di Stefania PASTI Storica dell’Arte
La storia dell’arte dovrebbe essere soprattutto storia di ricerca e di esplorazione, esplorazione anche di archivi e documenti che consentano di ricostruire storie dimenticate, arrivando, come racconta la fine di questo articolo, a scoperte fondamentali
“Egli fece fare a Gian Barile, in tutte le porte e palchi di legname, cose d’intaglio lavorate e finite con bella grazia”
Con queste parole Giorgio Vasari (Vita di Raffaello, ed. Bettarini-Barocchi, IV, p. 198) ci presenta Giovanni Barili, ignoto ai più, e invece artista raffinatissimo, capace di trasformare la viva materia del legno in magnifiche opere d’arte, da squisiti intagli fino al formato monumentale del modello dell’erigenda basilica di San Pietro.
A Raffaello, come ebbi occasione di scrivere in questo stesso giornale, (Cfr. https://www.aboutartonline.com/raffaello-e-lopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/ ) il solo ruolo di pittore, per quanto il più eccelso, non bastava. Fin dai suoi esordi romani nella Stanza della Segnatura, la sua visione si era allargata verso ben più ampi orizzonti, volti alla progettazione di interi complessi monumentali, da lui ideati e da lui diretti nella loro esecuzione. Gli fu quindi necessario essere affiancato e seguito dai migliori esponenti di ognuna delle arti che dovevano concorrere alla realizzazione di questi vasti progetti.
Uno dei più fedeli fra questo stuolo di collaboratori fu Giovanni Barili, che operò senza soste per il maestro fino alla sua prematura scomparsa, e ancora continuò a lavorare alle Logge sotto Clemente VII.
Chi era dunque Giovanni Barili?
Era un senese, nipote di un altro provetto intagliatore e scultore in legno, Antonio, a sua volta formatosi all’ombra di due grandi, Francesco di Giorgio Martini e il Vecchietta.
Raffaello dovette incontrare entrambi, zio e nipote quando fu a Siena nel 1502 per assistere Pinturicchio negli affreschi della Biblioteca Piccolomini, proprio mentre Antonio stava terminando l’intaglio degli stalli dell’adiacente Cappella di San Giovanni Battista. Il non ancora ventenne maestro dovette allora riconoscere nei modi dell’ebanista la comune matrice culturale di un ben noto linguaggio.
Antonio aveva infatti lavorato a Urbino a seguito di Francesco di Giorgio, e si era profondamente imbevuto di quell’irripetibile atmosfera che si respirava attorno a Federico da Montefeltro e alla sua corte, rimanendo particolarmente impressionato dall’arte di Ambrogio Barocci, autore di tanti fregi nel palazzo ducale. Questi fregi bellissimi, di così intensa vivacità naturalistica, Raffaello li aveva visti fin da bambino, e ora ne ritrovava il gusto inconfondibile nell’opera di Antonio.
A Siena poi Raffaello incontrò un altro artista del legno, il frate olivetano Giovanni da Verona, specializzato in quella difficile arte dell’intarsio di cui Urbino conservava il più sublime monumento nello studiolo di Federico. Le tarsie che fra Giovanni andava creando in quel di Monteoliveto Maggiore risentivano profondamente dei modi di Perugino e Pinturicchio, suscitando ancora in Raffaello un senso di comunanza con la sua stessa formazione. L’artista diciottenne non poteva allora immaginare lo straordinario sviluppo della sua carriera artistica, ma quando non molti anni dopo la Stanza della Segnatura lo portò alle vette della gloria, per dare degno completamento a tanto capolavoro l’artista prescelto fu appunto Giovanni da Verona, chiamato a ricreare in questo ambiente unico lo spirito altissimo delle tarsie federiciane.
Dopo qualche tempo, al frate veronese si affiancò Giovanni Barili, che abbiamo lasciato in patria allievo dello zio Antonio, da cui mutua quell’aria urbinate che tanto doveva piacere a Raffaello. Giovanni collabora con lo zio in numerose opere, finché non gli si aprono le porte del Vaticano. Sia stato Giovanni da Verona a richiedere la presenza del collega, o sia stato Raffaello che a Siena aveva già potuto apprezzarne il talento, nel 1514 il senese si trova a lavorare nelle Stanze a fianco del frate olivetano durante l’inizio del pontificato di Leone X, intanto succeduto a Giulio II.
Delle magnifiche opere di intaglio allora realizzate purtroppo poco sopravvive: scomparsi probabilmente durante il Sacco del 1527 sedili e spalliere, ne resta pallido ricordo la copia ad affresco che ne fece Perin del Vaga intorno al 1540. In situ rimangono solo tre porte, per quanto manomesse, per le quali si è ipotizzato che al veronese si debba l’anta delle tarsie (fig 1), mentre al senese dovrebbe spettare quella retrostante intagliata a forte sbalzo, memore dell’opera di Antonio a sua volta memore della cultura urbinate (fig. 2).
Putti guizzanti popolano questi vivacissimi riquadri fra motivi vegetali quasi a tutto tondo, uccelli ad ali aperte e leoni a guardia degli scudi medicei di papa Leone. Quando poi Giovanni da Verona lascia Roma, l’altro Giovanni rimane con Raffaello, e non lo lascerà più. A conclusione di questo suo primo felice anno romano il 1 dicembre 1514 Giovanni viene nominato maestro della Fabbrica di San Pietro, di cui Raffaello è appena diventato soprintendente alla morte di Bramante.
Il senese esegue quindi il modello della basilica secondo il nuovo progetto raffaellesco, un modello presumibilmente imponente, a giudicare da quello monumentale che Antonio da Sangallo realizzò quando, morto Raffaello, divenne a sua volta soprintendente alla Fabbrica. Per le Logge, il maestro si serve ugualmente del fido Giovanni, che riceve anche pagamenti per gli stalli della Cappella Sistina, certamente in relazione alla messa in opera degli arazzi di Raffaello stesso, esposti per la prima volta il 26 dicembre di quell’anno.
Dove lavora Raffaello, lì lavora Giovanni. Dopo, morto il maestro, Giovanni porta a termine il lavoro nelle Logge per Clemente VII, e poi, forse dopo il Sacco, torna a Siena dove muore nel 1529. Nulla potrà più eguagliare quella incredibile stagione romana (per tutta questa parte come bibliografia di riferimento cfr. Raffaello il sole delle arti. Catalogo della mostra, Venaria Reale 2015, a cura di G. Barucca, in particolare il saggio di A. Angelini, M. Fagiani, Raffaello, Fra’ Giovanni da Verona, e Giovanni Barili ‘Maestri di tarsia e di intaglio’, pp. 95-106).
Un capitolo a parte meritano le cornici, alle quali tutti gli artisti di quell’epoca tengono in modo particolare. La cornice si presentava in un rapporto armonico proporzionale e spaziale indissolubile con l’opera pittorica, e mai sarebbe stato possibile, secondo un gusto minimalista moderno, concepire un dipinto, dal più sontuoso al più modesto, senza il suo “ornamento”.
Basti ricordare la stizza di Sebastiano del Piombo di fronte alla prospettiva che la sua grande pala della Resurrezione di Lazzaro partisse senza cornice per la sua destinazione nella cattedrale di Narbonne. Sebastiano si ribella a questa sorta di violenza, attribuita ad un complotto di Raffaello ai suoi danni (tesi di cui, controcorrente, io non sono convinta): «l’opera mia averà più gratia fornita che nuda» scrive a Michelangelo (2 luglio 1518, J.K. Shearman, Raphael in Early Modern Sources, London-New Haven 2003, vol. I, ad vocem ), e aggiunge che della sua cornice vuole occuparsene personalmente.
Sicuramente la vuole disegnare e vuole sorvegliarne l’esecuzione. Non sappiamo cosa avvenne, ma poiché Sebastiano poi non se ne lamenta più, si può pensare che l’abbia spuntata e che il suo grande quadro sia partito incorniciato.
Tornando a Giovanni Barili, di cornici realizzate per Raffaello c’è purtroppo rimasta solamente quella, magistralmente intagliata, della Santa Cecilia di Bologna, per la quale Vasari parla “dell’ornamento come l’aveva esso acconciato” (Vita di Francesco Francia, ed. Bettarini-Barocchi, III, p. 590), indicando, a mio avviso, che “esso”, cioè Raffaello, avesse forse disegnato tutta la cornice, o ne avesse quanto meno dato indicazioni al realizzatore, che le avrebbe magari seguite con qualche libertà (fig. 3).
Il realizzatore poi, concorde ormai la critica (M. Ferretti, «Con l’ornamento, come l’aveva esso acconciato»: Raffaello e la cornice della Santa Cecilia, in «Prospettiva», LXIII, 1985, pp. 12-25) non può essere che Giovanni Barili, che per Raffaello aveva già realizzato così tanti intagli del tutto simili. La Santa Cecilia è grande ma non grandissima (236×149 cm), ed era destinata ad una cappella di devozione privata. Conseguentemente la sua cornice non è a sua volta monumentale, ma è una raffinatissima opera d’intaglio totalmente proporzionata al dipinto che accompagna.
Ma Vasari ci informa anche che Giovanni Barili realizzò la cornice per la Trasfigurazione (410×279 cm), che certo doveva essere di tutt’altra tipologia e dimensioni. La notazione di Vasari, quasi en passant nella Vita di Sebastiano del Piombo (ed. Bettarini-Barocchi, V, p. 91) è peraltro densa di interesse, poiché implica che fu il committente cardinal Giulio de’ Medici a darne l’incarico a Giovanni Barili, probabilmente quando il dipinto si trovava ancora alla Cancelleria ma in previsione della sua collocazione sull’altar maggiore della chiesa di san Pietro in Montorio.
Del resto Raffaello era morto ancor prima di terminare il quadro. Una cornice monumentale dunque, non solo adeguata alla dimensione del dipinto ma anche alla sua aulica solennità e alla sua destinazione ad una grande basilica.
Ma come poteva essere questa cornice? Nella cattedrale di Narbonne, dopo che la Resurrezione di Lazzaro fu venduta all’Inghilterra, rimase la predella recante gli emblemi del cardinal Giulio de’ Medici, il che rafforza l’ipotesi che la cornice fosse stata realizzata a Roma. Partendo da questo elemento alla National Gallery di Londra si è tentata una ricostruzione induttiva dell’insieme, con colonne e fastigio dorati e intagliati (fig. 4) (Michelangelo & Sebastiano, a cura di M. Wivel, Londra 2017, p. 142).
Per quanto imponente sia questa proposta, bisogna dire che essa deve ancora essere lontana dalla realtà. E qui arriviamo alle fondamentali ricerche ricordate all’inizio di questo articolo, che invece ci restituiscono un’idea infinitamente più precisa di come dovesse realmente essere una cornice di tal fatta.
Si tratta di due scoperte risalenti entrambe a vari anni fa, ma non adeguatamente considerate nella loro importanza, l’una a Palermo, l’altra a Genova. A Palermo, Maria Antonietta Spadaro rinvenne più di trent’anni fa dei documenti relativi alla cornice marmorea dello Spasimo di Sicilia di Raffaello, le cui secolari e rocambolesche vicende ci sono ben note, dal naufragio nel trasporto fino alla restituzione alla Spagna dopo il trafugamento napoleonico (A.M. Spadaro, Rivedremo l’altare di Antonello Gagini allo Spasimo? Aggiornamenti sulle ricerche intorno all’altare dello Spasimo, in Il quartiere della Kalsa a Palermo, Palermo 2013, pp. 79-89).
Sconosciute erano invece le vicende della grande intelaiatura marmorea, un vero e proprio altare, che Antonello Gagini aveva realizzato per incorniciare un’opera di quell’importanza, che dava gloria alla Sicilia tutta. Partendo da un’antica fotografia ritrovata in un archivio palermitano nel 1986, la Spadaro ha iniziato una vera e propria caccia al tesoro sulle tracce di questo altare, smontato, spostato, ricostruito svariate volte, ritrovandone infine i pezzi smembrati, che solo l’anno scorso, dopo un lungo restauro, sono stati rimontati a cornice della perfetta ricostruzione del dipinto realizzata dagli abilissimi tecnici di Factum Arte (fig. 5) (fonte numerosi articoli e interviste consultabili su internet).
Questa cornice è così classica e “romana”, da avallare l’ipotesi, avanzata da Vittorio Sgarbi (ibid.), che Raffaello stesso ne avesse inviato con il quadro anche il disegno, che un grande artista cresciuto nello studio dei modelli toscani come Antonello Gagini seppe rendere da par suo. Certamente si tratta di un vero e proprio monumento, con colonne scolpite a motivi vegetali e un grande fastigio a timpano “all’antica”.
E fin qui il ritrovamento palermitano, mentre il secondo ritrovamento d’archivio, quello genovese ci riporta non solo a Roma ma direttamente a Giovanni Barili e all’unica documentazione finora rinvenuta di una cornice monumentale che sia possibile attribuirgli, alla quale quella della Trasfigurazione doveva strettamente somigliare. A Genova arrivò nel 1523 un quadro imponente di Giulio Romano, la Lapidazione di Santo Stefano (fig. 6),
tuttora conservato nella chiesa di Santo Stefano, e, secondo Vasari, la sua “più bell’opera”, di certo la maggiore compiuta prima della sua partenza per Mantova, e vorrei dire il più cospicuo fra i suoi dipinti mobili. A questa opera, di cui si conserva in Vaticano anche il magnifico cartone, e al suo committente Gian Matteo Giberti, il più stretto accolito del cardinal Giulio de’ Medici, ho dedicato un articolo che sarà pubblicato nel prossimo numero del Bollettino dei Monumenti Musei e Gallerie Pontificie.
Qui vorrei solo anticipare la parte relativa alla cornice di cui Maddalena Vazzoler ha rinvenuto nell’Archivio Storico del Comune di Genova il preciso disegno fatto nel 1513 a corredo delle relazioni stese per impedire il trasporto del dipinto Parigi (M. Vazzoler, “Locata entro sodo e maestoso ornamento…”: un disegno ottocentesco per la cornice della Lapidazione di Santo Stefano di Giulio Romano, in «Studi di storia delle arti», X, 2000/03, pp. 251-257). Relazioni inutili, perché il quadro partì e la cornice rimase (fig. 7).
Per quanto questo straordinario documento grafico sia stato pubblicato nel 2003, esso è rimasto sconosciuto, e non ha avuto il rilievo che meritava. Già le cronache genovesi avevano messo in risalto questa gigantesca cornice parlando di “sodo e maestoso ornamento”, e poi di “colonne intagliate alla raffaellesca”, e di “bello stile bramantesco”.
Una cornice tutta romana dunque come ci conferma il disegno, che ce ne dà anche le misure realmente imponenti: ben m.8,90 x 4,90 ! Più che una cornice il manufatto appare come una grande architettura d’altare come quella costruita in Sicilia da Gagini, una di quelle imponenti intelaiature di pietra che inquadrano le grandi pale dipinte, con basamento, colonne, trabeazione, fastigio, e con volumi fortemente aggettanti che proiettano ombre profonde. Così era la cornice della Lapidazione, non in pietra ma in legno dorato, una grande costruzione con colonne tortili e trabeazione piana, e ancora fiaccole e amorini e iscrizioni, classica nella sue forme, misurata pur nelle sue imponenti dimensioni
Quando il quadro tornò da Parigi la cornice ancora esisteva, e non si sa quando sia andata perduta. Vorrei sperare che scavando negli archivi genovesi con la stessa determinazione con la quale Maria Antonietta Spadaro ha setacciato quelli palermitani, se ne trovino le tracce, e chissà magari in qualche deposito se ne rinvengano dei pezzi erratici…
Per ora, guardandone il disegno, mi pare ben più che un’ipotesi che Giulio l’abbia disegnata personalmente, con la sua predilezione per le colonne tortili e per quella grandiosità che sarà caratteristica di tutta la sua opera mantovana. Se Giulio quindi la disegna, chi se non Giovanni Barili avrebbe potuto realizzarla? Quel Giovanni Barili che aveva sempre servito Raffaello per ogni possibile opera di legname, e che a maggior ragione sarà rimasto presso il più dotato dei suoi discepoli per coadiuvarlo in una commissione di tale importanza. E in effetti, i racemi della cornice interna nel disegno genovese, pur nella loro sommarietà grafica, sembrano assai prossimi a quelli della cornice della Santa Cecilia.
Le vicende cronologiche del dipinto non possono essere qui riassunte, basti dire che esso fu iniziato intorno al 1520, e terminato intorno alla metà del 1523. Per Giulio, all’esordio della sua carriera indipendente dopo la morte di Raffaello, si trattava di una commissione di primissimo piano, tanto più che in quel momento Adriano VI aveva bloccato i lavori nella sala di Costantino, sottraendogli il suo maggior impegno. Il che ci riporta alla considerazione che Giovanni Barili doveva aver fatto la cornice della Trasfigurazione dopo la morte di Raffaello.
Ora si impone una riflessione: la Trasfigurazione di Raffaello e la Lapidazione (cm 403×288) sono di dimensioni simili, e le loro cornici furono fatte in contemporanea. All’incirca nello stesso momento in cui la Lapidazione raggiungeva Genova, la Trasfigurazione veniva collocata in San Pietro in Montorio. In entrambi i casi significativo è il ruolo del cardinal Giulio de’ Medici, proprietario della Trasfigurazione e protettore del suo più stretto collaboratore Giberti, che proprio sulla cornice tiene a celebrarne il nome (ancora come cardinale) accanto a quello del defunto papa Leone X.
Ecco quindi che si ricompone un quadro coerente: le due cornici furono fatte nello stesso momento, e come Giberti aveva voluto un quadro che si potesse paragonare alla Trasfigurazione, così avrà voluto anche una cornice dello stesso stile e genere, nonché dello stesso autore. E se la cornice testimoniata dal disegno di Genova ci riconsegnasse anche un’idea non lontana di come doveva essere quella della Trasfigurazione?
Stefania PASTI Roma 28 febbraio 2021