di Giorgia TERRINONI
Poco meno di un anno fa ho pubblicato un breve intervento dedicato a Cesare Tacchi. Il suo lavoro è stato oggetto di studio da parte mia. La sua persona mi è stata cara, nonostante la conoscenza poco approfondita. Entrambe le dimensioni emergevano dichiaratamente dal mio intervento, eppure esso è stato oggetto di una critica un poco inappropriata da parte della moglie dell’artista. Il ricordo di quell’attacco offensivo mi ha resa, per un certo tempo, restia a scrivere nuovamente su Tacchi benché sapessi che al Palazzo delle Esposizioni di Roma era in preparazione una sua retrospettiva.
Cesare Tacchi. Una retrospettiva, curata da Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi, ha aperto al pubblico lo scorso 7 febbraio. Io ho visitato la mostra con qualche giorno di anticipo e ora penso di non aver più voglia di nutrire alcun tipo di remora in merito a ciò che ho scritto e scriverò sull’artista.
L’esposizione prende le mosse dalla fine degli anni Cinquanta, quando un giovanissimo Cesare Tacchi si misura con i giganti dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto (in particolare, Burri, Fautrier e Kline). Nel 1959, alla galleria Appia Antica, espone insieme a Schifano e Mambor – amici di Cinecittà prima che compagni di ricerca – opere astratte, gestuali e materiche, memori del segno nero di Kline e della consistenza di Burri.
L’uscita dall’ombra dell’Informale è faticosa e avviene inizialmente attraverso immagini organizzate per piani geometrici, campiti con colori differenti. Tacchi, come gli altri che renderanno densi di significato i Sessanta italiani, inizia a far silenzio sulla tela, ad avvertire l’esigenza di una tabula rasa della pittura precedente. A questi disegni fanno seguito alcuni rilievi – le tecniche impiegate sono il collage e l’assemblage – dipinti con una vernice brillante, a metà strada tra il rigore neoplastico e l’estetica da reperto della metropoli contemporanea tipico dell’object trouvé. Negli anni immediatamente successivi le strade si ricongiungono dando corpo a un’identità artistica che si fa sempre più marcata. Fanno la loro apparizione opere con dettagli ingigantiti di macchine, taxi, tram e autobus.
Le immagini sono ottenute mediante l’uso di poche tinte traslucide stese in modo uniforme. Tacchi tratta le superfici in modo impersonale e tende a negare le tracce di un eventuale passaggio manuale. Talvolta, per lo più in prossimità dei bordi, compaiono lettere e numeri realizzati con lo stencil.
Tuttavia, pur nella cifra volutamente impersonale, questi lavori sono caratterizzati da un’estrema attenzione nei confronti della superficie. Questa è campita da pochi colori che hanno la qualità traslucida e allettante dello smalto. Una siffatta attenzione torna evidentemente nei successivi dipinti imbottiti (o tappezzerie), opere che portano a compimento il desiderio di una generazione artistica, quello di uscire dal quadro.
In mostra è esposto uno dei primi dipinti imbottiti, Poltrona gialla (1964); sulla stoffa Tacchi disegna una morbida poltrona dall’aspetto confortevole. L’imbottitura è enfatizzata dal segno nero. Dal bordo superiore destro, sbuca una mano che indica l’oggetto. Maurizio Fagiolo Dell’Arco ha suggerito la possibilità che questa mano segnaletica stia a indicare che la poltrona gialla non è veramente una poltrona: in effetti, nonostante l’imbottitura, si tratta pur sempre solo del disegno di una poltrona!
Le tappezzerie, dunque, trasformando la tela – in alcuni casi anche la cornice – in stoffa rigonfiata, manifestano il tentativo di uscire dal quadro inteso come superficie bidimensionale.
L’uscita dal quadro vanta alcuni importanti precedenti, quali i Sacchi e i Gobbi di Burri e, nel corso degli anni Sessanta, appartiene alla ricerca non solo di Tacchi, ma anche a quella di Tano Festa, Enrico Castellani, Agostino Bonalumi e Pino Pascali. Tuttavia, i dipinti imbottiti manifestano rispetto alle ricerche coeve due caratteristiche inedite: l’assimilazione della tela alla tappezzeria e l’idea di modellare l’immagine riproducendo con le sporgenze imbottite le sue naturali prominenze plastiche.
Accostando a Poltrona gialla le tappezzerie successive ci accorgiamo che è accaduto qualcosa. In un tempo breve, Tacchi passa dall’interesse per l’imbottitura a quello per la stoffa imbottita. Infatti, in Ritratto su tessuto stampato n.1, Primavera allegra o Renato e poltrona, compaiono tessuti con piccoli motivi, a fiori o geometrici. Talvolta sono impiegati solo per volti e ritratti, altre volte ricoprono l’intera superficie della tela. Ad esempio, in Renato e poltrona, la stessa stoffa con motivo a fiori è impiegata per lo sfondo e per la poltrona. Quest’ultima ospita, realizzata con smalto nero, l’amico Mambor. Nella parete-sfondo la stoffa è semplicemente incollata – la tridimensionalità è solo un’allusione – nella poltrona è invece stoffa imbottita, aggettante. In questo caso, è dunque la sola poltrona a uscire dal quadro.
Una situazione analoga si prospetta in Letto, opera in tre registri, quasi un trittico rovesciato. Nel registro superiore, la parete-sfondo e la testiera del letto hanno lo stesso motivo a fiori. Tra la parete e la testiera imbottita si frappone la cornice di quest’ultima, colorata di nero. Il nero evoca il colore spesso associato da Tacchi alla sagoma umana e viene da pensare che il letto, non la figura, sia il protagonista della composizione. Nei due registri inferiori, la situazione si complica. In quello centrale, una stoffa a bande verticali è impiegata per la parete-sfondo, per i cuscini e per i capelli della donna sdraiata. Nell’ultimo registro, la parete-sfondo, i cuscini e la donna sono fatti con la stessa stoffa a fiori. Nonostante l’espediente di tingere di colori diversi una stoffa con lo stesso motivo a fiori, l’opera mantiene una certa ambiguità.
Usando la stessa stoffa, ma trattandola diversamente – attraverso il colore e l’imbottitura – Tacchi è riuscito a condensare molteplici piani e tempi della rappresentazione. Un punto d’arrivo in questa direzione è costituito dalla Primavera allegra. Qui, addirittura, più che di un trittico si può parlare di un quadro a sportelli dove, con ancora maggiore ambiguità che nel Letto, il capolavoro botticelliano convive con immagini domestiche e pubblicitarie.
Lungi dall’essere immagini di un’Arcadia contemporanea, le tappezzerie sembrano allora porre questioni relative ai limiti della pittura, limiti che negli anni successivi si tradurranno nell’impossibilità – per l’artista – di continuare a fare la pittura.
Nel passaggio tra i dipinti imbottiti e la Poltrona inutile (1967) qualcosa va irrimediabilmente perduto. Le tappezzerie, infatti, sono animate da una sorta di poetica del relax, caratterizzate da un aspetto estremamente allettante, quasi contenessero un invito a entrare nel quadro. Suggeriscono una dimensione desiderabile, leggermente da sogno, tuttavia, accessibile, a portata di mano. Anche perché Tacchi fa uso di tessuti e immagini familiari, comuni stoffe fiorate e volti iconici, dai Fab Four a Marilyn. Nella Poltrona in vilpelle, oggetto fruibile e praticabile a tutti gli effetti, è scomparsa la componente connessa al desiderio e all’invito. Lo stesso Germano Celant, che ha voluto esporla alla mostra inaugurale dell’Arte Povera (Arte Povera e Im Spazio), la legge nei termini di una poetica dell’antirelax, un’immagine inquietante che stimola a diffidare degli oggetti di abbandono quotidiano.
Certo è che nella progressione dai rilievi agli oggetti in vilpelle, la ricerca di Tacchi possiede tutte le caratteristiche poveriste che informano l’arte della coda degli anni Sessanta. Pure la sua ricerca, più che verso l’Arte Povera, s’indirizza verso vie concettuali. C’è un apparente punto di non ritorno, rappresentato dalla Cancellazione d’artista. Quest’azione nasce in seno al Sessantotto e a quella celebre iniziativa artistica che è Il Teatro delle Mostre. Nel maggio del 1968, la galleria La Tartaruga diventa il teatro di una serie di epocali azioni artistiche. Tacchi si chiude all’interno di una nicchia dietro un vetro, che poi oscura lentamente, dipingendolo dall’interno con vernice bianca, fino a scomparire dalla vista degli spettatori.
Da questo momento, e per circa un decennio, il lavoro dell’artista si è avviato verso un decennio di negazione, della pittura e non solo. La Poltrona e la Cancellazione rendono definitiva la ricerca della tabula rasa: esse incarnano una cancellazione narcisistica di sé, delle immagini, delle funzioni e, in definitiva, del mondo. Questa, a mio avviso, è la sezione più interessante della mostra perché ha del quasi inedito: ovvero, propone il riallestimento e la documentazione di opere viste da pochi molto tempo fa. Molte di queste opere-azioni – alcune delle quali mai realizzate – hanno a che fare con impossibilità paradossali e, in una dimensione siffatta, discendono direttamente dalla Poltrona. Si pensi a Strumento (1972) che non suona perché a mancare è proprio lo strumento. Oppure ai quattro libri extraverbali dello stesso anno (Libro atmosferico; Favola; Io sono un poeta; Il segreto della vita), privi sia di testi sia d’immagini. Impossibilità, paradosso, afasia, nullificazione del linguaggio. È possibile che a Tacchi sia stato necessario questo per poter riguadagnare titolarità nell’uso della mano e della parola.
Della pittura (1980) è uno dei primi dipinti che appartengono a questa fase di riappropriazione: due dita impugnano una tavolozza; la tavolozza non c’è e tutto è ancora nero.
Nello stesso anno l’artista espone a La Salita l’enigmatico Sécretaire. Il quadro articolato in tre piani distinti, ma raccordati da due tronchi d’albero. L’orizzonte corrisponde alla trasposizione pittorica di una fotografia (Il testimone) che ritrae l’artista e un amico di spalle, a Villa Pamphili. Sagome lontane, incorniciate da una fitta quinta arborea, esse guardano a qualcosa d’ignoto. Al centro, su un terreno artificiosamente lindo, giacciono alcuni oggetti: una squadra, una sfera, un uovo calcificato e la parola sécretaire, dipinta in corsivo minuscolo. In primo piano, infine, un tappeto di fogli immacolati.
Sécretaire è il percorso di riappropriazione e la riappropriazione stessa. Quel che è stato negato, che è inafferrabile, inizia di nuovo a essere pensabile, praticabile e, fors’anche, comunicabile…
E poi? A questo punto la mostra subisce una fin troppo evidente battuta d’arresto, tanto che – a posteriori – viene difficile chiamarla retrospettiva. Si trascina avanti con alcune opere che amplificano, con una buona dose di ossessione, quel che c’era già in Della Pittura e Sécretaire (foglie e fogli, parole, scrittura, immagini). Poi più niente! Perché mancano gli ultimi vent’anni del lavoro di Cesare Tacchi, anni di pittura ma anche di scrittura e insegnamento? E, volendo evidenziare un’altra falla di cui si macchia una mostra comunque buona, troppo è affidato a una conoscenza pregressa dell’artista e allo studio dei testi e dei documenti in catalogo. Allora, mi viene da chiedermi: a chi realmente è destinata questa mostra?
Di nuovo, e me ne rammarico, il percorso di Cesare Tacchi resta indagato, e forse indagabile, solo fino a un certo punto!
Giorgia TERRINONI Roma febbraio 2018