di Marco VINETTI
Mauro Staccioli, l’essenziale è invisibile agli occhi.
Togliere, piuttosto che aggiungere. Semplificare. Sintetizzare. Ridurre ai minimi termini. Massimizzare. Concetti complessi ma essenziali che l’Arte visiva ha rincorso nei secoli attraverso la sua fisiologica evoluzione. Eserciti di movimenti, tendenze, gruppi, manifesti e singoli protagonisti, hanno elaborato e basato la loro ricerca ponendo al centro questo, così all’apparenza, semplicistico assioma.
Quando, nel pieno XIV secolo, Benedetto XI, indisse una sorta di concorso teso alla ricerca del migliore artista del tempo, una varietà di nomi illustri diedero vita ad elaborate, dettagliate e corpose composizioni. Mentre un talento cristallino del calibro di Giotto da Bondone si limitò a disegnare con un solo tocco di pennello una “O” perfetta.
Poco meno di due secoli dopo, Piero della Francesca condensò la spettacolarità della “Pala di Brera”, guidando l’occhio dello spettatore al particolare più essenziale, ed al contempo suggestivo, nella complessità dell’opera; un uovo che pende appeso ad un filo sottilissimo dalla conchiglia del catino absidale.
Nei primi anni del XVI secolo Michelangelo Buonarroti incise nel marmo una superlativa lectio magistralis creando i “Prigioni” per la tomba di Giulio II. Nei primi anni del XX secolo, un ispirato genio di nome Henry Matisse, approdò alla ricerca più squisitamente primaria e basilare. Dalle origini di un tardo impressionismo sfociato nell’avventura Fauve, sino all’utilizzo nei primi anni ‘40 dei papier découpé, ove tutta l’indagine di una vita creativa venne votata e proiettata all’Essenza.
Molti altri grandi e significativi esempi, provenienti dal secolo breve, potrei portare ad avvalorare questo mio pensiero; Fontana con le sue “attese”; Dan Flavin con i suoi “neon”, Rodolfo Aricò con le sue “sagome”, Bruno Munari con i suoi “mobile”, Yves Klein con i suoi “monocromi IKB”, Marcello Morandini con il suo “bicromatismo”.
Mauro Staccioli (Volterra, 1937 – Milano, 2018) si inserisce alla perfezione in questo qualitativo insieme di ricercatori dell’Assoluto. Con qualche impercettibile ma efficace sfaccettatura nei confronti dei suoi simili, predecessori, emuli.
Conobbi Staccioli e la sua ricerca durante una conferenza vissuta tra le aule di Brera, a Milano, nei primi anni ‘90. Relatori di quell’incontro furono Franco Cheli, docente di Scenotecnica in Accademia, che analizzava la complessità della struttura a servizio dello spazio scenico, ed appunto Mauro Staccioli che, come contraltare, definiva la “non complessità” dei suoi complessi interventi. Ricordo che rimasi colpito dalla semplicità di approccio di Staccioli, il quale si addentrava nelle dinamiche esegetiche con una leggerezza e semplicità di traduzione e comprensione totalmente disarmante. Decisi da quel momento di seguire più da vicino il suo lavoro, scoprendo anno dopo anno, esposizione dopo esposizione, di trovarmi al cospetto di uno degli scultori – o meglio forse sarebbe macro definire “creatori” – più efficaci e penetranti del dopo guerra per dialettica e sintesi.
Mauro Staccioli modella la personale ricerca nell’intima sublimazione tra l’essenza dell’uomo e quella della natura, in un elegante e raffinato sposalizio, altissimo ed irripetibile, dove le forme enfatizzate e genuinamente perfette delle sue molteplici e mai similari composizioni geometriche, si fondono con l’assoluta perfezione della ambiente che le accoglie e le ospita.
Sintesi invalicabile della perfezione, dove il cemento prima e l’acciaio Corten poi, scandiscono il proprio strutturale deterioramento, accompagnando parallelamente i granelli di sabbia inesorabilmente scivolati dalla clessidra del tempo stesso. L’estensione dell’opera nello scandire inesorabile del continuum spazio/tempo. Forme primarie, cerchi, piramidi, parallelepipedi, spazi pieni e spazi vuoti, nella lezione che eleva il connubio tra l’architetto, il poeta, il designer, l’artista; il Creatore.
Staccioli non pare però dominato o domato dalla sintesi, ma perpetuerà nella ricerca della sua evoluzione, un nesso più nobile che, dall’unione già citata tra elementi essenziali e naturali, genererà l’apporto attivo e sociale dell’uomo stesso.
Quanto l’elemento primordiale della forma geometrica nella sua complessità e l’altrettanta complessità della Natura fossero i quesiti, e altrettanto quanto conseguentemente l’uomo nel suo essere antropologico e sociale ne fosse la risposta. L’alterazione interrogativa della percezione. Lo spazio abitato e vissuto piuttosto che asetticamente osservato e contemplato. l’azione della sintesi in una naturale e magmatica presenza dell’uomo come demiurgo, mai sottomesso o schiavo, ma al contempo mai padrone e dominatore.
Mauro Staccioli fu entropia. Nel termine più sinteticamente ed ermeticamente filosofico, dove il caos e l’ordine si riducono a concetti apparentemente opposti in grado di coesistere.
Staccioli fu paradosso, capace di interrogare l’osservatore con quesiti raffinati ed impercettibili, con complesse e cripticamente non dirado malcelate tesi autoreferenziali. Staccioli fu enigma, dove il nadir e lo zenith si fondono nel medesimo spazio di azione\interazione, dove sovente la risposta precede la domanda, dove il prologo è più rilevante dell’epilogo. Staccioli fu il tutto ed il suo imprescindibile contrario, dove l’essenziale, appunto, è invisibile agli occhi.
A noi spettatori e contemplatori della sua essenza, il compito arduo di tradurne i silenzi, di percepire quel flebile afflato racchiuso nell’infinitesimale atomo dell’essere creativo ed al tempo stesso fortemente interrogativo.
Marco VINETTI Brescia 24 gennao 2021