di Ivo BOMBA
Ivo Bomba (Roma, 1953) è docente di Storia dell’Arte Moderna all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha partecipato a numerose conferenze e convegni presso istituzioni accademiche italiane e straniere; è stato Direttore Scientifico delle edizioni FMR, Art’é curando i testi e la scelta del materiale iconografico per il volume ‘Italia’ e pubblicando ‘Capolavori d’Italia nel mondo’ e ‘Italia dipinta’ (Bologna 2010); è autore di studi e volumi sul Rinascimento e sul Barocco; è attivo nell’ambito del Progetto Erasmus, con visite di insegnamento ad Anversa e Valencia (rappresentando l’Accademia di Roma). Continua ad attivare rapporti di scambio tre le Istituzioni straniere e quelle italiane. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art
VERROCCHIO A PALAZZO STROZZI
La mostra a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello celebra l’artefice che, forse più di altri, ha caratterizzato lo stile dell’arte fiorentina dell’ultimo quarto del XV secolo, se non altro per il numero di coloro che nella sua bottega si sono formati.
Curata da Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, la mostra, la prima dedicata al maestro, è il riuscitissimo risultato di quattro anni di ricerca su Andrea di Michele di Francesco Cioni, nato a Firenze nel 1435 e conosciuto come Andrea del Verrocchio, per l’apprendistato presso l’orafo Luca Verrocchio nella cui bottega fu fino al 1453. Andrea viene definito, già nel titolo della mostra, “maestro di Leonardo” per includere questa nel numero delle tante celebrazioni vinciane, e penso che questa sia, a fronte delle troppe, e troppo a buon mercato, esposizioni di macchinari e fogli di studio che tendono a celebrare solo l’ingegnere e lo scienziato, la più bella e la più utile per capire le radici dell’arte di Leonardo. Questa prima grande retrospettiva dedicata a Verrocchio, tra gli altri meriti, ha quello di fare luce sulla formazione in quella bottega fiorentina, oltre che di Leonardo, anche del Perugino e del Ghirlandaio che la frequentavano e che, a loro volta, ne trasmisero in parte elementi agli allievi Raffaello e Michelangelo.
La meravigliosa ipertrofia delle foglie d’acanto che invadono il sarcofago porfireo della tomba dei cosmiadi in San Lorenzo (la mostra vuole offrire l’occasione per visitare i luoghi che, del Verrocchio, conservano le opere inamovibili), associate alle zampe leonine, diventano simbolo della potenza della natura naturans, non ci può sfuggire la immediata ricezione di quel modello da parte del ventenne Leonardo che lo ripropose immediatamente, scultura dipinta, nel sarcofago rigenerato come leggio (la sapienza della Vergine) nell’Annunciazione del 1472 (Uffizi), impiantandolo su quel fecondo tappeto erboso che testimonia l’entusiasmo del giovane Leonardo per gli studi naturalistici.
Turbolenti come le acque di un fiume in piena sono quegli anni a Firenze
e non solo sul versante della politica, ma anche per le mutazioni stilistiche che l’arte cittadina ostenta, caratterizzate da una sorta di sofisticato ellenismo tutto ricercatezza e potenza, impreziosito dalle suggestioni che venivano dalle Fiandre, mutazioni stilistiche che subentrano all’austera semplicità del tempo del Cosimo, padre della patria, morto nel ’64. Leggiadria e animalità aleggiano sull’arte fiorentina di quegli anni e a caratterizzarla è in gran parte l’opera del Verrocchio, il quale aveva imparato a coniugare quei caratteri apparentemente contraddittori a bottega da Donatello. Accanto alle eleganze femminili, ai veli, a quei passi di danza sui quali Warburg fonderà la propria analisi rivoluzionaria, sono i gesti ardimentosi, le masse potenti degli eroi, dei condottieri. Il Bartolomeo Colleoni, è l’ultimo atto con il quale l’artista chiude a Venezia la propria esistenza a 53 anni, ammalato per essersi “riscaldato e raffreddato nel gettarlo” in bronzo, ultima impresa nell’arte della fusione nella quale, nato orefice, era celebrato maestro. Quel monumento equestre segna un nuovo inizio nella storia del genere, esso è un passo oltre i modelli del Gattamelata donatelliano e del prototipo romano del Marco Aurelio. Al posto della calma dei forti mostrata dai condottieri che lo hanno preceduto, il Colleoni di Verrocchio ostenta un ardimento, un dinamismo che già prelude al barocco del Mochi farnesiano a Piacenza.
A palazzo Strozzi la mostra si apre con tre esempi degli elegantissimi busti marmorei
di Desiderio e Verrocchio, discepoli di Donatello che si misurano con il genere desunto dall’antichità ma reso modernissimo anche grazie al confronto con la moda fiamminga, come è evidente nella Giovane gentildonna scolpita dal primo tra il 1455 e il ’60. Nella prima sala sono poi, finalmente accostati, il busto della Dama col mazzolino (1475 ca.) di Verrocchio proveniente dal Bargello e il celebre disegno delle Mani femminili di Leonardo proveniente dal castello di Windsor, il primo dei magnifici fogli che troviamo lungo il percorso dell’esposizione.
Il David vittorioso del Bargello, armato da un orefice, sintesi perfetta di quel valore stilistico fatto di quella sfrontata eccellenza ed ammiccante eleganza che Verrocchio aveva appreso da Donatello, ci accoglie nella seconda stanza dove il confronto tra Desiderio e Verrocchio continua nella celebrazione degli antichi eroi: Olimpia, Dario re dei Persiani, Alessandro Magno, Annibale, Scipione l’Africano. Sulle superfici cesellate delle terribili armature all’antica che vestono i profili all’antica, le spaventose immagini apotropaiche aggiornano i demoni etruschi e i draghi medievali rivisitandoli con un esasperato gusto ellenistico, saturo di raffinatezze alessandrine. Qui nasce il desiderio di andare a rivedere, nel vano di sinistra della scarsella della Sagrestia Vecchia in San Lorenzo, il lavabo di casa Medici iniziato negli anni ’40 da Desiderio (o Antonio Rossellino) e completato dal Verrocchio intorno al 1460 con l’aggiunta della specchiatura a parete e della inquietante arpia di destra che aggiunge ambigua terribilità alle mostruose invenzioni della parte superiore: teste e zampe di lupo, ali artigliate di drago e coda di serpente-mollusco.
Il magnifico “chiaroscuro” della Madonna col Bambino e due angeli (1465 ca., Uffizi) disegnato da Fra Filippo Lippi introduce alla terza sala dove sono allineate, accanto a quelle in rilievo di terracotta e di marmo, le Madonne col Bambino dipinte da Verrocchio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino e Piermatteo d’Amelia. La cosidetta “Madonna di Volterra” del 1471, ormai definitivamente attribuita alla sola mano del Verrocchio escludendo il contributo del Ghirlandaio, è a Londra, nelle sale della National Gallery, dal 1858, quando l’allora direttore Charles Lock Eastlake la espose dopo averla acquistata nella città toscana dalla famiglia Contugi. Di fronte agli azzardati accostamenti dei diversi motivi decorativi dei broccati di seta delle maniche dell’abito e della fodera e dei motivi pseudo-cufici delle orlature del mantello, uniti ai gioielli preziosi cesellati con fiamminga sapienza, di fronte ai volti degli angeli adolescenti e svogliati, non possiamo non pensare all’entusiasmo di quei pittori preraffaelliti che videro quest’opera mirabile di lì a poco. I riccioli composti e velati ai lati della fronte della sua Madonna con Bambino (1470 ca., Gemäldegalerie di Berlino) ci fanno pensare ai gorghi delle acque e le forme delle nubi studiati da Leonardo. Anche qui è l’enfasi sul moto a segnare il sottile scarto tra questa versione del Verrocchio e quella di Botticelli (1468 ca., Capodimonte).
La sala che segue è dedicata alla diffusione della lezione di Verrocchio ad opera di Pietro Perugino in Umbria, e di lì a Roma, dove si fissa nell’opera del Pinturicchio. Dal canto suo Domenico del Ghirlandaio, che frequentò Verrocchio verso il 1470, elaborò il proprio stile personale partendo da quelle premesse. Sua la Madonna in adorazione del Bambino (1470 ca., Edimburgo, National Gallery of Scotland), acquistata a Venezia da John Ruskin nel 1877.
Al rapporto tra Verrocchio e Roma, città nella quale ha soggiornato sotto il pontificato di Sisto IV e alla cui cultura antica si è sempre riferito, è dedicata la sesta sala a palazzo Strozzi dove sono finalmente affrontati i due busti di terracotta la cui attribuzione ai due antagonisti Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio è stata a lungo discussa: il Lorenzo di Dietisalvi Neroni del Bargello, del Pollaiolo, e il Giuliano di Piero de Medici (1475, Washington National Gallery) del Verrocchio. Due ritratti in armatura, il secondo è l’unico ritratto del fratello di Lorenzo il Magnifico, morto a ventiquattro anni nella congiura dei Pazzi (1478), qui vittorioso nel torneo del 1475 per l’amata Simonetta Vespucci. L’attribuzione a Verrocchio venne messa in discussione anche per quanto riguarda la mirabile terracotta che raffigura il rustico Giovane addormentato (Abele? Adamo? Endimione?) di Berlino da Adolfo Venturi il quale, dopo averla accettata nel 1908, la ricusò a favore del Pollaiolo nel 1927.
Il riferimento ai modelli classici è evidente sopratutto nelle opere in cui il maestro fiorentino si misura con gli spazi esterni (sala 7),
dal Putto col delfino, bronzo fuso per Careggi, portato nel Cinquecento a Palazzo Vecchio, che ci riporta ai giardini interni delle ville romane, alle fontane monumentali all’antica in cui le vasche erano impilate l’una sull’altra come in un grande candelabro, testimoniate in mostra dai frammenti di quella eseguita da Giovan Francesco Rustici (dalla quale proviene il celebre Mercurio di Cambridge) richiesta nel 1515 da Giulio de’ Medici per la fontana di Antonio Rossellino nel giardino di Palazzo, e da quelli della fontana eseguita dal Verrocchio per la corte ungherese di Buda e lodata dal Poliziano.
L’ottava sezione a palazzo Strozzi è dedicata alle opere del Verrocchio per Pistoia: il Cenotafio Forteguerri, testimoniato dal bellissimo modelletto in terracotta proveniente dal Victoria and Albert Museum e dai modelli intermedi degli angeli reggicortina dal Louvre, e la Madonna di Piazza, anch’essa per la cattedrale di San Zeno, affidata dal maestro all’allievo Lorenzo di Credi quando, nel 1486, partì per Venezia
La sala che conclude l’esposizione a palazzo Strozzi è dedicata a quello che i curatori della mostra propongono come un nuovo Leonardo,
la sua unica scultura. Come ci spiega Francesco Caglioti, per la Madonna col Bambino (1472 ca.) del Victoria and Albert Museum, era stata ipotizzata la paternità leonardesca già da Claude Philips nel 1899 e poi ripresa nel ‘900 da molti studiosi, tra i quali Adolfo Venturi nel 1935 e Ludwig Heinrich Heydenreich nel 1943 e nel ’54, ma, nel 1964, il giovane John Pope Hennessy, nel redigere il catalogo aggiornato delle sculture italiane nella collezione londinese, ritornò all’attribuzione originaria ad Antonio Rossellino, accettata pressoché da tutta la critica fin da allora. Ad uno sguardo ravvicinato è, a mio avviso, proprio il volto della Vergine che guarda protettiva e divertita l’esplosione di vitalità espressa dal Bambino che tiene sulle ginocchia, a rivelare la possibile paternità leonardesca ricordando l’espressione particolarissima sul volto della Sant’Anna nel cartone londinese. A confortare l’attribuzione della terracotta a Leonardo è la serie preziosissima di magnifici studi di panneggi, di quel “piegar di panni” che fu saggio della maestria rinascimentale, allineata lungo le pareti in penombra della sala: due punte d’argento di Fra’ Filippo Lippi, e diverse tempere grigie e biacca su tela di lino, due del Verrocchio e cinque, strepitose, di Leonardo da Vinci.
Le ultime due sezioni della mostra, forse le più belle da un punto di vista espositivo, sono al Museo del Bargello.
Entrambe dedicate alla raffigurazione di Cristo. Andrea del Verrocchio ha avuto il merito di diffondere, attraverso opere acclamate, la “fisionomia del vero Cristo” che circolò intorno alla metà del ‘400 su medaglie che riproducevano il divino profilo inciso sul leggendario smeraldo donato dal sultano Bajazet II a papa Innocenzo VIII. La visione laterale del volto serve a documentare i tratti caratteristici di una fisionomia umana, di qui l’uso del profilo sulle medaglie, da quelle imperiali a quelle degli artisti rinascimentali che a quella tradizione si riferirono. Quel viso caratterizzato dai tratti “non classici”, il naso pronunciato, il mento con la barba corta e rada e la fronte sfuggente, i grandi occhi, le labbra piene, diffuso nel XV secolo da stampe popolari e medaglie in tutta Europa, farà scrivere a Lavater nel suo Essai sur la physognomonie (1803) della corrispondenza di quei tratti ad “un’espressione di tanta, dolce, incommensurabile, autentica bontà e immacolata pace dell’animo…”. E quello, particolarissimo, così distante dalla versione ideale, classica, che ha prevalso per secoli, è il volto che il Verrocchio, mostrandolo così al mondo in una delle sculture in bronzo più celebrate del ‘400, dà al Cristo dell’Incredulità di San Tommaso, commissionata nel 1467 dall’Università della Mercanzia per una nicchia di Orsammichele, quella di Donatello, che aveva alloggiato, tra il ’25 e il ’60, il suo monumentale San Ludovico da Tolosa ora nel Museo di Santa Croce.
In mostra l’imponente gruppo di bronzo, collocato all’altezza del sito a cui era destinato, è fiancheggiato da una serie di busti di Cristo salvatore, il prototipo del Verrocchio e le derivazioni, quella dalla chiesa di San Martino in Soverzano a Minerbio, quella della collezione Stuart, quella di Pietro Torrigiani, tutte a ripetere quel “vero ritratto di Cristo” che torna anche nel Crocifisso del Bargello del 1475 esposto insieme ad altri dieci nella spettacolare sala che chiude la mostra.
Ivo BOMBA Roma/Firenze marzo 2019