di Maria BUSACCA
Una grande tela centinata raffigurante il Volto santo di Lucca (fig. 1) occupa parte della parete destra nella sagrestia della chiesa di Santa Maria dell’Aiuto di Catania.
Proviene dalla chiesa di San Giacomo de Casalenis che sorgeva nel piano della Misericordia, chiesa delle confraternite riedificata dopo il terremoto la cui strutture sono ancora visibili perché si affacciano sulla piazzetta di S.M. dell’Aiuto – anticamente chiesa di San Pietro – (Longhitano, 2017, pp. 324-325). Le poche notizie sul dipinto riportate da Giuseppe Rasà Napoli riguardano solo la sua collocazione: stava sull’altare di sinistra, mentre su quello di destra era un S. Giacomo di Bernardino Nigro, essendo la chiesa sede della Confraternita di San Giacomo maggiore, Ordine della spada (G. Rasà Napoli, 1900, p. 330); nel 1468 era una domus disciplinae, ossia sede delle confraternite di disciplinati, penitenti che espiavano i loro peccati percuotendosi con la disciplina, o flagello1. Nessuna notizia certa finora è giunta sulla committenza o sulla datazione del dipinto, il cui soggetto è quantomeno atipico nella cultura figurativa siciliana perché strettamente legato all’ambito toscano e precisamente a quello dei setaioli lucchesi, di cui divenne simbolo identitario per le comunità all’estero.
Il modello all’origine della devozione e tradizione è un crocifisso ligneo conservato nella chiesa cattedrale di San Martino a Lucca (fig. 2), recentemente datato tra l’ VIII e il IX secolo, che si impone quindi come la scultura lignea monumentale più antica dell’Occidente; la croce è realizzata in castagno per l’asse verticale e in cedro, importato dal Medio Oriente, per il braccio orizzontale – in Europa il cedro sarà presente solo dal XVI secolo -.
L’ utilizzo del legno di cedro per la croce del Volto Santo voleva probabilmente confermare la provenienza dalla Terra Santa di quello che secondo la Leggenda leobiniana era ritenuto il vero ritratto di Gesù scolpito dal discepolo Nicodemo, che ne aveva calato dalla croce il corpo esanime; il crocifisso era poi giunto miracolosamente dal mare e dopo alterne vicende era stato portato a Lucca e altrettanto miracolosamente apparso nel duomo di San Martino, dove ancora oggi è esposto e si porta in processione paludato, come appare nelle riproduzioni 2.
La statua era tra le più venerate nell’Europa tardo-medievale e la posizione di Lucca lungo le vie di pellegrinaggio ne favorì il successo, tanto che si vide un moltiplicarsi di riproduzioni in stendardi processionali, in dipinti o in affreschi, la cui presenza però si attesta soprattutto nel centro Italia. La leggenda che la dichiara acheropita ha fatto sì che venisse considerata un unicum ma in realtà rientra in una classe di crocifissi oggi sparsi in tutta Europa 3.
A Catania la chiesa di San Giacomo che ospitava il dipinto in oggetto si trova lungo la via Consolato della seta, dove dovevano aver sede il Consolato e anche i locali di produzione della seta e i magazzini; istituito il 30 maggio 1680, fu reso esecutivo il 2 giugno dello stesso anno, i 4 consoli scelti esclusivamente fra i cittadini catanesi venivano eletti proprio il 14 settembre, festa della Santa Croce (Petino, 1942, p. 15; Berengo, 1965, p. 360), a riprova della grande devozione che dalla Toscana era giunta in Sicilia, e per prima nella rivale città di Messina. Ivi il più antico Consolato della Seta, fondato nel 1520 per volontà del viceré di Sicilia Ettore Pignatelli con approvazione dell’imperatore Carlo V, fu ospitato nella chiesa di San Michele della Confraternita dei Tessitori di drappi di seta e in seguito dai padri Carmelitani che eressero nel 1591 un primo oratorio dedicato alla Santa Croce divenuto nel 1593 vera e propria chiesa con accanto magazzini e depositi, poi denominata anche del Volto Santo per l’arrivo di mercanti lucchesi che ne introdussero la devozione.
Ospitava il dipinto del Volto Santo opera secentesca di Giovanni Simone Comandè, pittore messinese di formazione veneta, che lo realizzò certamente entro il primo trentennio del XVII secolo, essendo riferita al 1630 circa anno della sua morte 4. Le vicende del dipinto messinese seguono le peripezie dei ripetuti trasferimenti della confraternita: intorno al 1695 la chiesa ed i locali annessi furono requisiti dal viceré duca d’Uzeda e la confraternita del Consolato della Seta riedificò una nuova chiesa finita già il 1 aprile del 1699 e dedicata al Santo Volto di Cristo sotto il titolo della Santa Croce, poi demolita nel 1718, fino all’ultimo trasferimento documentato nella chiesa della Madonna del Soccorso, crollata nel 1783 a causa del terremoto, con la conseguente perdita del venerato dipinto.
Se fosse stato possibile effettuare un confronto con l’opera di Comandè, si sarebbero potute verificare de visu le similitudini se non addirittura la derivazione dal modello iconografico di riferimento, pertanto in questa sede, incrociando le informazioni deducibili dal contesto con l’analisi stilistica, si tenterà di risalire al periodo di realizzazione ed alla probabile committenza del dipinto oggetto di questo contributo, del quale finora da letteratura non si sono rintracciati né ambito artistico né certa attribuzione.
A tal riguardo, purtroppo poco leggibile a causa dell’attuale stato di conservazione dell’opera, in basso a destra entro un cartiglio è presente uno stemma nobiliare preceduto sul lato sinistro dalle prime due cifre della data ivi appostavi , 17, mentre le altre due dovevano essere poste alla destra dello scudo, ormai del tutto perdute a causa delle lacune nella tela; la datazione va riferita dunque al XVIII secolo, ma non altrimenti chiara risulta l’attribuzione dello stemma con cimiero piumato in cui si intuisce una figura interpretabile come una cometa di rosso ondeggiante o una branca di leone di rosso (fig. 3).
Nel primo caso potrebbe riferirsi ai Rossi, o Rosso, famiglia di origini toscane iscritta alla mastra nobile della città di Catania, anche se nello stemma familiare la stella caudata è d’oro, nella variante De Rossi nel cui stemma è una fiammella di rosso, ma senza coda; nel secondo caso potrebbe riferirsi agli Speciale (fig.4) famiglia di origini pisane, presenti in Sicilia nella mastra nobile di Palermo nella persona del Cavalier Don Silvio Speciale di Sant’Andrea e nella mastra nobile di Nicosia nelle persone del Barone e Regio Secreto Don Gabriele e i fratelli Don Francesco e Giuseppe Speciale e Fontana, nonché con i fratelli Giuseppe e Giovanni Speciale Basilotta e i fratelli Carlo, Forse, Michele, Antonino e Franco Speciale e Basilotta (Spreti, 1981, pp. 407-408; Spadaro di Passanitello, p.42, p. 283).
A causa del deterioramento della tela non è possibile verificare la presenza della stella in capo, e della banda verde, tuttavia la possibilità che si riferisca alla famiglia Speciale è molto alta, viste le alte cariche ricoperte dai membri di questa nobile famiglia.
Altra possibilità è che si riferisca alla famiglia del Sera o Sera, il cui stemma è d’oro, alla branca di leone posta in banda di rosso, anche se di questa famiglia non si hanno notizie nel catanese.
La derivazione iconografica potrebbe essere giunta tramite un libro a stampa sulla storia del Volto santo, come ne circolavano in tutta Europa 5, o un’incisione, magari non di ottima qualità, dell’affresco del 1508/09 eseguito dal pittore bolognese Amico Aspertini (Bologna 1474 ca., 1552) a San Frediano, che ritrae la processione della statua vestita per l’occasione con la gonna damascata recante una larga fascia dorata istoriata e i manipoli ricamati (fig. 5). Altro possibile riferimento iconografico per la produzione di raffigurazioni del Volto Santo potrebbe essere stata la tavola dipinta del secondo decennio del XVI secolo (fig. 6), attualmente a Budapest perché acquistata nel 1893 dal Museo di Belle Arti, unanimamente riferita a Piero di Cosimo per il minuzioso realismo dei particolari della decorazione della veste, riconducibile alla committenza dei Tessitori di Lucca6.
Mentre sia il tipo di San Frediano che il nostro presentano il volto leggermente flesso verso destra, come nella statua prototipo, il Cristo di Budapest è raffigurato frontalmente; in tutti i casi il crocifisso è del tipo a quattro chiodi, cioè con entrambi i piedi trafitti, e con gli occhi aperti, vigile e ieratico, Christus triumphans – in ambito siciliano un altro esempio di Cristo vestito, il secentesco Cristo in Gonnella nella chiesa di San Giovanni evangelista di Scicli (fig. 7), in provincia di Ragusa, replicando la statua del Cristo di Burgos, riporta invece i tratti duri del volto emaciato del Christus patiens spirante, con gli occhi semiaperti -. La croce è del tipo commisso, cioè con il braccio orizzontale molto lungo, e circondata da un nimbo o cerchio spezzato terminante con un giglio: simbolo dell’omega con terminazioni che riprendono la croce di San Tommaso 7.
Il Cristo catanese (vedi Fig. 1) è raffigurato con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, gli occhi fissi e il volto quasi sorridente, affatto sofferente quindi già in gloria, trionfante; le fattezze sono ingentilite rispetto ai modelli di riferimento, secondo i modi della pittura devozionale siciliana, morbido l’incarnato e frontale l’illuminazione.
Stilisticamente proprio le sembianze addolcite del Volto divergono totalmente dalla tradizione toscana poi perpetrata nelle stampe devozionali italiane ed europee, restringendo l’ambito di esecuzione al territorio siciliano della controriforma; i tratti sono distesi, il volto barbato ben ombreggiato, quasi femmineo, le mani ed i piedi dalle dita elegantemente allungate, affatto barocca l’impostazione riferibile quindi alla pittura primo secentesca, ancora rigida e lineare, il che potrebbe far ipotizzare si tratti di una copia del perduto dipinto del messinese Comandè. La tunica manicata è sui toni del marrone, ma lo stato attuale della tela impedisce una corretta valutazione delle tinte reali perché soffocate da uno strato di polvere causa di evidente inscurimento, presenta una damascatura diffusa con girali vegetali e foglie d’acanto, una croce al petto, stretta cintura in vita e una larga fascia centrale in oro, che continua nel bordo inferiore, istoriata con i ritratti a mezzo busto dei dodici apostoli, anche se quelli visibili sono undici. Cinto da corona imperiale, porta le stimmate, il piede destro sospeso sopra un calice allusione al fatto miracoloso origine dell’iconografia del Volto Santo in pittura e scultura.
Un giullare povero ma devoto, si recò a pregare offrendo in segno di devozione le sue evoluzioni giocose, attirandosi però l’ira di prelati e devoti. Il Volto Santo, adornato di ori lasciò cadere la ciabatta destra per ricompensare la purezza d’animo del giullare, ma quello fu acciuffato affinché restituisse il maltolto e incarcerato perché non creduto. Tuttavia fu impossibile ricollocare la ciabatta al suo posto perché il piede del Cristo la rifiutava ed il poveruomo perciò fu finalmente rilasciato e ripagato con una lauta ricompensa a patto che rinunciasse alla santa ciabatta, che da allora in poi viene ritratta nella rappresentazione del Volto Santo sorretta da un calice dorato.
Non tutti i particolari del nostro dipinto sono coincidenti col racconto: non c’è traccia della ciabatta, entrambi i piedi chiodati calzano i sandali alla romana arricchiti con pietre decorative (fig. 8) ed il nimbo che nella tradizione iconografica italiana del Volto santo è spezzato, nel nostro è uno spesso cerchio concluso.
Il piede destro poggia su di un calice di foggia secentesca, dalla coppa poco svasata con figure o decorazioni nel sottocoppa, il nodo di raccordo a globo con scanalature ed il piede che pare circolare. Proprio la mancanza di riscontro de visu con la statua del Volto Santo di Lucca può essere all’origine delle divergenze da quello, i calzari, la veste, il cerchio concluso del nimbo, le raffigurazioni lungo le fasce della veste, la posa e la dolcezza nello sguardo.
Ulteriori elementi indicativi per la collocazione temporale del dipinto sono i due stemmi che compaiono ai lati del Cristo, a sinistra lo stemma della regia città di Palermo con l’arma di Carlo II (1668-1700)8 (fig. 9) identificata per la mancanza dell’insegna del Portogallo, e a destra quello della città di Catania.
In cattedrale nella trabeazione del monumento dedicato a sant’Agata risalente alla fine del XV secolo, retto da coppia di puttini è rappresentato due volte in maniera speculare lo stemma della città di Catania con scudo francese, pieno d’argento con in carico elefante di rosso con la proboscide bassa sormontato dalla lettera A (fig. 10).
Nel nostro dipinto lo Stemma della città, scudo francese pieno d’argento con in carico elefante di rosso con la proboscide alzata sormontato dalla lettera A, è coronato e attorniato da volute (fig. 11), come nella punzonatura delle argenterie a partire dalla metà del XVII secolo, e la corona al sommo è raffigurata a cinque punte così come avverrà anche nella punzonatura degli argenti fino alla metà circa del XVIII secolo, poi subentreranno le palmette attorno allo scudo. Pertanto entrambi gli stemmi civici, della Capitale sede del Regno e della sede del Consolato, risalgono ad un periodo compreso fra il 1668 ed il 1700, durata del regno di Carlo II in Sicilia, il che ci permette di riferire la possibile realizzazione o ultimazione del dipinto al 1700, supponendo che le ultime due cifre ormai perdute fossero due zeri, e rientrando così fra i due estremi cronologici del Regno; probabilmente copia del più famoso dipinto messinese, potrebbe essere stato commissionato ad un pittore locale dai Rosso, Speciale o Del Sera per omaggiare i membri del Consolato della Seta catanese qualche tempo dopo la sua fondazione.
Tuttavia potrebbe essere presa in considerazione anche una doppia datazione, riferendo alla seconda metà del seicento la realizzazione della copia in coincidenza con l’istituzione del Consolato catanese nel 1680 – periodo compreso fra gli estremi cronologici dell’arma di Carlo II -, e considerare successiva l’apposizione dello stemma nobiliare nei primi anni del XVIII secolo. In entrambi i casi si ottemperava alla tradizione dei setaioli approdata a Messina e a Catania da Lucca, apponendo lo stemma nobiliare assieme ai due cittadini; arte, devozione e potere accomunati nel nome del Volto Santo giunto da lontano.
In origine la tela doveva avere dimensioni maggiori perché pare risicata nella parte sommitale della centina che a malapena arriva a contenere le estremità delle mani, e lungo tutte le fasce laterali ed inferiore è palese una ripiegatura dovuta alla precedente incorniciatura, che ha determinato la caduta di pellicola pittorica; in basso, il calice sembra privo di superficie di appoggio e anche lo stemma di Palermo è in parte tagliato sulla sinistra, per l’adattamento nella più tarda cornice centinata che imita la radica di noce: solo una accurata pulitura potrà restituire la firma dell’autore, qualora dovesse trovarsi nel bordo inferiore ripiegato e in parte imbarcato, e permettere la lettura corretta dello stemma nobiliare, confermando, si spera, o smentendo le ipotesi fin qui esposte sull’inedito dipinto, che vogliono essere un punto di partenza per ulteriori approfondimenti.
Maria BUSACCA Catania 25 Febbraio 2024
Note