P d L
Abbiamo incontrato Anna Coliva pochi giorni prima della sua partenza per Parigi dove doveva intervenire al convegno di studi tenutosi a latere della mostra Caravage a Rome. Amis & Ennemis. Il nostro incontro era stato fissato per tracciare un bilancio delle iniziative messe in opera nel corso del 2018 ed ancora in essere nella Galleria Borghese -che dirige da svariati anni- e di quelle in cantiere per il 2019; ma non potevamo tralasciare gli eventi e le polemiche che l’hanno investita nell’anno trascorso. La nostra conversazione è iniziata proprio da qui, per toccare poi i molti progetti in cantiere di carattere espositivo e di lavoro,
–Partirei per questa conversazione -che vuole tracciare una sorta di bilancio del 2018 ed anche capire qualcosa riguardo al 2019- dalle traversie, diciamo così, che ti hanno visto protagonista; puoi spiegare bene ora come stanno le cose, cioè perché sarebbe partita la procedura di sospensione nei tuoi confronti cui è seguito il reintegro e come procederà adesso la vicenda?
R- Il reintegro è un provvedimento che ha ripristinato la mia piena appartenenza a una amministrazione che ha costituito, fino dal periodo degli studi universitari, la mia scelta di vita come storico dell’arte. Amministrazione cui io non solo appartengo ma che mi appartiene. Perciò non voglio pronunciarmi su questa vicenda, che ha costituito per me una lesione gravissima. Sicuramente verrà fatta piena chiarezza su fatti, moventi, comportamenti e responsabilità. Per ora non ne parlo. Devo lavorare e basta. Per il resto, rispetto al bilancio che mi chiedi del 2018, posso dirti che proprio questa orribile vicenda ha fatto emergere una realtà eccezionale del Museo: intervenuta questa sospensione come un fulmine a ciel sereno, nel pieno della preparazione di una mostra impegnativa e importantissima come quella della scultura di Picasso che, ricordo, è la prima fatta in Italia proprio perché argomento estremamente complesso, ogni obbiettivo è stato comunque raggiunto. Merito dei miei pochi ma straordinari collaboratori, capaci di proseguire il lavoro e non smarrire l’orientamento, in un periodo in cui a me restava la possibilità solo di curare scientificamente la mostra e non quella pienezza di direzione che è l’amalgama del nostro gruppo. La mostra di Picasso si è inaugurata il giorno previsto. E’ stata una magnifica controprova della loro la capacità, della loro lealtà, della loro bravura e anche della bontà del progetto e dell’efficacia di quanto avevo costruito negli anni .
-Significa che le accuse di assenza dal luogo di lavoro a causa della quale eri incorsa nella sospensione dal servizio è stata riconosciuta come inesistente?
Infatti, e sono molto grata al nuovo corso del ministero che ha voluto rivedere certi sistemi e certi conseguenti comportamenti assolutamente indebiti e di chiudere la mia questione. Come si riesca ad essere assenteisti e produrre una mostra all’anno quando non due da più di dieci anni e solo e sempre con i soliti quattro gatti che siamo proprio non lo so … mah… ci penserò… Ma non vale la pena di tornarci su, è apparso immediatamente evidente a tutti che fu una trappola. Ma questo fa parte appunto di ciò che emergerà. Ora non voglio più parlarne e riprendere invece tutti i progetti che erano in corsa, molti sul traguardo. Anche se l’amarezza è stata grande nello scoprire che l’onore dei propri funzionari è potuto passare in secondo piano davanti a interessi personali e ad una, come dire ? … sovrainterpretazione del concetto di “competitività” che non ha esitato a coinvolgere anche un luogo come la Galleria Borghese. Peccato.
-Ci fu però in tuo favore una discreta mobilitazione, sul web e non solo.
R: : La mobilitazione fu enorme, del tutto inattesa, più di 2000 adesioni in una settimana. Fu un’iniziativa di David Jaffe, già vice direttore del Getty e della National Gallery di Londra. Anna Lo Bianco, Direttrice di Palazzo Barberini, lo aveva preceduto con una lettera pubblica emozionante. Conserverò come una dote intangibile la stima, la solidarietà, l’affetto che mi sono arrivati da tutto il mondo, anche da ambiti e persone del tutto inaspettati. E’ qualcosa che mi ha fatto capire che quello che stavamo facendo era proprio giusto e forse troppo avanti rispetto alle capacità metaboliche del sistema.
-Vediamo se puoi toglierti un altro sassolino che nello scorso 2018 probabilmente ti ha infastidito, anche se non a questi livelli; mi riferisco alla famosa querelle sorta intorno al dito rotto della povera santa Bibiana …
R: Mah … direi non del tutto estraneo alla vicenda … si sa che la tentazione di infierire quando qualcuno è indebolito per alcune indoli è irresistibile. Successe che un’opera importantissima, la Santa Bibiana appunto, che era stata restaurata nel museo a cantiere aperto e poi esposta alla mostra di Bernini, subì un grave danno, la rottura di un dito. Ma ciò avvenne dopo un mese e mezzo che era ritornata nella chiesa, riconsegnata in perfette condizioni e fresca di restauro. I responsabili della chiesa però non vollero che la collocassimo in modo definitivo sul suo altare in attesa di altre donazioni per ulteriori interventi. Fu una piccola avidità … Dopo un mese e mezzo venne spostata, ma sotto la tutela e responsabilità della Soprintendenza competente e sotto la supervisione dei funzionari responsabili presenti. La grave speculazione fu di dare la colpa dell’incidente al fatto che fosse stata prima esposta alla mostra. Dispiace che i colleghi della Soprintendenza abbiano permesso che fosse accusato il museo e la mostra, che non potevano avere a quel punto nessuna competenza né responsabilità, e non abbiano sentito il dovere, anche istituzionale, di chiarire. Ma nemmeno i giornali che hanno cavalcato la polemica ci hanno concesso alcuno spazio di replica.
-Però alcune critiche vertevano in realtà sul fatto che l’opera non dovesse essere spostata in Galleria per la mostra ma si dovesse lasciarla visitare in situ.
R: Ma perché si è voluto dimenticare che la statua fu spostata per il restauro, peraltro ottimo ed ammirato oltre che dal pubblico anche dagli studiosi di Bernini per le novità che ha portato agli studi, non per la mostra. Che fu l’occasione per divulgare questi risultati. L’intento speculativo comunque è apparso subito evidente e non poteva che essere così: sarebbe come se un quadro fosse caduto dal proprio chiodo un mese e mezzo dopo essere rientrato in sede da un prestito e se ne desse la colpa alla mostra che lo aveva ospitato … In conclusione direi che se fra storici dell’arte non si è d’accordo sull’impostazione o i contenuti di una mostra o anche solo sul suo allestimento o sulle tesi espresse nel catalogo, c’è un modo più leale e definitivo per opporvisi che non attraverso strumentalizzazioni un po’ vili: fare una mostra più bella.
–Insomma tu sei convinta che alcune contrarietà accadute nel corso dello scorso anno fossero parte di un tentativo per danneggiarti?
R: Mi pare che la cosa sia purtroppo emersa con chiarezza. Essere stata contraria ad un certo sistema delle mostre, quelle che erano pretesti per far pagare sovrapprezzi di biglietto non proporzionati a ciò che veramente veniva mostrato (o addirittura sovrapprezzi senza la mostra, come purtroppo è accaduto) certo non mi ha giovato. In quel momento mi sono trovata da sola a contrastare tale sistema, ora invece anche il Ministero ha reagito perché negli ultimi atti siglati da Franceschini compare un deciso ed esplicito richiamo a produrre le mostre in proprio senza il tramite di società di servizio. La stessa Anac e gli aggiornamenti del Codice degli appalti impongono restrizioni molto forti a quello che era diventato un vero proprio mercato speculativo. Naturalmente ci sono società e società, ce ne sono alcune di grande valore, capaci e altamente professionali, che impegnano capitali propri, energie ed idee, ma non sempre è così purtroppo e la questione rimanda, come sempre, non alla mancanza di leggi, che esistono copiose, bensì alla mancanza di controlli o a interpretazioni strumentali. Credo proprio che i miei problemi siano nati dall’aver impostato un metodo diverso.
-Ma ora rientriamo in Galleria. Credo che tu, in quanto studiosa del mondo barocco e in particolare di Bernini, sia particolarmente soddisfatta del successo ottenuto dalla mostra ‘Bernini’, che ha registrato oltre 150 mila visitatori.
R: Certamente, è stato un successo al di là di ogni previsione, ma anche una grande impresa realizzata solo grazie alla capacità e dedizione di tutti i miei collaboratori e colleghi. Per me resta un evento indimenticabile di cui ancora si percepiscono gli echi – penso al docufilm BERNINI, presentato al festival di Venezia o al volume che sta per uscire in cui si documentano le opere all’interno della Villa, una testimonianza di quest’impresa che sarà molto importante perché la mostra di Bernini alla Galleria Borghese è stata fatta attraverso il luogo e la sua comprensione piena non ne può prescindere. Sarà un modo per lasciarne testimonianza.
-Dopo il volume di cui parli hai pensato a qualche altra iniziativa editoriale ?
R: Sto lavorando al catalogo generale della scultura della collezione Borghese cui seguirà quello sulla pittura. E’ un’opera indispensabile che ancora mancava, dopo le imprese eccezionali dei nostri predecessori negli anni Cinquanta. Nel frattempo è uscito un magnifico volume realizzato da Treccani con immagini di altissimo qualità e bellezza che riguarda non solo le opere ma gli ambienti e le decorazioni della Villa. Un’opera veramente fondamentale. Inoltre ho in progetto un volume su Bernini pittore e scultore, dove approfondire il concetto stesso di ‘Statua’.
-Questo aspetto relativo all’approfondimento e alla ricerca sembra essere una caratteristica delle mostre alla Galleria.
R: Vuole esserlo, perché la realizzazione delle mostre è stato uno dei metodi per fare ricerca, finanziarla, divulgarla, dal momento che all’interno di un museo italiano i fondi per la ricerca non erano neppure previsti. Per la propria professione di storici dell’arte trovare mezzi per finanziare gli studi è fondamentale e uno degli strumenti per farlo è quello delle mostre, per le quali i finanziamenti sono più facili da trovare. In ognuna delle mostre realizzate alla Galleria Borghese è stata fatta almeno una scoperta importante, documentaria o stilistica. A cominciare dalla prima, la mostra di Raffaello del 2006 in cui le novità furono più d’una. Il metodo è sempre e solo basarsi sullo studio, sull’applicazione e sulla ricerca di cui l’esposizione è la tappa conclusiva. Per realizzare la prima mostra su Bernini del 1998 ci sono voluti 4 anni di studio e ricerca che sono stati ulteriormente messi a frutto in quest’ultima, che ne è stata il suo sviluppo su grandi dimensioni. A questo proposito non posso non ricordare la giornata di studio, un incontro tra i massimi studiosi, condotti come in una visita da Jennifer Montagu. Un’esperienza indimenticabile per la lezione di umiltà dimostrata da una delle massime studiose della nostra epoca, che manifestava solo la curiosità di voler capire di più. Ma questo è un dono che solo i grandi hanno. La vivacità e sicurezza di una mente capace di non imporsi in un simposio dove altri grandi studiosi discutevano, si confrontavano, tornavano sulle proprie decisioni, cambiavano idea. Una grande, indimenticabile lezione. Ma tornando alla filosofia sottesa in questi anni alla realizzazioni di mostre dentro il museo e servendosi di esso, credo che la mostra sia il mezzo del luogo per esprimere al meglio la sua natura, è il linguaggio stesso del museo, il suo continuo mettersi in scena da protagonista.
-Anche dopo la mostra sulla natura morta ‘Caravaggio e il maestro di Hartford’ ci fu un convegno di studiosi in effetti; ma riguardo a questa mostra ho sentito il parere di Davide Bussolari nell’inchiesta che About Art sta conducendo sulla validità delle indagini diagnostiche applicate all’opera d’arte, il quale ebbe l’incarico di effettuare indagini su alcuni dipinti, e quindi su cosa era venuto fuori e soprattutto sull’utilità di simili indagini. Il suo parere è stato piuttosto ridimensionante, perché, ci disse, si rischia di fare confusione quando si vuole spacciare per verità assoluta una verità che invece non può che essere parziale.
R: Non si può non essere d’accordo, è questione del più comune buon senso. Sarebbe come dire che le indagini endoscopiche o ecografiche su di un paziente fanno abolire il medico specialista. E’ un’assurdità grottesca. La differenza sta nel grado di capacità nel leggere le analisi e di connetterle ad un contesto che va ben oltre queste. Insomma, la differenza è come sempre in chi sa e chi non sa: bisogna studiare, e molto. E’ un discorso che vale per tutto. Rimanendo nel nostro campo, anche per l’arte contemporanea, luogo in cui più che riguardo alle altre epoche ti senti dire: ‘io l’arte contemporanea non la capisco’. Ma quanto l’hai studiata? E se non la studi perché dovresti presumere di capirla? Che è poi lo stesso anche per l’arte antica, dove però si ha la presunzione di capire solo perché se ne conoscono approssimativamente i codici, dunque è ancora più pericoloso. Ma la Storia dell’Arte rientra tra le scienze umanistiche che, in un Paese in cui il livello culturale si è abbassato precipitosamente, sono considerate un divertissement alla portata di tutti. Qualcuno ha dato di ciò una definizione geniale: l’arte è un marciapiede su cui tutti credono di potere battere…”
-Mi dai lo spunto per farti una domanda a proposito del contemporaneo che è entrato spesse volte nella Galleria Borghese.
R: Credo che sia una cosa fondamentale per far percepire di un museo, soprattutto un museo come questo, il suo forte, intrinseco senso d’attualità.
-Ecco, ma volevo chiederti se pensi sinceramente che tutte le scelte sono state adeguate sotto questo aspetto; ad esempio, riproporresti l’evento di Daniele Puppi che venne criticato parecchio ? si parlò di ‘rantoli’ …
R: Non mi risulta che l’istallazione di Daniele Puppi sia stata criticata, certo non dal mondo dell’arte contemporanea o dal pubblico giovane che entrò per la prima volta al museo proprio per questa performance. Certamente si sentivano dei rantoli, il lavoro infatti si chiamava “Respira”, ed era limitato a soli 12 minuti di respiro che si concludeva e dissolveva in un grido, volando fuori dal museo, nel parco, il respiro dell’emozione estetica. Questo per quattro volte nell’intero arco della giornata. Ho commissionato volutamente un lavoro immateriale, che agisse solo con il suono, senza la presenza di opere, proprio per spezzare l’automatismo del “confronto”, questo concetto assolutamente fuorviante divenuto un luogo comune per introdurre in un museo d’arte antica opere d’arte di epoca moderna e contemporanea, come per giustificarne la presenza, salvo naturalmente i casi in cui per scopi mercantili si volesse puntare sulla “location”! Come se si dovesse ‘innalzare’ l’arte contemporanea ai capolavori del passato, ‘nobilitarli’ attraverso assurdi ma soprattutto inutili confronti. L’operare artistico non ha alcun bisogno di ciò, siamo noi piuttosto, noi che abbiamo il compito di studiare quei musei e quelle opere, ad avere bisogno dell’occhio dell’artista contemporaneo per vedere cose che altrimenti ci sfuggirebbero. La contemporaneità, verso cui il nostro Paese ha gravi ritardi e preclusioni inconcepibili altrove, è il nostro presente e la chiave per comprendere il passato.
-Tuttavia chi avanza critiche lo fa anche perché non è convinto che esporre contemporaneo alla Borghese sia una operazione giusta, ed effettivamente non si può negare che spesso alcune opere della contemporaneità non possono reggere il confronto con i capolavori antichi esposti. Come rispondi a questa contestazione?
R: Ripetendo che il concetto di confronto antico-moderno è qualcosa di fuorviante, usato spesso senza consapevolezza e con pigro automatismo, e che come argomento non mi appassiona.
-Allora spostiamo un po’ il discorso sull’antico, così posso chiederti cosa pensi delle recente attribuzione a Caravaggio, uno degli artisti più importanti ospitati nella Borghese, di un dipinto per anni attestato nei depositi della Galleria, ritenuto il ritratto di Marcello Provenzale attribuito tradizionalmente alla mano di Ottavio Leoni, che invece Claudio Strinati crede essere opera del genio lombardo che avrebbe ritratto l’amico e sodale Bartolomeo Manfredi; se ne è parlato qualche giorno fa ad Arezzo in un convegno.
R: Non condivido l’attribuzione a Caravaggio, mi sembra resti convincente quella ad Ottavio Leoni. Credo invece che sia da rivedere l’identità dell’effigiato che in effetti non credo sia Marcello Provenzale e neppure Bartolomeo Manfredi, bensì Giulio Mancini, noto biografo degli artisti suoi contemporanei nonché archiatra di Papa Urbano VIII Barberini. Amico e sodale degli artisti dunque, ed è molto verosimile che Leoni lo abbia voluto ritrarre.
-Adesso parliamo della mostra in essere in galleria e dedicata a ‘Picasso scultore’, un artista eccezionale molto rappresentato ultimamente in Italia, prima con ‘Parade’ nelle mostre di Capodimonte a Napoli e delle Scuderie del Quirinale qui a Roma, poi con ‘Picasso Metamorfosi’ a Palazzo Reale a Milano e quindi qui alla Borghese con una esposizione tutta dedicata alla scultura appunto, attività non proprio principale dell’artista.
R: Ho scelto il tema della scultura nel momento in cui si decidevano le celebrazioni della grande rassegna europea Picasso-Méditerranée, promossa dal Musée Picasso di Parigi con altre istituzioni internazionali, già nel 2015. La nostra è stata la prima esposizione ad essere scelta per l’Italia in questo progetto e inizialmente era l’unica prevista in Italia. Fortunatamente poi se ne aggiunsero altre, anche se di meno vaste dimensioni, perché di un artista sommo come Picasso, secondo me, più si vede meglio è. La mostra della Borghese espone 56 sculture, molte scelte tra quelle monumentali, con il preciso intento di proseguire l’approfondimento del concetto di scultura e di ‘statua’ che il museo sta portando avanti da tempo. Il tema della scultura è il più difficile nell’ambito della produzione di Picasso, egli stesso non voleva fare mostre di sole sculture, quasi che nel procedimento della scultura si potessero svelare i percorsi mentali che lo portavano alle sue straordinarie invenzioni formali. Questa dunque è la prima grande mostra fatta in Italia dedicata alla sola scultura di Picasso, una mostra di grande rilievo scientifico grazie anche al catalogo accuratissimo e ad una vera esperta come Diane Widmaier-Picasso che ricostruisce filologicamente il difficile processo delle varie fusioni, l’elemento più difficile da ricostruire, con risultati che sono stati apprezzati unanimemente e che certamente manterrà nel tempo tutta la sua validità.
-Riscontri da parte della critica ci sono stati?
R: Si, molto entusiasti da parte soprattutto della stampa internazionale, più attenta a questi eventi. E’ stato detto che non si è mai visto Picasso così bello. Questo perché in un luogo come la Galleria Borghese che conserva la scultura di tutte le epoche a cominciare dalla greco-romana, si comprende appieno la forza immensa di Picasso di arrivare all’archetipo, al primigenio.
-Per quanto riguarda il numero dei visitatori invece?
R: Molto alto, come per le mostre più importanti. Ma voglio aggiungere una precisazione perché in casi come questo la domanda che più mi viene fatta è ‘perché un autore moderno dentro la Galleria Borghese?’ Proprio perché noi abbiamo il dovere di studiare non Picasso ma la Galleria Borghese; Picasso lo affrontano i veri esperti di Picasso, a noi interessa esaltare il luogo e quindi mettere le opere di Picasso in Galleria in questo senso ci aiuta, come quando inseriamo opere di altri artisti, non soltanto di oggi; prendi il caso di Canova o quello di Cranach che restano significativi perché ci hanno consentito di capire qualche cosa di più circa il luogo e la collezione: con Cranach abbiamo potuto approfondire il concetto di spazio italiano e spazio nordico; con Canova come un simile genio non si sia affatto preclusa l’imitazione di Bernini, benché i teorici del “neoclassico” glielo avessero vietato! E solo in mostra si è potuto dimostrarlo. Tutto questo insomma per dire che è il luogo stesso che crea, che dà occasioni e il nostro compito è far si che queste occasioni si verifichino. La Galleria tutta, come opere, come luogo stesso tramanda un fortissimo senso di attualità e di vitalità dell’attualità. Perché? Perché collezione e luogo si sono formati proprio sul concetto di varietà, multiformità, attualità; che la forza dell’arte risieda sulla sua eternità a prescindere dalle epoche, dalle ideologie, dagli stili. Questo è stato l’imprinting del suo fondatore, la sua curiosità, che rendeva la collezione sempre attuale, sempre rinnovata con committenze contemporanee non solo a Bernini o a Caravaggio, con opere eccentriche che non erano presenti in nessun’altra collezione. Pensiamo appunto al capolavoro di Cranach, la Venere, l’unica opera del grande maestro tedesco presente dall’origine in una collezione seicentesca italiana perché comprata, dunque con un atto volontario di scelta, e non giuntavi per via ereditaria.
-E’ il luogo dunque a tuo avviso l’elemento determinante anche per certe tue scelte non dico di ‘confronto’ che non ti piace, diciamo di accostamenti, che a volte sono state discusse?
R: Certo questa è la forza del luogo; ed aggiungo che in particolare questa caratteristica si esalta nella scultura; posso dire che questa è decisamente la casa della scultura e non per caso il nostro lavoro sulla scultura lo rende evidentissimo come nel caso di questa mostra di Picasso scultore, dove si ritorna ai fondamentali, alla rivitalizzazione dell’antico; basta solo osservare attentamente le sue teste accanto alle monumentali teste antiche per rendersi conto che ci riportano all’archetipo di tutta la scultura; come ho scritto ‘nella mostra emerge con l’inserzione delle opere di Picasso la potenza magica ed esorcistica di un’antichità restituita come forza originaria’. Ecco: l’antico ‘vivo’ è qualche cosa che solo un genio come Picasso poteva realizzare; Picasso ebbe a frequentare la Galleria Borghese ed oggi è come se questo legame tra lui e le statue antiche riprendesse vita e vigore.
-In effetti tu ritieni che l’arte di Picasso sia stata determinante per tutta la cultura occidentale contemporanea, proprio in forza di questo collegamento con le antichità classiche. E’ così?
R: E’ una questione da cui non si può prescindere, anche se non si deve parlare per Picasso di un “collegamento”, sarebbe estremamente riduttivo. Chi ha realizzato la grande rivoluzione linguistica occidentale? Raffaello! Ma non il Raffaello di Urbino o di Firenze, bensì il Raffaello di Roma; solo venendo a Roma Raffaello diviene l’interprete essenziale del cambiamento e del rinnovamento; certamente sarebbe stato un eccellente artista ad Urbino o a Firenze, ma un eccellente pittore dell’Italia centrale. A Roma invece innanzitutto si confronta con lo spazio e ha un rapporto del tutto vitale e quasi familiare con l’antico; uno spazio ed un antico che non sono archeologia ma vita, è questo che percepiscono i grandi, ed in qualche misura in questa povera città così malridotta è perfino possibile che possiamo percepirlo anche noi ed avere un sussulto. La vivacità e la vitalità dell’antico rendono Raffaello determinante, e le sue forme, le sue iconografie, le sue composizioni, ci piacciano o no, sono quelle che accompagneranno tutta l’arte occidentale fino alla fine dell’Ottocento. Questo non si può dire per nessun altro artista, a prescindere dalla sua grandezza.
-Dopo di che prorompe Picasso.
R: Dagli inizi del Novecento scoppia la bomba Picasso, che si protrae – e anche in questo caso che ci piaccia o no- fino alla nostra epoca, solo Picasso, come Raffaello, riesce ad arrivare all’origine primigenia e vitale dell’antico e recuperare un classicismo vero, sostanziale e non formale. Sono due artisti uniti anche dal disegno, per entrambi di qualità somma, forse inarrivata. Il disegno costruttivo, strutturato, si potrebbe dire “autoportante” di Picasso è pari solo a quello di Raffaello.
-Si capisce il fascino che generano su di te questi due mostri sacri protagonisti in tempi diversi di esposizioni di grande successo alla Galleria Borghese; ti chiedo allora, quali altre figure di questo livello entreranno in Galleria prossimamente?
R: La prossima esposizione avrà il titolo “Collezioni di terra e d’oro” e sarà dedicata alle opere di Lucio Fontana in relazione al concetto di ‘spazio’, problema fondamentale che ha dovuto affrontare l’arte di ogni tempo. Per la prima volta un grande artista italiano del Novecento per la prima volta in Galleria. Per quanto riguarda la mostra storica, sarà dedicata a Luigi Valadier che fu uno dei protagonisti del rinnovamento della Villa Borghese nel Settecento e si chiamerà: Valadier:il trionfo dello stile.
–Insomma, una Anna Coliva in piena attività che preannuncia iniziative editoriali, mostre, approfondimenti; mi sembri tutt’altro che sulla via dell’uscita come pure ogni tanto sembri voler riaffacciare, e d’altra parte come immaginare una Galleria Borghese senza Anna Coliva?
R: E’ del tutto immaginabile.
-Ma speri o no che l’attuale Ministro possa rinnovare gli incarichi ai Direttori di Museo insediati dalla legge Franceschini?
R: Non saprei, la riforma attribuisce ai musei una autonomia e perciò una fisionomia giuridico amministrativa e culturale molto forte. Ciò comporta come conseguenza la naturale tendenza ad una altrettanto forte individualità delle scelte. E’ giusto che un ministro voglia realizzare e dimostrare tramite il museo il proprio progetto e la propria idea di patrimonio artistico.
-Pare farsi strada l’idea di un ritorno alla scelta di Direttori italiani.
R: Non so bene cosa significhi ‘direttori italiani’, credo che si sia fatta molta confusione in omaggio a qualche titolo ad effetto. La polemica mi pare si fosse innescata soprattutto tra interni ed esterni al ministero. Ma se si dovesse tornare a personale del tutto interno allora bisognerebbe ripristinare un concorso vero, quello che formò le vere eccellenze mondiali e al quale si uniformarono le selezioni internazionali. Altrimenti non ce la faremo a reggere il confronto con le istituzioni museali europee ed extraeuropee. Un direttore può essere italiano o australiano purché sia capace e competente, in grado di competere con coloro che -indipendentemente dalla nazionalità- sono a capo dei grandi musei internazionali, dove la selezione è durissima. L’Italia a mio parere ha questa esigenza, di tutelare e valorizzare le eccellenze che sono ben presenti tra gli storici dell’arte, gli archeologi, etc…, italiani e di essere attraente per gli stranieri.
-Un’ultima domanda: come procede il lavoro sul database delle opere di Bernini e Caravaggio, nonché la stesura della Guida della Galleria? Potete sempre contare sulla partnership con Fendi ?
R: Stiamo andando avanti col progetto Caravaggio Research Institute, e interagiamo soprattutto con il Getty Research di Los Angeles che ci sostiene dal punto di vista scientifico. Ma assieme ai progetti scientifici non voglio trascurare l’impegno per rendere il museo sempre più accogliente oltre che agibile. E’ il compito più difficile a causa della struttura architettonica intangibile e della scarsezza degli spazi non museali a disposizione. Nonostante ciò posso annunciare che stanno per iniziare i lavori (dopo quasi tre anni di progettazione e di gare!) del un nuovo accesso per i disabili e del totale rifacimento del foyer che prevederà la totale ristrutturazione di quello esistente, del nuovo ristorante, del bookshop, del guardaroba e della zona di accoglienza per il pubblico. Si è riusciti anche, incredibilmente, a progettare un nuovo ascensore che permetterà ai disabili di raggiungere il Giardino Segreto. Sono poi finalmente partiti i lavori per il totale rifacimento della climatizzazione che anni di mancata manutenzione, nonostante le infinite richieste, avevano reso totalmente obsoleta. Sono già stati portati a termine, invece i bagni dei piani museali che da due che erano sono diventati sei. Per i nostri ridottissimi spazi è stato un inaspettato risultato.
-Molta carne al fuoco, insomma. Non vedo una Direttrice uscente e d’altra parte cosa penseresti di fare una volta fuori dalla Borghese?
R: Il mio sogno? Fare l’ambasciatrice! D’altronde sono così diplomatica…