazione, comune a tutte le civiltà del Medio-Oriente, la tradizione antica utilizzava svariate profumazioni: dal nardo degli egiziani, all’iris (irinon), al kyperos (composto di fiori di cipero, aspalato, mirra e cardamomo), al leokoı̋non (viola), al melinon (mela cotogna).
Questa cultura olfattiva viene ereditata dal mondo occidentale attraverso le crociate quando i profumi vengono importati dal mondo arabo. Da allora i prodotti si diffondono rapidamente attraverso la tecnica di distillazione alcolica connessa anche allo sviluppo dell’alchimia. La provenienza orientale dell’arte profumatoria appare suggestivamente sancita da Shakespeare, quando Lady Machbeth pronuncia il suo celebre lamento:
“Sangue, sempre odore di sangue … Tutti i profumi di Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano” (Machbeth, V, 1).
Anche il Medioevo eredita dall’antichità le profumazioni ottenute per macerazione delle essenze in olio di olive acerbe e la tecnica della distillazione di cui si hanno testimonianze già nel IV secolo in relazione a Zosimo di Panopoli, a lungo occupatosi di alchimia e dei processi della distillazione.
Già nel 1381 è documentato come, a Firenze, i Domenicani di Santa Maria Novella vendessero l’acqua di rose come disinfettante, usato soprattutto nei periodi di epidemie. I frati coltivavano le piante medicamentose (i semplici, da cui deriva il nome del giardino dei Semplici) in un orto attiguo, distillavano erbe e fiori, preparavano essenze, elisir, pomate, balsami. Il giardino dei semplici riforniva principalmente la più vicina e gemella Farmacia di San Marco, anch’essa fondata e gestita dai frati domenicani.
I profumi a base di alcool, dagli aromi intensi ed esotici, come il muschio e il gelsomino ottenuti tramite distillazione con alambicco, compaiono in Medio Oriente attorno al X secolo e divengono parte delle merci di lusso portate in Occidente e in buona parte destinate a Venezia. Tuttavia soltanto a partire dal XII secolo si comincerà a produrre profumi a base di alcool distillato anche in Europa.
Il più conosciuto, citato anche da Boccaccio, era un’acqua odorifera detta acqua nanfa, essenza di neroli da cui scaturiva un olio vegetale prodotto per distillazione dei fiori di arancio amaro. Usata in profumeria, liquoreria, pasticceria, talvolta in farmacia, il suo profumo somiglia a quello del bergamotto. Petrarca nel Canzoniere cita poi il profumo del lauro, legato al nome della sua amata Laura:
“L’aura et l’odore e ’l refrigerio et l’ombra/ del dolce lauro et sua vista fiorita,/ lume et riposo di mia stanca vita,/tolt’à colei che tutto ’l mondo sgombra”.
Un’acqua di rose particolarmente pregiata, tanto da essere esportata anche nei paesi arabi, era quella di Agerola, presso Amalfi, dove dalla coltivazione dei roseti veniva prodotta già nel XIII secolo. Le varietà di rose allora conosciute erano primariamente la rosa gallica e la rosa canina, mentre la più pregiata era la rosa damascena importata dall’oriente, il cui appellativo indicherebbe l’origine nella città di Damasco. L’intenso profumo della rosa, particolarmente apprezzato nel mondo antico, è ben evocato in un famoso dipinto di Sir Lawrence Alma-Tadema, intitolato Le rose di Eligabalo (Fig. 2 e 2 bis).
Il discusso personaggio, che amava circondarsi di fiori e profumi durante i suoi banchetti, nel quadro è quasi sommerso dalla presenza delle rose, in una visione estetica che sembra inebriare olfattivamente chi guarda.
L’espansione della distillazione di profumi si ha però con la grande ondata della Peste Nera nel 1348. Impotenti davanti al morbo, i medici consigliavano, come unico modo per combattere la peste, di prevenirla con frizioni di distillati di alcool per il loro effetto antisettico e astringente.
Nel XIV secolo e nel XV con l’affermazione della profumeria alcolica, conseguente alla scoperta dell’alcol etilico, fuoco e acqua si uniscono grazie all’azione dell’alcol noto come eau de feu. Alcuni di questi distillati hanno dato origine a profumi noti ancora oggi, come l’Acqua della Regina d’Ungheria, un distillato a base di rosmarino.
Come narra la leggenda del 1370, la regina Isabella d’Ungheria, settantaduenne afflitta da dolori reumatici, impiegando l’acqua distillata di rosmarino ricevuta in dono da un alchimista e grazie alla costanza della sua preghiera, recuperò sia salute che gioventù. L’uso dell’elisir di giovinezza si diffuse poi rapidamente fra le dame per mantenere la pelle liscia prevenendo e curando rughe e linee di espressione. Per secoli l’Acqua della Regina d’Ungheria venne usata per curare la gotta e le affezioni della pelle, come acne, eczemi, forfora e sebo. La ricetta consiste nel mettere a macerare in acquavite, salvia, maggiorana e rosmarino, poi chiusi ermeticamente in un flacone esposto al sole.
Forse intorno al 1360, altre erbe come alloro, lavanda, menta, puleggio entrarono nella composizione del tonico, dando vita a una soluzione di poco precedente alla più nota Acqua di Colonia a base di bergamotto. L’invenzione della formula della cosiddetta Aqua mirabilis spetterebbe a Giovanni Paolo Feminis (ca. 1660- 1736), emigrato in giovanissima età in Germania e stabilitosi a Colonia nel 1693, proveniente da Magonza.
L’Acqua mirabilis è stato il primo profumo basato sull’utilizzo di una soluzione alcolica, elaborata nell’VIII secolo dagli Arabi, grazie all’introduzione dell’alambicco, versione più moderna e funzionale dell’ambikos greco, all’interno del quale maceravano sostanze aromatiche. L’alcolato di rosmarino, (fig. 3) ideato da Sebastian Matte nella sua bottega di Montpellier, diede poi vita alla Eau ardente, ribattezzata più tardi come Acqua della Regina d’Ungheria: l’archiatra Antoine Daquin, amico di Matte, la consigliava per frizioni con lo scopo di alleviare i reumatismi. Sotto il regno di Luigi XV i soldati di ritorno da Colonia introdussero in Francia la celebre acqua omonima, vantandone l’inconfondibile aroma e le virtù terapeutiche. Gian Maria Farina, nipote di Gian Paolo Feminis ideatore dell’Acqua mirabilis, trasferitosi a Colonia si dedicò alla fabbricazione di questo profumo, che ha poi preso ufficialmente il nome di Acqua di Colonia.
Nello stesso periodo e per ragioni simili si diffonde l’uso di pomi odoriferi, i francesi pomander, preparati dai farmacisti e da portarsi indosso. Il Pomander, dal francese pomme d’Ambre, cioè mela di ambra, è una sfera fatta di profumi, come l’ambra grigia (da cui il nome), il muschio, o lo zibetto. Esso si indossava o si trasportava in un vaso, come protezione contro l’infezione in tempi di peste o semplicemente come utile oggetto per modificare i cattivi odori. A volte il pomander conteneva diverse partizioni, in ciascuna delle quali era collocato un profumo diverso ed è presente in ritratti di dame come Elisabetta I d’Inghilterra o Eleonora di Toledo.
In Francia il pomander veniva utilizzato soprattutto dai medici nel momento in cui si trovavano a rischio di contagio: annusandolo, secondo la credenza, si evitava di respirare aria infetta. Inizialmente composto da una semplice pallina d’ambra grigia racchiusa in un contenitore di metallo, con il tempo esso si trasformò in un elaborato oggetto di oreficeria. Tra i più macchinosi ve ne erano in forma di globi apribili a spicchi, ognuno dei quali è uno scomparto da riempire di polvere profumata (figg. 4).
Nelle classi elevate si prese l’abitudine di cucire sugli abiti due sacchetti di polvere di radice di iris all’altezza delle ascelle per profumarle e assorbire il sudore (fig. 5).
È comunque il Rinascimento a riportare in auge i profumi come nell’età romana, in particolare i profumieri italiani godettero di grande fama. Se Leonardo sembrò suggerire la tecnica moderna dell’assorbimento e delle infusioni, Caterina de’ Medici introdusse in Francia la grande moda che avrebbe fatto di quel Paese il territorio ove per eccellenza si sarebbe sviluppata l’arte della profumeria rivaleggiando solo con Venezia. Nella città lagunare i famosi profumieri chiamati muschiari fecero dell’Italia il centro dell’arte profumatoria, storicamente assai documentata.
Di questa antichissima cultura del profumo le testimonianze figurative non sono frequenti. Tuttavia una straordinaria serie di codici, conservati nella Bibliothèque Nationale de France, documenta in modo affascinante e forse unico il grande interesse delle civiltà di corte verso la coltivazione di piante rare, atte alla fabbricazione di profumi e oli essenziali.
Attenzione particolare al tema viene data dal renano Évrard d’Espinques, nato nel 1414, attivo a Parigi intorno al 1430 al servizio di Jaques d’Arnagnac duca di Nemours. Il miniaturista decora il Liber de Proprietatibus rerum di Barthélemy l’Anglais, il filosofo francescano che attorno al 1240, redasse il trattato enciclopedico De proprietatibus rerum, in cui raccolse scritti relativi ad argomenti fisici, mostrando un diretto interesse per lo studio delle natura delle cose, alla fine del XV secolo, esistevano diversi esemplari a stampa del trattato e se ne conservano ricercate miniature dedicate al senso dell’odorato e ai sensi (figg. 6-7-).
Nelle miniature tratte da codici dell’area francese di fine XV secolo, compare anche il riferimento alla produzione degli olii essenziali, ottenuti mediante la distillazione da diverse piante tra cui si inserisce curiosamente il basilico, utilizzato nella medicina come nella profumeria o per la semplice realizzazione di corone profumate, come documenta l’anonima miniatura, di cultura pavese, che decora Tacuinum Sanitatis di Ibn butlân (fig.8 ).
Un posto caratteristico occupa poi la preparazione della celebre eau de rose o acqua di rose (figg. 9-10 ), un sotto prodotto della distillazione dei petali di rosa (fase acquosa o idrolato) per la fabbricazione dell’essenza di rose che, a differenza, emana un profumo intenso e concentrato. Assai popolare nel Medio Oriente, l’eau de rose era utilizzata nelle creme, nelle paste e nei gelati, ma anche come fragranza per l’industria cosmetica.
Già nel mondo antico esisteva il rhodinon, cioè il profumo di rosa, assai leggero, utilizzato di sovente per la sua persistenza rispetto ad altre profumazioni. Il suo aroma, infatti, prevalendo sugli altri nei profumi composti, penetra completamente nei canali sensoriali e l’olfatto non è in grado di percepire altro. Secondo quanto riferisce Teofrasto, il rodhinon per la sua delicatezza ha un calore equilibrato, atto a dare una temperatura giusta ai pori e a farli aprire. Il mal di testa, determinato da altre profumazioni troppo intense, sarebbe causato secondo l’autore dalla ritenzione di umidità. Il profumo della rosa, per le sue caratteristiche, sin dall’antichità diviene l’aroma più diffuso e apprezzato, come sembrano suggestivamente evocare le celeberrime parole dell’eroina shakespeariana:
“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, sembrerebbe pur sempre lo stesso dolce profumo” (Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II).
Nella Bibbia di Borso d’Este, il capolavoro dell’arte di corte, il “libro dei libri”, Taddeo Crivelli, il miniatore che realizza la gran parte delle illustrazioni a corredo del Cantico dei cantici, raffigura lo Sposo e la Sposa che colloquiano dinanzi ad un roseto (fig. 11): il dialogo d’amore è difatti esaltato dal profumo delle rose, fiore simbolico sin dall’antichità riferibile a Venere e, quindi, alla Vergine.
A distanza di molti secoli la raffinata atmosfera della corte estense riflette una tradizione remota, animata da una vitale curiosità che conferisce attenzione ai profumi e agli odori, messaggeri di sensazioni particolari, classificati per tipologia (acetati, aldeidi, salicilati; oppure balsami, resine, assolute, resinoidi) o per affinità odorosa (floreale, legnoso, ambrato, speziato, etc.), ma anche in base alla volatilità.
Sul finire del 1497 l’umanista bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti dedica a Ercole I d’Este il trattato sulle virtù del principe, intitolato De triumphis Religionis: poche pagine, nel quinto libro, riguardano la delizia estense di Belfiore, che prevedeva bagni ampi e piacevoli in una posizione assai simile a quella indicata da Plinio nella sua villa Laurentina, dotati di acque calde che riuscivano a profumare l’ambiente e posizionati in modo da deliziare la vista verso il giardino, “parea vedere il fumo delle calde aque come da quelle suave odore si sentiva”.[5]
In accordo con le istruzioni fornite dall’antichità, una dimora della prima età rinascimentale a Ferrara è connotata dalla presenza di giardini e soprattutto di acque, a proposito delle quali l’autore pone l’accento su di un “suave odore” che ne diviene nota distintiva quanto inebriante. E un’eco di questa cultura si riverbera nei versi dell’Ariosto:
”Perché l’odor non se ne va sì n fretta/ch’in nuovo vaso, o buono o rio” (Orlando Furioso, XIII, LXXI).
Nel citato romanzo Das Parfum, (1985), l’autore Patrick Süskind, riferendolo al macabro protagonista Jean Baptiste Grenouille, innaturalmente privo di un suo personale odore, rilevava che gli uomini possono chiudere gli occhi davanti alla grandezza, all’orrore, alla bellezza e persino turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti, ma non possono sottrarsi al profumo fratello del respiro. Esso penetra negli uomini e scende direttamente al cuore, e là distingue la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l’amore dall’odio. Colui che domina gli odori domina il cuore degli uomini. Ambientato nella Francia del XVIII secolo, il romanzo penetra nel regno delle sostanze aromatiche e sembra sancire l’ineludibile legame, consolidato nel mondo antico, tra l’odore e la realtà interiore dell’uomo, creando un nesso imprescindibile con il trascorrere del tempo.
Come nell’antichità così nell’età moderna, il profumo rinvia costantemente al vasto tema dell’immortalità dell’anima e sovrasta il trascorrere del tempo, come magistralmente affermò Marcel Proust in Du côté de chez Swann(1913):
“Ma quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’edificio immenso del ricordo”. [6]
Stefania MACIOCE Roma 10 gennaio 2021
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