di Barbara SAVINA
Un Pastore musico di Sebastiano del Piombo che invita all’armonia con la natura.
Recentemente ho visionato in una raccolta privata di Bassano del Grappa questo dipinto interessante (Fig. n. 1), provvisto di una bella cornice lignea intagliata e dorata di fattura moderna ed eseguito ad olio su carta, poi incollata su tela, riconducibile alla mano di Sebastiano del Piombo, sperimentatore versatile in ambito tecnico[i].
Dal supporto cartaceo deriverebbe il carattere fresco e brillante dell’opera, già notato da Longhi in un’altra versione. Il dipinto appare complessivamente in un buon stato di conservazione: la frattura del supporto cartaceo ha causato alcune lacune e creato una crettatura, in corrispondenza del cappello. Gli esami diagnostici hanno rivelato la compatibilità degli elementi tecnici con una datazione nell’ambito del XVI secolo.
L’opera propone una rielaborazione dell’iconografia, di origine giorgionesca e di grande successo, come attestano i numerosi dipinti ritrovati dedicati al medesimo soggetto ed al centro di un vivace dibattito critico, non risolto in modo definitivo. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi di riconoscere proprio in questo dipinto il prototipo della serie in cui sono inseribili le altre versioni conosciute, attribuite inizialmente a Giorgione o ad un suo seguace (Zampetti 1955, 1968, 1976; Lucco 1980).
Al Louvre, nel Dipartimento di arti grafiche (INV 5674), si conserva una sanguigna (Fig. n. 2) che ripropone fedelmente il soggetto raffigurato nel dipinto, riferita genericamente a scuola veneziana del Cinquecento e all’ambito di Sebastiano.
Protagonista della composizione è un giovane pastore con flauto, con un cappello scuro sul capo ed avvolto in una folta pelliccia. La figura, misteriosa ed affascinante al tempo stesso, emerge dal buio e tiene gli occhi rivolti verso lo spettatore: è un uomo pensoso e riflessivo; il viso, asimmetrico e decentrato, ha tratti delicati, che denotano un animo sensibile, lo sguardo è intenso, l’espressione malinconica. Sembra il momento immediatamente successivo ad un’esecuzione musicale: le labbra sono dolcemente socchiuse.
Il giovane tiene le dita lunghe ed affusolate su un bastone assimilabile ad un flauto, di cui però non sono visibili i fori. È’ di ascendenza giorgionesca l’impostazione del pastore-musico, caratterizzato psicologicamente ed emotivamente: posto di traverso ha il volto rivolto fuori del quadro, in un atteggiamento quasi di sfida ed in cerca di un dialogo con il mondo, come avviene nelle allegorie musicali di Giorgione. Non è ben distinguibile il fondo, definito a poche macchie compendiarie di scuro su scuro: la stesura pittorica si rivela sottile, con una tecnica per velature. E’ individuabile uno schema geometrico composito, basato su due matrici radiali con i vertici nella mano destra e sul fiocco in cima al cappello.
Il fulcro del reticolo prospettico, verso cui convergono le direttrici dello sguardo, è rappresentato dal bastone, che rimanda ad un viandante pellegrino e assimilabile ad un flauto, elemento indispensabile nell’iconografia del concerto giorgionesco.
La luce, proveniente da un lume laterale esterno, indugia su naso, guancia e collo del pastore, lasciando in penombra gli occhi, la fronte e la parte inferiore della mano destra. Il ritratto sembra quasi colto alla luce di una lampada in un interno: il tono crepuscolare giustifica l’attribuzione a Sebastiano del Piombo, con una datazione intorno al 1508.
Ricorrono inoltre alcuni tratti distintivi dei ritratti del pittore veneto, erede della lezione di Giorgione, e caratterizzati dalla sintesi delle forme e dalla saldezza dei volumi, legate alla conoscenza dell’arte classica: lo sguardo intenso rivolto allo spettatore, in un dialogo profondo e la tipica torsione di contrappunto della testa rispetto al corpo, che crea il motivo delle pieghe sul collo.
L’occhio del conoscitore riconosce alcuni dettagli fisionomici tipici nelle figure ritratte dall’artista, come le labbra carnose che scavano una fossetta ai lati, che ritornano nelle Sante della pala di S. Giovanni Crisostomo a Venezia. La pelliccia di cervo, eseguita a piccoli tocchi e virgole di colore, ricorda quella del Ritratto d’uomo, conservato a Monaco, datato al 1508 (Lucco 1980, p. 94). Sono evidenti affinità stilistiche anche con i ritratti delle ante di S. Bartolomeo (Fig. n. 3), ora conservate nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, databili prima della partenza per Roma nel 1511.
Gli esami diagnostici hanno rivelato una tavolozza a base di cinabro, nei dettagli fisionomici, terra d’ombra ed ocre gialle e rosse. Ai raggi X sono visibili lumeggiature a base di biacca negli incarnati e nella parte inferiore del volto e ai raggi infrarossi emergono leggere modifiche nella mano della figura ed un secondo margine del volto.
Il tema del pastore musico si lega alla cultura umanistica e a quel particolare clima religioso, che si venne a creare a Venezia nei primi decenni del Cinquecento.
Ogni dettaglio della composizione fa riferimento all’ambiente arcadico, riscoperto a Venezia a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, e riproposto come luogo interiore e sfondo di allegorie musicali, interpretabili in chiave neo-platonica: proprio in Arcadia nacque il culto di Pan, divinità del mondo agreste ed incontaminato, cui si attribuisce l’invenzione del flauto. Il cervo in araldica rappresenta la mitezza e nobiltà d’animo ed è metafora della rigenerazione vitale e del credente che anela a Dio, proprio come la cerva del salmo biblico che anela all’acqua di fonte.
Il pastore con flauto era un’iconografia della cerchia giorgionesca, ispirata all‘Arcadia di Jacopo Sannazzaro, pubblicata a Venezia nel 1502: ricorre ad esempio nel Cantore della Galleria Borghese di Roma e nel Pastore di Hampton Court, già attribuiti a Giorgione (Zampetti 1968, pp. 90 e 96), ed un “Pastore con flauto” è citato anche nell’inventario della raccolta Vendramin, con l’attribuzione al maestro di Castelfranco.
Il ritratto allegorico, di carattere arcadico, contiene un invito alla meditazione, all’armonia con la natura ed al ritorno ad una religiosità autentica. Il giovane pastore ha un aspetto gentile e piacevole, psicologicamente coinvolgente, ed instaura una relazione intima ed emozionale con l’osservatore, divenendo simbolo di adesione ad una vita semplice, bucolica e pastorale ed invitando a ritrovare il contatto con la natura, anche attraverso l’armonia della musica.
Il tema, riconosciuto sempre di ascendenza giorgionesca, è intimamente legato alla personalità di Sebastiano del Piombo, di cui sono note la conoscenza diretta e la pratica della musica: l’artista ritrae un nobile travestito da pastore, adepto di un’accademia di pensiero, che si isola e rivolge l’invito ad un percorso di ricongiungimento con l’armonia della natura.
Negli Asolani di Pietro Bembo, composti tra il 1497 e 1502, si svolgevano dialoghi tra gentiluomini, ambientati nell’incantevole paesaggio delle colline trevigiane, dai tratti lirici e arcadici e nell’ambito di queste accademie intellettuali, i concetti venivano espressi in musica, poesia e pittura.
E’ suggestivo ipotizzare che Sebastiano del Piombo, autore di dipinti inclusi anche nella collezione Bembo (Donatella Basso p. 48), recependo in modo originale le idee filosofiche platoniche, le suggestioni arcadiche circolanti nell’ambiente veneto e le invenzioni giorgionesche, le abbia tradotte in un’iconografia di successo, attraverso anche il riferimento alla musica, di cui aveva esperienza e che praticava direttamente.
Il sentimento di melanconia che permea la composizione, è caratteristico delle allegorie dipinte in questo periodo: emerge la vita interiore del personaggio ed il dipinto si trasforma in un dialogo intimo, riservato ed esclusivo, che si rivolge direttamente all’anima dello spettatore. Il pastore attraverso il bastone-flauto vuole indicare la strada per ritrovare il contatto con la natura, come auspicato dal cristianesimo primitivo, riscoperto dai nobili veneziani.
Esistono repliche tutte di notevoli qualità, che si differenziano solo in minime varianti e che si potrebbero considerare anche versioni autografe di un unico originale:
“sono usciti dallo stesso ambiente e sono legati alla medesima situazione culturale e psicologica” (Zampetti 1976, p. 14).
Il nostro dipinto rimanda stilisticamente ad un esemplare, in raccolta privata a New York (Zampetti 1976, p. 13): affini appaiono il taglio degli occhi e i dettagli della composizione. Dal punto di vista tecnico la versione bassanese è accostabile al dipinto di Bowood, facente parte della collezione inglese del marchese di Lansdown, di dimensioni leggermente inferiori, dipinto anch’esso su carta, incollata alla tela (Lucco 2008, p.112). Sono presenti però delle varianti nella tipologia della pelliccia e nell’inquadratura prospettica: il personaggio è ritratto in modo più ravvicinato nel nostro dipinto, con lo sguardo rivolto direttamente all’osservatore, mentre sembra proiettato in lontananza nel dipinto inglese.
Probabilmente la versione di Bowood segue il modello dell’esemplare napoletano (Santucci 2010, p. 102),conservato nelle Gallerie Nazionali di Capodimonte (Fig. n. 4), in cui il personaggio ritratto è stato identificato con il principe di Salerno Antonello Sanseverino sulla base della spilla, presente nelle altre versioni- anche se difficilmente decifrabile-, ma assente nel nostro dipinto e significativamente anche nella sanguigna, conservata al Louvre.
Sono riscontrabili affinità anche con l’esemplare inglese di Wilton House (collezione Lord Pembroke), dipinto però ad olio su tela, incollata su tavola, considerato originale di Sebastiano da Mauro Lucco (2008, p. 112) e vicina allo stile ed ai metodi esecutivi delle ante d’organo di S. Bartolomeo e della pala di S. Giovanni Crisostomo, dipinte tra 1510 e prima metà del 1511.
Nelle collezioni del palazzo Reale di Venezia è stata ritrovata una replica, probabilmente seicentesca, affine alle altre versioni, anche se ad un occhio esperto non sfugge un carattere barocco, distante dallo spirito di profonda malinconia del nostro dipinto (Donatella Basso 2011, pp. 43-48), conferma della prosecuzione della fortuna critica di quest’iconografia.
Sulla base della nostra ipotesi attributiva ed interpretativa, il dipinto allegorico bassanese è un ottimo esempio della ritrattistica di Sebastiano del Piombo nel periodo veneziano, intorno alla fine del primo decennio del Cinquecento, prima del trasferimento a Roma in una sintesi originale tra imitazione del naturale e rappresentazione ideale: il pittore infatti si ispira alle allegorie di Giorgione, caratterizza psicologicamente il suo pastore, inventa una nuova iconografia per trasmettere un messaggio di forte valenza allegorica, connesso alla pratica della musica, emblema dell’armonia del mondo. Non sono emerse tracce di un tracciato a spolvero, il che fa escludere l’ipotesi che si tratti di una copia da un prototipo.
L’artista sperimenta probabilmente in una fase di studio del soggetto allegorico la tecnica dell’olio su carta, per garantire la freschezza del colore e la luminosità della composizione, ottenendo giochi di luce ed ombra di grande potenziale espressivo. Si può lasciare aperta l’ipotesi che sia tornato successivamente a dipingere il soggetto su tela, dando alla composizione un carattere più realistico, inserendo delle piccole varianti, come la spilla, connessa alla biografia del personaggio da celebrare nel ritratto.
Il nostro dipinto viene a configurarsi come un ‘opera cerniera tra il periodo veneto e romano dal punto di vista iconografico e tecnico, rivelando competenze nella ritrattistica, che divenne la specialità dell’artista, in quello “stile particolare della penombra e del chiaroscuro diffuso”, secondo la definizione proposta da Strinati.
La stessa iconografia sarà riproposta su supporti diversi, diventando anche un banco di sperimentazione tecnica: prima il disegno -ipotizzando l’autografia della sanguigna conservata al Louvre- poi il dipinto su carta (anche incollata alla tela), e su tela (incollata alla tavola).
Sebastiano Del Piombo rimase fedele alla tradizione veneta del colore, ma al tempo stesso propose innovazioni tecniche, provando a sperimentare supporti diversi e trovando nuovi metodi per dipingere ad olio su tavola, tela, sul muro, su pietra e su carta, per garantire la massima freschezza e durata dei pigmenti.
A Roma avvenne l’incontro con Michelangelo, che gli fornirà anche disegni preparatori e nella pittura si accentuerà la plasticità delle sue figure.
Barbara SAVINA Roma 7 Luglio2024
[i] Ringrazio il proprietario di avermi dato la possibilità di studiare e pubblicare il dipinto, e Roberta Lapucci che mi ha fornito il materiale sulle indagini diagnostiche e preziosi suggerimenti nell’interpretazione dei dati scientifici e nella lettura iconografica del dipinto.
Bibliografia di riferimento
1 Giorgione ed i giorgioneschi, catalogo della mostra a cura di Pietro Zampetti, Venezia 1955, n. 116, p. 244
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Zampetti, L’opera completa di Giorgione, Milano 1968 (Classici dell’arte Rizzoli), n. 41 p. 96
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Zampetti, Un problema giorgionesco: il pastore con flauto, in “Notizie da palazzo Albani”, 5, 1976, pp. 10-14
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Lucco, L’opera completa di Sebastiano del Piombo, Milano 1980 (Classici dell’arte Rizzoli)-n.12, p. 92
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Lucco, Pastore con flauto, in Sebastiano del Piombo 1485-1547, catalogo della mostra (Roma-Berlino 2008), a cura di C. Strinati, B. W. Lindermann, R. Contini, Milano 2008, scheda 9, pp. 112-113
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Santucci, A proposito del pastore con il flauto del Museo di Capodimonte, in AA. VV., Atti del Convegno Internazionale, Roma 13-14 maggio 2009, Firenze 2010, pp.100-103
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Donatella Basso, Un inedito giovane pastore d’Arcadia con flauto nella collezione del Palazzo Reale di Venezia, in “Progetto restauro”, 16, 2011, pp. 43-Portale on line del Museo del Louvre:https://collections.louvre.fr/, INV 5674
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Lapucci, Relazione storico-artistica e diagnostica, 2024