di Alessandro ZUCCARI
In the middle of every difficulty lies opportunity, diceva Albert Einstein: le difficoltà, anche nel campo della ricerca, possono trasformarsi in occasioni propizie, purché si affrontino con strumenti e metodi adeguati.
È ciò che ha fatto Riccardo Gandolfi fino a scoprire un prezioso manoscritto del Seicento di cui si era persa traccia da tre secoli, le Vite degli artisti di Gaspare Celio (Roma 1571-1640).
Pittore e scrittore d’arte non certo tra i più noti, Celio era stato scelto da Gandolfi come tema di studio per il Dottorato in Storia dell’arte della Sapienza con l’obiettivo di far uscire da un cono d’ombra questo personaggio bizzarro e rissoso, ma tutt’altro che marginale negli anni in cui Roma era il «gran Teatro del Mondo»: fu anche architetto, ingegnere idraulico, poeta, matematico e riuscì a ottenere l’ambita croce di cavaliere (seppur “scippandola” al collega Orazio Borgianni), ma in sostanza fu un difensore della tradizione manierista che sentiva minacciata dall’insorgere del “naturalismo” caravaggesco.
Seguendo le tracce dei rari studi sull’artista, il giovane dottorando si era gettato con passione a far ricerche d’archivio e a cercarne opere inedite, sperando di superare le difficoltà incontrate in precedenza. La “sfortuna” di Celio era infatti dovuta alla dispersione dei suoi scritti – tranne un’innovativa “guida” delle pitture di Roma – e alla perdita di gran parte dei suoi dipinti: ultimi gli affreschi del Gesù di Tivoli bombardati nel 1944 e una tela romana in S. Maria del Carmine distrutta nel 2009 da un incendio.
Dopo un anno di lavoro, deluso dai modesti risultati, Gandolfi mi chiese di cambiare argomento. Conoscendo le sue doti di archivista (si era diplomato alla Scuola dell’Archivio di Stato di Roma, dov’è oggi funzionario), invece lo incoraggiai a concentrarsi sulla produzione letteraria di Celio: iniziò così uno spoglio tanto arduo quanto minuzioso degli indici delle biblioteche private europee. Fatti i primi inefficaci tentativi, al ritorno da un viaggio di studio in Inghilterra si presentò visibilmente emozionato: «professore l’ho trovato!».
Lo feci sedere e come un fiume in piena raccontò di aver scoperto nella biblioteca dello Stonyhurst College, vicino a Manchester, il manoscritto delle Vite, integro e totalmente autografo, con più di duecento compendi biografici scritti nel 1614 e in seguito aggiornati. Poi dal computer trasse le foto di alcune pagine dedicate a piccoli e grandi maestri, da Pietro Cavallini ad Agostino e Annibale Carracci. La sola biografia di Caravaggio valeva la scoperta: è la più antica del Merisi dopo il profilo tracciato da Van Mander.
Nacque subito l’idea di un’edizione critica, ma l’impresa non era semplice perché il testo di Celio è un «Compendio delle Vite di Vasari» – redatto in polemica con l’aretino per contrastarne la visione troppo “toscanocentrica” – con l’aggiunta di oltre quaranta biografie posteriori all’opera vasariana. L’antico codice, poi trascritto e analizzato con perizia filologica, si è rivelato una miniera di informazioni sia per i nuovi dati sugli artisti attivi tra Cinque e Seicento (ma anche su quelli già trattati da Vasari), sia per comprendere il pensiero dell’autore nel complesso quadro delle teorie e pratiche artistiche del tempo.
Dopo cinque anni di lavoro, l’edizione critica delle Vite degli artisti finalmente è compiuta, pubblicata da Olschki con particolare cura (distinguendo cromaticamente le inedite «aggiunte» di Celio dalle parti desunte da Vasari).
Per ricostruire la genesi e le finalità delle Vite, Gandolfi è risalito alle fonti orali di cui l’autore si è servito per le sue aggiunte, evidenziando una rete di rapporti coltivati da Celio che in parte contraddice quell’immagine fosca che Baglione dà del suo acerrimo rivale. Di notevole interesse sono le testimonianze che Gaspare raccolse a Parma su Correggio, Parmigianino, Girolamo Mirola, o le notizie recepite dagli artisti (Scipione Pulzone, il gesuita Valeriano, Federico Zuccari, diversi allievi di Michelangelo e Tiziano), da grandi collezionisti (i Crescenzi e i Farnese) e da eruditi suoi amici, come Giano Nicio Eritreo, Francesco Maria Torrigio e Sebastiano Vannini.
Ancor più rilevante è la ricostruzione delle fonti scritte. Ne emerge che Celio ha usato entrambe le edizioni di Vasari: possedeva solo il primo volume della Torrentiniana (1550) – da lui comprato e annotato dal 1598, ora nella Biblioteca Nazionale di Firenze – e consultava la Giuntina (1568) per la parte successiva.
Molto utile è il raffronto che Gandolfi istituisce tra il testo vasariano e le postille di Celio, che già preannunciano la sua volontà di riscrivere le Vite per contestarne l’eccessivo campanilismo (con ironia scriverà che l’aretino, se avesse potuto contraddire la Bibbia, haveria detto che il primo huomo fusse creato in Toscana). Il maggiore obiettivo del pittore-biografo era infatti rivendicare il primato di Roma e l’influenza decisiva dell’antico sui maestri del Rinascimento, compresi Michelangelo e Raffaello (che egli elogia ma cerca di ‘romanizzare’). Quindi un’opera non meno partigiana, che si configura come una vera e propria riflessione sull’arte e sugli artisti, tesa anche a difendere la «buona maniera» dalla dilagante pittura «dal naturale» creata da Caravaggio (col quale però Celio condivideva l’odio per Baglione).
Rapido, infatti, è il passaggio dalla polemica rilettura del passato alla presa diretta sul presente, creando frequenti intrecci tra i fatti narrati, i giudizi critici, le analisi stilistiche e attributive, che aprono nuove prospettive di ricerca.
Le Vite di Celio, naturalmente, danno voce a una posizione diversa da quelle espresse dai biografi Giulio Mancini, Giovanni Baglione o Giovan Pietro Bellori e confermano la vivacità del dibattito artistico in una città conflittuale ma decisamente ‘pluralista’, qual era Roma nel primo Seicento.
Ma c’è di più, perché Gandolfi è riuscito a dimostrare che numerose postille di Bellori alle Vite di Baglione (vergate sull’esemplare della Biblioteca dei Lincei e Corsiniana) sono citazioni o parafrasi desunte dal manoscritto di Celio. Si tratta di un’importante acquisizione che invita a riconsiderare alcune notizie fornite dal grande critico e offre un indizio sul metodo da lui adottato. Come accade dopo ogni scoperta, gli studiosi dovranno continuare a valutare le nuove informazioni (ad esempio la possibile datazione al 1291 dei mosaici di Cavallini in S. Maria in Trastevere) e potranno aggiornare non pochi dati su un cospicuo gruppo di artisti.
L’edizione critica curata da Riccardo Gandolfi non esaurisce le indagini sulle Vite di Celio e non si sofferma sulle informazioni tratte da Vasari (già diffusamente e autorevolmente commentate), ma offre un prezioso strumento di studio che permette di approfondire uno dei più fecondi periodi della storia dell’arte. A lui va riconosciuto il merito di un’importante scoperta e di averla pubblicata con notevole impegno e metodo rigoroso.
Alessandro ZUCCARI*