di Emilio NEGRO
Un interessante ritratto di gentiluomo ha attirato la mia attenzione per le sue singolari caratteristiche (fig. 1) (nota 1): raffigura a mezzo busto e lievemente in tralice un individuo di età avanzata dalla rosea carnagione coi radi capelli, le sopracciglia, la folta barba e i baffi incanutiti dal trascorrere del tempo.
L’austero personaggio dallo sguardo incisivo, veste un abito nero abbottonato al centro, sobrio e tuttavia elegante, su cui spiccano una candida croce ed un colletto sottile dello stesso colore finemente ricamato. L’uomo indossa la classica mise dei notabili vissuti tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del secolo seguente. L’iscrizione sul bordo superiore, tracciata in bei caratteri corsivi, e lo stemma in alto a destra, fugano ogni dubbio sull’identità dell’effigiato: “Fra Ulisse Albergotti d’Arezzo Cav.re Ger.no Governatore di Gozo in Affrica 157…”.
Dunque l’inedito dipinto fu eseguito al tempo di Alof de Wignacourt (1547-1622), il cinquantaquattresimo Gran Maestro dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, noto soprattutto per aver posato col suo paggio nel celebre ritratto di Caravaggio ora al Musée di Louvre, realizzato tra il 1607 e l’anno seguente (fig. 2), un’immagine apparentemente realistica: tuttavia, come il Ritratto di Ulisse Albergotti, è più idealizzata di quanto appaia a prima vista, poiché in entrambi i casi la “folgorante verità di luce” lombarda caravaggesca (nota 2) fu adattata alle esigenze encomiastiche dei committenti effigiati coi sembianti eroici del Miles Christianus impavido difensore di quella fede, di cui il Supremo Ordine di Malta era garante (nota 3).
Albergotti fu a capo del governo della seconda isola per estensione dell’arcipelago maltese che, come testimonia la scritta, negli anni Settanta del XVI secolo era considerata appartenere geograficamente al continente africano.
Il prezioso gioiello di smalto bianco appeso al collo del Fratello – così erano soliti chiamarsi i membri dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (detti poi di Rodi e di Malta) – simboleggia il più alto grado di quella gloriosa istituzione cavalleresca conferito al nobiluomo aretino: quello di Balì di Gran Croce. Le otto punte del candido pendente simboleggiano le altrettante Beatitudini Teologali e “lingue” parlate dai Cavalieri Ospitalieri. Stando al magistero di San Matteo le prime erano lealtà, pietà, franchezza, coraggio e gloria, onore, disprezzo per la morte, solidarietà nei confronti di poveri e malati, rispetto per la chiesa; le seconde, cioè le parlate, corrispondevano ai raggruppamenti nazionali di Alvernia, Provenza, Francia, Aragona, Castiglia e Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra (con Scozia e Irlanda).
Non meno significativa è la presenza del blasone marchionale – bandato d’oro e di nero, con la seconda banda caricata nel capo di una stella di sei raggi d’oro -, decorato da croci parimenti maltesi e corrispondente a quello della potente famiglia aretina di appartenenza dell’effigiato, gli Albergotti, di cui Ulisse, che fu anche Commendatore di San Pietro alla Magione di Siena, era un membro influente. Ciononostante egli è noto ai più soprattutto per essere stato l’autore di uno sciagurato “dialogo” astronomico pubblicato nel 1613 contro Galileo Galilei, per confutarne le tesi in cui sosteneva che la Luna brillava di luce propria, negando che la causa delle eclissi fosse dovuta all’allineamento sullo stesso asse della Terra, del suo satellite e del Sole.
Anche il ritratto di Ulisse Albergotti venne realizzato da un autore che, al pari di Michelangelo da Caravaggio, fu attivo a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, capace di esprimersi con un linguaggio figurativo aggiornato sui più edotti modelli della ritrattistica del tempo. In esso si manifesta inoltre il tipico comporre accurato di coloro che essendo adusi all’arte miniatoria, erano in grado di riprodurre con estrema veridicità il colorito, le rughe e il crine dell’effigiato, onde ottenere un’efficace caratterizzazione fisionomica introspettiva. Tale felice predisposizione alla tecnica ritrattistica, in cui risaltano accenti di realismo lombardo desunti da Giulio Cesare Procaccini e soprattutto Giovan Battista Crespi detto il Cerano, permette di proporne l’attribuzione ad una delle pittrici più affermate fra quante furono attive sulla ribalta italiana all’aprirsi del Seicento: Fede Galizia (Milano 1574/1578-1630), figlia dell’apprezzato miniaturista trentino Nunzio, divenuta una delle figure di riferimento della città di Milano dominata dagli spagnoli eppure affrancata parzialmente dal giogo straniero dalla guida morale del cardinale Federico Borromeo.
Dotata di un innato talento naturale, Fede Galizia dovette confrontarsi con le opere realizzate dai maggiori artisti del momento, come i Procaccini e Cerano, ma pure il Morazzone e Tanzio da Varallo. Fu probabilmente verso la fine della sua giovanile maturità che ella, dopo aver dato ampia prova delle sue capacità artistiche, si mostrò credibilmente sensibile – come in questo ritratto – alla riforma naturalistica iniziata dai tre Carracci bolognesi, mettendo a punto un peculiare tipo di pittura ben definita nella gamma coloristica e negli elementi di stile ieratici e non immuni da accenti spagnoleggianti.
A sostegno della proposta attributiva avanzata concorre il confronto del Ritratto di Ulisse Albergotti con altri della Galizia: ad esempio la duplice effige di Jacopo Menochio e Margherita Candiani (fig. 3) (nota 4) e il Ritratto di uomo anziano (Roma, collezione Amata) (nota 5).
In tutte queste opere si evidenziano analogie stilistiche con la nostra tela, ossia un dipingere accurato di derivazione prettamente padana, non immune da accenti iberici e fiamminghi, che manifesta una felice predisposizione per un’indagine “lenticolare” dei lineamenti, indagati con grande precisione. Malgrado l’importanza del personaggio, abbiamo scarsi dati biografici su Ulisse Albergotti e probabilmente siamo dinanzi all’unico suo ritratto giunto fino a noi.
Emilio NEGRO Bologna 23 Giugno 2024
Note
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Olio su tela, cm 54 x 40.
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C. Volpe, Guido Reni e un’impresa degli “Incamminati”, in “Paragone”, 1954, 57, pp. 3-12.
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E. Negro, in La Sicilia di Caravaggio, cat. della mostra, a cura di P. Carofano, Noto, Convitto delle Arti Noto Museum, 30 marzo-3 novembre 2024, Pontedera 2024, pp, 68-70, n. 5.
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New York, Sotheby’s, 30 gennaio 2019, n.43.
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F.M.Ferro, in Miti, Eroine e Ribelli, catalogo della mostra, a cura di P. Carofano, Pontedera, 2022, pp.148-151.