di Massimo PULINI
Massimo Pulini (Cesena, 1958) insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna; noto in Italia e a livello internazionale come studioso di storia dell’arte, è conosciuto anche come artista che ha esposto in importanti gallerie italiane e straniere ed è stato chiamato a decorare una stanza degli appartamenti papali; è autore di saggi in particolare su artisti del Seicento e di numerosi romanzi; attualmente fa parte della Giunta del Comune di Rimini con delega alle Arti. Con questo importante contributo inizia la sua collaborazione con About Art.
Il Tempo di Lorenzo Greuter dopo il Maestro delle Vanitas e lo Pseudo Cerrini
Quando ci si appresta a redigere la monografia di un pittore, uno dei primi strumenti da usare è il setaccio.
Un vaglio che metta a verifica il calibro delle opere, fino a quel momento attribuite all’artista, si pone come necessaria condizione per stabilire un primo orientamento del lungo viaggio. Tanto più se l’autore prescelto è vissuto qualche secolo addietro, perché nel tempo tendono a stratificarsi le pertinenze filologiche agli errori tramandati, le puntuali individuazioni alle semplici parentele, alle mere assonanze che hanno prodotto solo legami marginali tra stili differenti.
Proprio per disinnescare il potere fuorviante delle inesattezze deve entrare in campo il crivello che separa il grano dalla crusca.
La metafora del mugnaio torna utile, anche se mi è capitato, in qualche caso, di fare proprio della crusca l’oggetto della ricerca più interessante. Studiando in modo approfondito l’attività di un raffinato pittore come il Cavalier Perugino, al secolo Giandomenico Cerrini, che a Roma fu allievo di Domenichino, mi ritrovai a occuparmi di chi svolgeva il ruolo di intruso. In tempi diversi erano state attribuite al Cerrini alcune opere, che tra loro formavano un gruppo coeso, ma che si dimostravano del tutto incoerenti se rapportate alla maniera conosciuta e limpida del pittore.
Nel 2008 diedi alle stampe una singolare monografia dedicata a Ginevra Cantofoli[1], pittrice bolognese del Seicento rimasta per secoli all’ombra di un’altra geniale pittrice: Elisabetta Sirani. Il nome della Cantofoli sopravviveva infatti solo nelle poche righe che Carlo Cesare Malvasia le aveva concesso in appendice all’encomiastica biografia della sua prediletta eroina artistica.
Lo stimolo alle mie indagini traeva spunto iniziale proprio dalla crusca setacciata al corpus pittorico del Cerrini. Alcune misteriose sibille, ritratte a mezzo busto e sparse nei musei di mezzo mondo, dove ancora erano legate al nome di Giandomenico, si dimostrarono eseguite da un’altra mano, che intuii appartenere alla stessa autrice di un’Allegoria della Pittura conservata a Brera[2]. Proprio questa tela, in un vecchio inventario della costituenda Pinacoteca del Regno, veniva ricondotta alla misconosciuta Ginevra Cantofoli.
L’inaspettata scoperta portò, in un tempo relativamente breve, a raccogliere una quarantina di opere, comprese due pale d’altare documentate dalle fonti e a redigere un nutrito bottino di riscontri stilistici, mai totalmente sgravato da un carico di interrogativi, che costituiscono l’altro bagaglio necessario in un viaggio di prima esplorazione.
Durante l’inteso e immersivo lavoro di quella stagione, venni spinto a riflettere anche intorno a un secondo raggruppamento di dipinti, che io stesso avevo in precedenza contribuito a incrementare, giungendo poi all’idea che fosse frutto di una mano equidistante sia dal Cerrini che dalla Cantofoli.
Pure in quel caso si enumeravano varie mezze figure femminili, bellezze incantate e discinte, che d’abitudine recitavano gustose scenette dall’intento concettuale.
Confesso che in un primo momento e nelle mie cartelle di studio, avevo provvisoriamente chiamato “Pseudo Cerrini” l’anonimo autore a cui facevo ideale riferimento, anche se alla vigilia del volume sulla Cantofoli, quando per la prima volta mostrai alcuni esempi di questo secondo nucleo, optai per una titolazione più evocativa, quella di “Maestro delle Vanitas”. L’artista, in effetti, si distingueva per una spiccata propensione a mettere sul palco vere e proprie commedie allegoriche che giravano intorno al tema del Tempo e del suo dominio sull’esistenza umana.
Nel Seicento non è raro imbattersi in opere nelle quali trovano studiata disposizione certe figure retoriche che, in modo più o meno eloquente, ci illustrano antiche massime morali o lapidari enunciati di filosofia classica. Ma l’autore che stavo studiando, almeno nelle prime opere che avevo raccolto, sembrava avesse eletto quelle profane conversazioni a cifra distintiva del proprio racconto.
Mi ero fatto l’idea che dietro a quel genere di dipinti fosse nascosto un letterato, un pittore colto che disseminava alle sue spalle indizi enigmatici, criptiche metafore oscillanti tra la vita e la morte, tra la luce della bellezza e la sua ombra beffarda.
Se le giovani sibille di Ginevra Cantofoli si riunivano, in primo luogo, per via di un’espressione malinconica capace di disarmare, il nuovo pittore del Tempo si caratterizzava invece per uno sguardo stupito, come se le sue figure fossero colte di sorpresa, da una subitanea rivelazione.
Per molti anni ho collezionato questi indizi che, in un modo diretto o indiretto, mi riconducevano alla Roma di metà Seicento, pur sempre in quell’orbita di marcata influenza bolognese.
Avvertivo, in particolare, che la compostezza dei gesti, l’eloquio arcaico dei pensieri e la grazia del dettato pittorico, tradivano un’estrazione classicista, ricorrente tra gli allievi romani del felsineo Domenico Zampieri, detto il Domenichino.
Pur lontani dall’estremismo ieratico del Sassoferrato e separandosi anche dal tornito chiarore del Cavalier Perugino, le opere del Maestro della Vanitas non dovevano allontanarsi troppo da quel contesto narrativo. I dipinti raccolti affermano un interesse verso l’antico, non puramente per il rimando tematico, ma in virtù di un’atmosfera letteraria e di composizioni dal rimando cinquecentesco.
Le prime opere che pubblicai furono un’Allegoria del Tempo e della Vanità, conservata a Kassel (Staatliche Museum, inv. GK 596) (FOTO 1), assieme ad un pendant raffigurante il Tempo che svela la Verità[3] (FOTO 2); una Vanità allo specchio dei Musei Vaticani[4] (FOTO 3), spaventata da un amorino che le vola attorno con un teschio nelle mani; e un Tempo che incorona la Virtù di collezione privata (già Firenze, galleria Piacenti)[5] (FOTO 4) il più raffinato dipinto, in quell’esordio di studi.
Lo schema che vi ricorre indirizza verso un teatro da camera, dove lo spazio è accennato da paesaggi impostati come fondali di scena, che fanno immaginare delizie di giardini, loggiati con colonne e tendaggi d’alcova, mentre gli attori recitano sul proscenio, inquadrati da un taglio di sguardo che si ferma al ginocchio, lo stesso che ora il mondo del cinema chiama ‘piano americano’.
Domina, nelle espressioni, la coscienza della recita e, non di rado, i protagonisti si rivolgono al pubblico con gesti allusivi e segni d’intesa.
Tuttavia, più che essere un ‘teatro degli affetti’, come definii certi duetti pittorici, resi famosi da Guercino[6] e segnati da un forte trasporto sentimentale, ci troviamo di fronte a un ‘teatro dei concetti’. Non dunque duetti d’amore o struggimenti patetici, ma enunciati e moniti morali, antichi aforismi filosofici tradotti in una gradevole sostanza pittorica.
Il clima è quello del recitar cantato, secondo la cui formula gli intermezzi di un’opera lirica accompagnano lo spettatore tra un’aria e l’altra, fornendo elementi essenziali alla narrazione.
L’autore, nel fissare tali pregnanze tematiche, imbambola le giovani bellezze e acciglia i volti dei vecchi, si sofferma con puntiglio sugli oggetti e gli attributi utili al racconto, mentre procede corsivo nelle altre parti. Il dettato stilistico che tiene insieme il tutto è assimilabile a un barocco temperato, che miscela eleganze nostalgiche a panneggi che sono mossi da un vento poco più che teorico, simile a quello che anima i seguaci di Pietro da Cortona, anche se la grazia cercata è di natura più ingenua e semplice.
Le sibilline attrici che con pudore si prestano alle attenzioni del vetusto dio alato si schierano nel folto partito del classicismo romano, anche se quell’aulica aspirazione si traduce talvolta in una maniera smussata. Il rimando arcadico non assume mai toni austeri o forme tragiche, nemmeno quando la Morte è in scena, ma si assesta in una posizione mediana, senza abbandonare i panni della commedia e dell’intrattenimento cortese.
Il dato più evidente che accomuna queste opere può dirsi di natura morelliana: spesso gli occhi risultano sgranati e diretti all’osservatore e lo stupore che vi ricorre finisce per essere una nota d’intesa che si rinnova ad ogni incontro.
Così, quasi senza cercarli, ho aggiunto molti dipinti a quel cesto, che per strada assumeva una fisionomia sempre più nitida, con opere che definivano meglio la vocazione allegorica, come una Vanitas nella quale la Morte si presenta alle spalle di una giovane personificazione della Cupidigia, che conta i suoi averi[7] (FOTO 5). Anche due varianti dello stesso tema, con la Morte, il Tempo e la Bellezza[8] (FOTO 6 e 7), permettono di chiarire il repertorio dei soggetti e degli interpreti. La giovane discinta ha caratteri ormai noti e viene ritratta in un’alcova, mentre regge nelle mani un mazzo di fiori di campo, che ci rammenta la componente effimera della vita umana.
Talvolta sono entrati nella schiera anche nuclei interi, vere e proprie serie, come le quattro Allegorie del Museo Civico di Pesaro[9] (FOTO 8, 9, 10 e 11) o l’Allegoria del Canto dell’Accademia di San Luca[10] (FOTO 12), una Sibilla [11](FOTO 13), una bella Astrologia del museo di Monza[12] (FOTO 14) e tre Madonne col Bambino[13] (FOTO 15, 16 e 17) che hanno contribuito ad alzare i livelli stilistici del corpus.
Altre volte ho registrato parentele in dipinti più corsivi come in un Suicidio di Cleopatra (FOTO 18)[14], due Giuditte con la testa di Oloferne [15](FOTO 19 e 20), in una Santa Cecilia e l’angelo (FOTO 21)[16] o in una Santa Caterina[17] (FOTO 22) transitati sul mercato antiquario.
Ho cercato invece intensamente, a lume di logica, di scoprire chi stava dietro a quella mano, assestando vari tentativi entro il trafficato contesto della Roma di pieno secolo e di recente, riconoscendo la medesima impronta espressiva persino in alcune pale d’altare, ho sperato di poter ritrovare alcune tracce documentarie.
Ma pur non avendo ancora completato quelle ardue ricerche d’archivio, mi ha soccorso il fortunato ritrovamento di un’opera entro la grande banca dati del patrimonio artistico della Chiesa Cattolica.
I dipinti di soggetto sacro, individuati nel corso del lungo spoglio sulle circa trecentomila fotografie di pitture archiviate, hanno rilevato che l’autore ricevette commissioni fin dalle Marche e dalla Romagna, delineando un rosario di collocazioni lungo un asse viario che farebbe immaginare spostamenti e soggiorni di lavoro.
Una pala d’altare nel Cesenate[18] (FOTO 23), una a Fonte Avellana[19] (FOTO 24), due a Tolentino[20] (FOTO 25 e 26), un’altra nella diocesi di Ancona-Osimo[21] (FOTO 27) ed una nella diocesi di Palestrina (FOTO 28)[22], sommate a una pala di Gaeta[23] (FOTO 29) e un’ultima passata in asta di recente[24] (FOTO 30) e alle opere da cavalletto conservate a Pesaro,
tracciano quasi un percorso che, partendo da Roma, non sembra dissimile a quello che negli stessi anni venne tracciato da Gregorio Preti, fratello maggiore del ben più famoso Mattia o da Giacinto Brandi.
Ma consultando il patrimonio artistico delle chiese piemontesi mi sono imbattuto in una Samaritana al pozzo[25] (FOTO 31) che, seppur non ripetendo gli identici stilemi delle altre opere già raccolte, mi lasciò intuire una identità di mano. Finalmente quella piccola tela (cm. 51 x 61) riportava un’iscrizione utile alla causa: Greyter Germanus pictor Alessandri VII Romae Anno 1655[26].
Da quel momento la ricerca ha precisato la rotta e l’orizzonte, indirizzandosi verso ciò che già si sapeva intorno al nome di Lorenzo Greuter e alla sua illustre famiglia di artisti.
Lorenzo Greuter nacque a Roma il 17 aprile del 1620 da Virginia Bucci e Johann Friedrich Greuter, valente incisore tedesco operante nell’Urbe durante quella fervida stagione iconografica che supportò la cosiddetta ‘Festa Barocca’. Anche il nonno, Matteo, era virtuoso del bulino e famoso autore di globi terrestri, di vaste e complesse carte geografiche, dunque il giovane Lorenzo dovette crescere, attraverso questa prestigiosa genealogia, in un ambiente colto e raffinato, costantemente a contatto con argomenti di scienza e letteratura. Il padre, attivo per i Barberini, ma anche per quella vasta rete di eventi legati alle università romane, realizzò molte stampe dedicate a inscenazioni allegoriche che corredavano le innumerevoli tesi di laurea discusse nei collegi.
Di Lorenzo si conoscono alcuni affreschi, conservati nella chiesa romana di Santa Maria Porta Paradisi, aggregata all’ospedale di San Giacomo al Corso, raffiguranti la Nascita di Maria (FOTO 32) e la Presentazione della Vergine al Tempio[27] (FOTO 33), che offrono una preziosa conferma della coerenza di stile necessaria a cementare il gruppo di opere in cerca d’autore. Sono dipinti parietali che osservano la regola lineare e lo stile piano di Domenichino, senza enfasi e privati di ogni eccesso
Dalla voce riguardante Lorenzo Greuter nel dizionario biografico degli italiani, curata da Maria Barbara Guerrieri Borsoi, si evince qualche traccia della sua attività per il cardinale Antonio Barberini, il quale possedeva almeno una Madonna col Bambino e due angeli, non ancora identificata, mentre secondo Baudi di Vesme Lorenzo fece giungere a Casale Monferrato alcune opere delle quali la Samaritana al pozzo è testimonianza[28].
Aver raggiunto il nome di Lorenzo Greuter, dopo quelli provvisori di Pseudo Cerrini e di Maestro delle Vanitas, permette di comprendere meglio il contesto culturale nel quale presero forma le tante scene allegoriche raccolte.
Aver vissuto quotidianamente accanto, aver ricevuto indirizzo e formazione, da due eccellenti artisti come furono suo padre e suo nonno, significava per Lorenzo entrare in diretta conoscenza con i committenti più illustri e dotti che frequentavano la Roma della prima metà del Seicento. Il collegio dei gesuiti, vera fucina di sapere filosofico, si rivolgeva a figure come i Greuter per rappresentare in forma di immagine le più sottili sfumature del pensiero, non solo teologico, ma in relazione ad ogni disciplina scientifica.
Assieme ad Andrea Lilio, a Giovan Francesco Romanelli e ad altri artisti che fornivano gli originali disegnati, erano incisori come il Villamena o i Greuter, che venivano chiamati a tradurre in stampa i concetti necessari al frontespizio di un libro o alle vere e proprie messe in scena di quel teatro religioso che si sviluppò nell’Urbe .
Da quel fervido clima culturale, tra i più alti e aggiornati dell’epoca, Lorenzo dovette trarre linfa e argomenti per perfezionare il suo stile e l’espressione singolare che ne caratterizza le opere.
Dalla carrellata di dipinti che qui presento credo emerga riscontro di questa ricchezza culturale, unita ad una grazia formale che gli dovette procurare fortuna e consenso, malgrado la coperta del tempo abbia fino ad ora velato il suo nome.
Sono certo che nel prossimo orizzonte di studi questa figura riacquisterà il ruolo, non marginale, che dovette svolgere nella scena artistica romana di quell’esaltante periodo.
Sappiamo infine il giorno, il mese e l’anno della sua morte: 30 maggio 1668, visse dunque quarantotto anni e l’inventario dei suoi averi ci attesta un tenore di vita non modesto, oltreché documentare una quarantina di opere con soggetti sacri, ma anche con nature morte e gli immancabili temi allegorici che, come abbiamo visto, dovettero essere una sua precisa vocazione poetica.
ADDENDA
Il terreno telematico mi spinge a mettere in condivisione anche alcune ‘cartelle di lavoro’, segnalo così una coppia di dipinti conservati a Firenze nella prestigiosa Galleria Corsini, che raffigurano due episodi tratti dall’Orlando Furioso dell’Ariosto: Isabella e Rodomonte che lotta con l’Eremita, già attribuito a Matteo Rosselli e La fuga di Olimpia dopo l’uccisione di Arbante, già attribuito a Giovan Battista Vanni.
Entrambi sono riprodotti nel catalogo della mostra L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, a cura di E. Fumagalli, M. Rossi e R. Spinelli, Firenze 2001, p. 78, dove il Rodomonte in lotta viene tolto dal catalogo di Rosselli dopo il rinvenimento della sigla “LC”. Da tempo avevo queste opere nello stesso gruppo che ora ho ricondotto a Lorenzo Greuter e l’essere venuto a conoscenza del monogramma mi permette di proporre l’attribuzione anche di questa coppia.
Massimo PULINI dicembre 2017
NOTE