di Oleg VOSKOBOYNIKOV
Un ritratto ad occhi chiusi e l’autunno del Medioevo
Avremo sicuramente ragione ad annettere la massima importanza ai primi busti scolpiti a Firenze verso la metà del Quattrocento, sia per la storia del ritratto europeo, sia per quella dell’individuo, per il processo della civiltà.
Cinquant’anni fa, il mio compianto amico Irving Lavin sottolineava il carattere peculiare di questo tipo di ritratto nel fatto di essere il busto come tagliato a metà in mezzo al petto e alle spalle. Questo lo differenziava dal ritratto romano, ma lo avvicinava al reliquario cristiano. Quando tale ritratto a scala naturale si metteva senza nessun piedistallo su un mobile o su una mensola al di sopra di un portone, questa messa in scena conferiva al rappresentato non solo la ricercata dignità, ma anche una drammatica presenza, qui e adesso, quasi carnale, del personaggio (fig. 1).
Lo studio naturalistico, fisiognomico e psicologico affidato allo scalpello di un Laurana, un Rossellino o un Desiderio da Settignano deve essere analizzato non come fine in sè, ma in uno stretto legame con questa scenografia, voluta dai committenti.
Con tutte le varianti che conosciamo, questi busti condividono però un tratto essenziale: hanno sempre occhi aperti. Questa apertura di occhi si spiega evidentemente con il fatto che il committente vivo voleva mostrare la sua presenza viva qui, nello spazio familiare o pubblico, anche dopo il suo eventuale trapasso. Lo sguardo è un «gesto» di partecipazione, anche se passa sopra, è diretto nell’aldilà o è persino di sbieco, come nel famoso ritratto a sorriso di Antonello da Messina nel museo Mandralisca di Cefalù. Gli occhi furono sempre percepiti come specchio dell’anima, cioè della vita interna dell’uomo, capaci non solo di guardare ed assorbire l’informazione visiva, ma anche trasmettere la volontà dell’anima, gettare lo sguardo nel senso stretto del termine. L’Italia umanistica seguì questa tradizione intellettuale e scientifica millenaria. Ora, un busto scolpito in quegli stessi anni, un vero capolavoro dell’arte renana, dovuto a Nicola Gerhaert di Leida, mi ha sempre stupito perché propone l’immagine di un uomo che non guarda. E’ questo busto che ora mi tocca descrivere e, nella misura del possibile, interpretare.
Strasburgo del 1460 non è Firenze medicea, ma è sicuramente uno dei poli importantissimi per artisti di spicco, come lo è anche per il commercio internazionale. La sua cattedrale fu per secoli un’officina sperimentale non solo in architettura, ma anche in scultura. Il contiguo Museo dell’opera ne fa una cronaca tanto dettagliata quanto unica per qualità e diversità delle opere. Il visitatore si rende conto che questa arte della cattedrale si sviluppò in dialogo con i bisogni della ricca borghesia, premurosa nel dimostrare la sua religiosità e la sua autocoscienza sociale. Una delle sale del museo è dedicata appunto ai busti, in legno e in pietra, dovuti a tre generazioni di scultori.
Siamo in presenza di un genere particolare, di cui sono tracce ben conservate, ma poche rispetto alla produzione dell’epoca.
Venivano esposti sulle facciate delle case, normalmente occhi spalancati sui passanti, con espressioni diverse che andavano dall’amicizia alla condiscendenza e al disprezzo. Le mani, rarissime in Italia, sempre presenti qui, enfatizzavano la forza dello sguardo e l’espessività della faccia. Spesso collocati nelle finestre del primo piano, questi personaggi anonimi si appoggiano e ci guardano dall’alto, ma senza spocchia feudale, invitano al dialogo fra i pari (fig. 2).
In mezzo alla sala è esposto un busto di particolare raffinatezza e di forza quasi magnetica (fig. 3). Mi ricordo di esserne rimasto colpito a primo sguardo, quando ci venni tanti anni fa, da studente. E questa mia reazione di allora, diverse volte poi riprovata, si spiega dalle caratteristiche dell’opera.
L’uomo di età media, vestito di un giubbotto rozzo con la sciarpa copricapo, appoggia il mento sulla mano destra. Il braccio destro appoggia sul braccio sinistro, donde il nome francese di uso: buste de l’homme accoudé. Questo braccio, a sua volta, tiene un oggetto di cui non rimane che una impugnatura. Se appartenesse ad un compasso, potrebbe essere l’attributo di un architetto, come nel presunto autoritratto di Anton Pilgram nella cattedrale di Vienna (verso 1500). Se invece fosse di una sfera armillare sarebbe da interpretare come l’indicazione di Tolomeo o di un astronomo: se ne conosce una figura simile nel coro ligneo della cattedrale di Ulm, attorno al 1470. Stiamo comunque nell’ambito delle congetture più o meno felici. Lo spettatore degli anni 1460 avrebbe saputo identificare meglio il personaggio, di cui non sappiamo nè il nome nè il come, e nemmeno la collocazione originale dell’opera. Rimane il fatto che, avvicinati, ci rendiamo conto che non guarda nessuno, se non dentro se stesso, non invita a parlare, non gesticola.
La testa è pronunciatamente chinata, pesa sulle dita disegnate a ventaglio sulla guancia. Questa posa era ben conosciuta sin dall’antichità come una variante del lutto malinconico. Siccome in quegli anni si sviluppava già l’idea dell’artista figlio di Saturno, quindi malinconico «per professione», è da qualche anno corrente la lettura «malinconica» anche di questo ritratto, una lettura sostenuta da un’importante mostra parigina dedicata alla memoria di Raimund Klibansky (2005) e nella recentissima mostra sul tardo gotico a Berlino. E se si tratta di un «tipo» malinconico, è logico supporre che sia un autoritratto, come arguisce, con dovuta cautela, Roland Recht, conservatore per anni di questo museo e autore della monografia più importante su Nicola di Leida.
Aggiungerei, con la stessa cautela, che in questa lettura anche Melencolia I è un «autoritratto» di Dürer. Appunto, non è molto difficile immaginarci un artista assorbito nel suo mutuo dialogo con la Musa, avvolto nei pensieri e nelle immagini. Un Erasmo da Rotterdam di profilo, con le mani chiuse, attento all’atto di scrivere e piuttosto «unfriendly» verso l’intruso spettatore, con occhi – importante – celati: insomma un ritratto quasi pubblicitario, il suo bigliettino da visita (fig. 4).
Intendiamoci: nel pieno Rinascimento, uno scrittore, pretendente alla leadership intellettuale a livello europeo, poteva accettare un suo ritratto senza sguardo. Lo dimostra anche uno schizzo a carboncino del 1520. Questo perché aveva anche lui bisogno della firma di un celebre incisore, come le nostre stars hanno bisogno di celebri fotografi. Anni dopo Erasmo, che mandava i suoi ritratti ai tanti suoi ammiratori, fu insoddisfatto dall’incisione per la sua età troppo evidenziata, non dall’impostazione della figura.
Ma torniamo nel 1463. Nicola di Leida avrebbe potuto ritrarre se stesso, ma anche qualcuno della sua cerchia, un collega. E lo fece con una calda intimità, con un lirismo tale da trovare pochi analoghi nella produzione settentrionale del tempo e solo pochi in Italia. Ed è un argomento in più per pensare ad un autoritratto o forse «criptoautoritratto». Solo che … questa intimità, un grande maestro del 1460, la poteva adoperare soltanto se pensava a se stesso? Ricordiamo che la famosa frase di Leonardo, “ogni pittore dipinge sé “, non era ancora stata formulata.
Il busto è in materiale quasi ignobile, l’arenaria rosa locale, che a Strasburgo copre un pò tutto. La politura, a differenza del marmo e del calcare, gli aggiunge poco, anche se la pietra è docile. Questo spiega una capigliatura piuttosto semplificata, ma soggestiva. Il retro del busto è lasciato quasi rozzo: lo si guardava da sotto in su, ma a distanza ridotta, perché la superficie della pelle è resa con massima cura. E’ senz’altro la mimica, ricca e laconica allo stesso tempo, che ha fatto il successo dell’opera in questi ultimi anni (fig. 5). La faccia è pensierosa, ad occhi chiusi o quasi, le sopraciglia, appena visibili, si sollevano ad arco sottile, ma pronunciato intorno all’apice del naso.
Questa formula iconografica da secoli dimostrava una tensione interna, che si trattasse di sofferenza, paura, lutto o penitenza. Però qui la formula patetica si è trasformata in una riflessione sottilissima di uno stato d’animo, di una concentrazione psicologica, non di una esaltazione religiosa o di un contemptus mundi da esibire. E questo cambiamento drammatico in una sola opera non è una semplificazione.
Il busto di Strasburgo è sicuramente un’opera laica. Ma Nicola di Leida fu apprezzatissimo anche per le statue e statuette religiose, monumenti funebri. Sapeva fare opere per così dire trionfali. Ma sapeva esser psicologo anche nel motivo così corrente come il Crocifisso: ne è la prova il volto di Cristo sulla croce monumentale di Baden-Baden, non lontano da Strasburgo, una volta collocata al cimitero. Qui lo scalpellino gli servì per ritrovare l’impossibile equilibrio fra la terribile sofferenza (cara alla religiosità dei committenti, all’occhio «tardogotico» pronto ad imitare Cristo in tutte le sue passioni) e l’inumana bellezza del Dio fatto uomo, vincitore della morte. Il successo è anche qui assoluto (fig. 6).
Ora prestiamo attenzione alla complicata posa della figura intera del nostro homme accoudé, resa con rara maestria (vedi fig. 3). L’incrocio delle braccia fa del busto una molla che nasconde in se un’energia dormente, potenziale, un’energia che indoviniamo nella faccia e nelle mani. L’uomo non si appoggia su un parapetto o un davanzale, ma sulla propria mano armata di strumento di lavoro o di studio. Questo complica le cose ancor di più, perché obbliga il personaggio a ritenere il difficile equilibrio. La fragile complessione del corpo rispecchia la fragilità della faccia, che non sapremmo chiamare «bella» malgrado la ricchezza espressiva, anche se il suo «nasone» fu probabilmente di moda e si ritrova spesso orgogliosamente esposto nella pittura dell’epoca. Questo lavoro sul busto/molla è tutt’altro che banale ed è anche rischioso, perché, per ragioni fisiche e visuali, una figura così costruita, oscillante, perde tutta la dignità. Ma questa perdita è pienamente ripagata da una sorprendente dominazione sullo spazio che gli sta attorno, una dominazione che nessuna fotografia sa rendere e che è espressa nell’inedita ricerca anatomica. E’ questo l’effetto che avevo subíto vent’anni fa e che doveva impressionare anche i contemporanei.
Per la precisione anatomica, il busto di Strasburgo non ha niente da invidiare ai migliori ritratti scultorei del Rinascimento e forse neppure a quelli del Bernini, del quale ammiriamo – a buona ragione – la morbidezza tangibile della pelle (che si tratti di Costanza Bonarelli o di Dafne). Anche nel nostro ritratto sub judice la pelle pulsa, non però nel marmo polito, ma nella pietra granulosa, quasi povera e comunque «democratica». La mano, che copre praticamente tutta la parte bassa della faccia, rende la composizione ancora più rischiosa: il «ritratto» di sant’Agostino sul pulpito della cattedrale di Vienna (verso 1500), dovuto a Anton Pilgram, che usa lo stesso tour de force, dà l’impressione di una prova di maestria.
Nicola di Leida, scultore e psicologo, dimostra un eccezionale senso di equilibrio, perché il gesto rimane eloquente e la faccia aperta. La composizione drammatica delle dita, delle labbra strettamente chiuse, a sagoma delicata, hanno paradossalmente aperto la via verso l’anima del personaggio, quell’homo interior ricercato dai moralisti medievali, senza rivelarne la vita segreta. Il ritmo delle dita ripete il gioco di luci e ombre sulle pieghe. Lo possiamo forse definire «tardogotico», ma il termine non spiegherà un granché, perché l’effetto introspettico da questo ritmo suggerito va ben aldilà delle etichette consuete.
Il modus psicologico del busto di Strasburgo, che ho cercato di descrivere in brevi parole, è troppo personale per poterlo attribuire a tale o talaltra corrente, scuola, stile o anche epoca. E’ un’eco lontana del «Rinascimento»? Un capolavoro di quell’ «Autunno del Medioevo» orchestrato fra le Fiandre e la val di Rodano sotto l’egide degli ultimi duchi di Borgogna?
Nicola fece scuola sulle rive del Reno, fu seguito da generazioni, l’imperatore Federico III lo volle alla sua corte, e attorno al 1470 lo scultore ne realizzò la maestosa tomba per la cattedrale di Vienna. Alcuni suoi coetanei e seguaci furono buoni fisionomisti, bravissimi nell’abbinare forme e metodi. Nella stessa sala troveremo repliche dei motivi esplorati da Nicola. Le facce di altri busti rispondevano sicuramente alla ormai banale volontà dei committenti, alsaziani o vicini, di essere presenti, in carne e ossa, qui e adesso, in mezzo alla città o alla casa sua. Un pò come i fiorentini. Ma solo un grande maestro seppe imprimere sulla superficie della pietra il proprio sguardo nell’abisso dell’anima umana. E forse nella sua anima propria.
Oleg VOSKOBOYNIKOV (Higher School of Economics, Mosca / Sorbonne Université Abu Dhabi) 22 Dicembre 2022