di Vittorio SGARBI
La tela, foderata di recente, rappresenta, secondo l’agiografia corrispondente della Legenda Aurea, la visione di Santa Caterina d’Alessandria che riceve dal Bambino Gesù un anello nuziale in virtù del quale si manifesta sposa mistica di Cristo.
La scena, ambientata in un edificio a giorno dal colonnato all’antica, coinvolge, oltre Caterina, nelle consuete vesti di principessa e con due attributi a renderla ulteriormente riconoscibile, uno allusivo dei supplizi subiti (la ruota dentata, spezzatasi per miracolo), l’altro del martirio (la palma), la Madonna con il Bambino, e San Giuseppe che segue appartato in penombra.
Più inconsueta la presenza, come testimone di nozze di Caterina, di San Tommaso d’Aquino, riconoscibile dal consueto attributo solare in simbolo della divina sapienza, che potrebbe giustificarsi con una richiesta specifica del committente dell’opera o per ragioni storiche dal momento che il domenicano curò un importante studium nella chiesa pisana di Santa Caterina d’Alessandria, patrona delle attività dotte, e ne diffuse la fama in tutta la Toscana, così che in regione i due santi sono spesso associati (valga per tutte, fra i tanti esempi la superba Visione di San Tommaso nella chiesa di San Marco a Firenze, 1593,opera di Santi di Tito).
Nel gradino inferiore rispetto a quello sul quale agiscono i protagonisti si trova un vaso di fiori matrimoniali che alludono alla purezza virginale, alla sovranità e alla bellezza della sposa, l’ombra del quale indica la provenienza della luce sulla porzione di spazio in questione. Sullo sfondo, dietro una sorta di podio che potrebbe alludere anche a una cattedra dottorale, s’intravede un paesaggio rischiarato dal sorgere del sole ancora in corso, con i raggi che si fanno largo fra le tenebre notturne con effetti quasi da fuoco d’artificio. Salvo per alcune varianti che in sostanza ne riducono l’inquadratura, escludendo in particolare la fascia destra verticale all’interno della quale si trova anche il paesaggio, la stessa composizione del dipinto si ritrova in due rami di minori dimensioni, uno quadrangolare (cm 56 x 42.5, apparso in una vendita Christie’s a Milano del 28 maggio 2008, lotto n. 135), l’altro entro una cornice centinata a triplice bordatura dorata (cm 54,5 x 37, apparso prima in una vendita GersGascogne Enchères a Auch, Francia, 30 gennaio 2021, lotto n. 129, poi presso Drout a Parigi del 20 dicembre 2022, lotto n.3), entrambi riferiti all’umbro Flaminio Allegrini (1587-1663, padre di Francesco, anch’egli pittore), ai primi del Seicento collaboratore a Roma di Giuseppe Cesari più noto come il Cavalier d’Arpino, sulla base di un’attribuzione che Harwarth Röttgen, massimo studioso del Cesari, ha assegnato alla prima delle due opere (cfr. id., Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, Roma 2002, p. 534). Il confronto con gli altri due esemplari chiarisce innanzitutto che gli aspetti narrativi e sentimentali di questo Matrimonio mistico si concentrano massimamente sul nodo di “affetti” per cui il Bambino, avendo difficoltà a infilare l’anello nuziale a Caterina, rivolge lo sguardo in cerca d’aiuto alla madre che gli risponde con un’espressione rassicurante, apprestandosi ad assisterlo nell’operazione ,prima di rivolgere la benedizione ai due sposi. La resa di questa petite histoire fatta di sguardi complici e ammiccamenti garbati, paragonabile ad altre del Cavalier d’Arpino come quella, sempre in ambito di Sacra Famiglia, del Riposo dalla fuga in Egitto pervenuto al Museum of Fine Arts di Boston dalla collezione Barberini, viene sicuramente studiata con attenzione dal suo ideatore,a conoscenza delle variazioni sul tema dello sposalizio mistico dovute al Parmigianino sulla scorta di Correggio. Lo si deduce bene dal disegno a matita nera e rossa, mm 153 x 123, oggi al Louvre, Département desArts graphiques, inv. 2968 (cfr., fra gli altri, n.101 in M.S.Bolzoni, Il Cavalier d’Arpino disegnatore. Catalogo ragionato dell’opera grafica, tesi di dottorato presso Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a.a. 2012-13, poi convogliato in Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino maestro del disegno. Catalogo ragionato dell’opera grafica, Roma 2013), databile alla fine del Cinquecento, da cui trae origine lo sviluppo del rapporto fra le teste di madre e figlio così come sono nel dipinto, con il gioco di mani e le labbra soavemente socchiuse di Maria che vengono riprodotte in una Caterina estasiata per quanto le sta accadendo .
Una volta definito e dichiarato in pittura, risulta altamente significativo che lo stesso motivo centrale nel quale l’animato Bambino fa da congiunzione fra il viso di una donna e la mano di un’altra, anche se a notevole distanza di tempo e adeguato a soggetto diverso, si riscontri in un’opera tarda del Cavalier d’Arpino, la Madonna con Bambino e Sant’Anna oggi all’Episcopio/Museo Diocesano di Ferentino (cfr., fra gli altri, H.Röttgen, Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, Roma 2002, p. 475, n. 259), dove peraltro gli imbrunimenti, le asciuttezze e le incisività di tratto ,ormai conseguiti stabilmente nella cifra del Cesari, quasi da figurazione novecentesca anticipata , hanno fatto dimenticare i chiarori, le accuratezze volumetriche e le morbidezze classicheggianti praticati nel corso dell’ultimo decennio del Cinquecento, epoca in cui il prototipo del Matrimonio mistico di Santa Caterina, come vedremo, va credibilmente situato.
Non c’è dubbio, quindi, che ci si trovi entro l’orbita diretta del Cavalier d’Arpino, attingendo a un repertorio d’autore che si manifesta lungo tempi anche distanti in differenti riprese. Se può essere pacifico che si riconosca a lui l’inventio dell’opera, più complicato districarsi fra i tre esemplari conosciuti ,se si tiene conto dell’organizzazione dittatoriale che vigeva in botteghe di impostazione pre-industriale come quella del Cavaliere, fra le più prolifiche della sua epoca (è noto che anche Caravaggio fu uno dei suoi collaboratori temporanei, secondo Bellori “applicato a dipinger fiori e frutti sì bene contrafatti che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta”; cfr. id., Le vite de’pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672, ed. 2009, p.213), tale da autorizzare il capobottega ad attribuirsi la paternità artistica di ogni prodotto di sua ideazione o che fosse semplicemente uscito dalla sua “azienda”, ma anche quale dei dipinti sia più fedele all’inventio originaria, sempre che sia possibile attraverso di essi individuarne una o se invece non si abbia a che fare con una formulazione in divenire di cui ciascun dipinto costituisce a suo modo una tappa.
Rispetto alla tela che si sta esaminando, l’immagine del rame rinuncia, alla parte destra dalla metà del podio in poi, escludendo quindi anche il fondo con un paesaggio nel gusto creativamente agreste di Paul Bril, sicuramente in relazione col Cavaliere (potrebbe essere stato un altro suo collaboratore), nel corso degli ultimi anni del Cinquecento. Fra le altre differenze rilevabili, la mancanza del secondo gradino (il primo è reso con una certa approssimazione), la presenza in un terminale di montante del trono mariano di un ornamento circolare che compensa quello perduto nel piede e la minore abbondanza di fiori nel vaso.
L’attribuzione all’Allegrini padre del dipinto già in vendita Christie’s ha condizionato automaticamente anche quella dell’altro rame passato in vendita a Auch e Parigi, di cui ripropone quasi integralmente l’aspetto (dalla composizione manca solo il vaso).
La questione si intrica ulteriormente se si riconosce la possibilità, del tutto plausibile, che l’esemplare migliore, probabilmente al di fuori delle possibilità dell’Allegrini padre
(cfr. a riguardo, fra gli altri, M.Nocella, Flaminio e Francesco Allegrini: novità documentarie e aggiunte al corpus delle opere, Città di Castello 2007), possa rientrare nella paternità del Cavaliere anche per quanto riguarda la fattura diretta del Cavaliere, lungo una fase, fra una metà e l’altra dell’ultimo decennio del Cinquecento, senza precedenti e senza seguiti equivalenti nella sua carriera, coincidente almeno all’inizio col propizio papato di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1606), che lo vede anche imprevedibilmente, lui che del Manierismo a Roma doveva sentirsi l’erede più legittimo, recuperare, in primo luogo nella dimensione privata dei piccoli-medi formati che lo emancipano dagli obblighi di magniloquenza delle commesse pubbliche, invogliandolo a esperienze stilistiche anche sperimentali, un senso classicista della misura che si muove in maniera uguale e contraria rispetto a quanto proveniva dall’accademismo bolognese, guardando certamente al faro inesauribile di Raffaello anche attraverso gli scolari e quanti lo stavano rilanciando secondo direzioni espressive aggiornate (l’urbinate Barocci, gli Zuccari), ma riservando altrettanto interesse alla lezione dell’ultimo Rinascimento e del Manierismo toscano così come era giunto a Roma, del tonalismo veneziano e del colorismo fiammingo, senza peraltro dimenticare la ricerca padana di Correggio e Parmigianino, impareggiabili nel coniugare pittoricamente invenzione e grazia.
La soluzione più lineare al problema posto, tutta all’interno della fabbrica del Cesari, prevederebbe, piuttosto di un processo progressivo in cui le versioni iconograficamente più semplificate hanno via via preceduto la più complessa, che la tela del Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria in presenza di San Tommaso d’Aquino rappresenti o rifletta un originale integrale del Cavalier d’Arpino di cui testimonia l’invenzione al completo, concepita fra la metà dell’ultimo decennio del Cinquecento e i primi del successivo. Di questo originale l’esemplare già in vendita a Christie’s può essere considerato una replica o una copia di notevole qualità che ne riduce l’interezza dell’invenzione.
Vittorio SGARBI Roma 7 Luglio 2024