di M. Lucrezia VICINI
SANTE DI APOLLONIO DEL CELANDRO
San Sebastiano
Tempera su tavola, cm.73,3 x 47. Sul retro la scritta in caratteri seicenteschi: “dell’heredità Veralli”
Inv. n. 60. Collocazione: seconda sala
Esposizioni: Pietro Vannucci, detto il Perugino. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 28 febbraio-18 luglio 2004
Nuovi studi. Nuove attribuzioni (?)
L’opera faceva parte di un nucleo di venti dipinti lasciati in dote a Maria Veralli dallo zio cardinale, Fabrizio Veralli. Fu il primo nucleo ad essere inviato a Palazzo Spada quasi contemporaneamente al matrimonio con Orazio Spada, nipote di Bernardino Spada, avvenuto nel 1636 (1).
Di queste venti opere, solo due sono pervenute sino a noi. Oltre al dipinto in esame, va ricordato un San Giovanni Battista, da identificare con probabilità con quello di simile soggetto, copia da Raffaello, in deposito all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Nell’elenco che le trascrive, datato novembre 1637, il dipinto è citato come: un quadro di San Sebastiano in tavola piccolo (2).
Il Cardinale Spada ne possedeva uno simile, elencato nell’inventario dei suoi beni ereditari del 1661 nella Sala Grande, attuale Sala di Adunanza Generale del Consiglio di Stato, così descritto: Un S.Bastiano bislungo (3). Quest’opera, non più esistente, viene regolarmente citata negli inventari Spada fino alla ricognizione del 1925. Solitamente i due dipinti compaiono elencati insieme, entrambi senza riferimenti attributivi o come provenienti da una medesima scuola, generando confusione dal punto di vista dell’identificazione.
Solo nell’inventario dei beni mobili del 1759, sono ricordati in sedi diverse ma senza che si riesca a distinguere con precisione quale sia il presente e quale quello del cardinale, tale è identica la descrizione Uno è citato al terzo piano di Palazzo Spada, nel passetto contiguo alla stanza del camino, come:
Un quadro di palmo uno avantagiato e 2 e mezzo in piedi, cornice liscia dorata, rappresenta San Sebastiano dipinto in legno, molto patito scudi 60. L’altro, sempre al terzo piano, nella Galleria dove si va alle stanze delle donne, descritto come: Altro di palmo uno e mezzo, e due avantagiati in piedi con piccola cornice antica dorata rappresenta San Sebastiano dipinto in legno (4).
Il fidecommesso del 1823 li registra in coppia, tra le opere della prima sala del Museo come:
Due piccoli quadri in tavola, rappresentanti San Sebastiano, di scuola antica (5).
Nell’appendice al Fidecommesso del 1862 sono segnalati sempre in prima sala, con i numeri di inventario 59 e 60, il primo attribuito alla scuola del Sodoma, il secondo definito semplicemente antico (6). Anche nella ricognizione inventariale di Pietro Poncini del 1925 e nella coeva stima di Hermanin i due dipinti sono elencati in sequenza nella prima sala con i numeri 59 e 60. Il primo è valutato lire 15.000 e assegnato sempre alla scuola del Sodoma, il secondo valutato lire 20.00 e meglio riferito alla scuola umbra del ‘400 (7).
Quando nel 1951 Federico Zeri si ritrovò a operare il riassetto del Museo per la sua riapertura ufficiale al pubblico, non poteva disporre che di uno dei due dipinti, quello recante sul retro la scritta in caratteri seicenteschi “della eredità Veralli” e corrispondente al nostro. Fu esposto in seconda sala, dove ancora è visibile, tra le opere più antiche della collezione.
Già attribuito dal De Montault al Sodoma (8), è stato riferito da Ulmann (9) alla Bottega o alla Scuola di Antonio e Piero Pollaiolo.
Venturi (10) nega ogni relazione col Sodoma o con la sua scuola, e attribuisce la tavoletta al periodo giovanile di Fiorenzo di Lorenzo. Dopo l’assegnazione di Hermanin (1925) alla scuola Umbra del ‘400, Van Marle (11) riporta l’attribuzione alla cerchia dei Pollaiolo avanzata da Ulmann. Porcella (12), si rifà a Fiorenzo di Lorenzo, ponendo il dipinto vicino all’affresco con la Crocifissione e Santi, del 1492 a Monte l’Abate e alla tavoletta con Madonna fra i Santi Sebastiano e Cristoforo nell’Istituto Staedel di Francorforte sul Meno.
La critica successiva concorda prevalentemente l’attribuzione a Fiorenzo di Lorenzo, a partire da Berenson (13) e Van Marle (14) che nel riconsiderare la sua precedente opinione ritiene il dipinto di poco posteriore al San Sebastiano della Pinacoteca di Perugia. Anche Santangelo (15) fa riferimento a Fiorenzo di Lorenzo e lo data al 1478 circa, notando le affinità con il San Sebastiano di Pietro Perugino nella chiesa del Cerqueto. Lo valuta anteriore alle analoghe figurazioni di Fiorenzo di Lorenzo nella Pinacoteca di Perugia e a Roma, presso Castel Sant’Angelo.
Hermanin che si era soffermato più genericamente sulla scuola umbra del ‘400 (1925), fa il nome di Fiorenzo di Lorenzo, confermato ancora da Berenson (16). Solo Longhi (17), nel sottolineare l’alta qualità della figura dell’Angelo e la sua stretta vicinanza con le opere giovanili di Pietro Perugino chiede di spostare proprio al Perugino l’attribuzione corrente a Fiorenzo di Lorenzo. Zeri (18) insiste con l’attribuzione a Fiorenzo di Lorenzo. La scritta sul retro “della eredità Veralli” gli fa ritenere possibile l’ingresso del dipinto nel Museo con il matrimonio di Orazio e Maria Veralli. Lo studioso ravvisa la tavoletta vicinissima al polittico di Fiorenzo nella Pinacoteca di Perugia e la data intorno al 1476. Secondo lui si tratta di una fedele derivazione di un’opera giovanile di Pietro Perugino, come gli fa sembrare la figurina dell’Angelo, che vede prossima alle parti del Perugino nella serie delle Storie di San Bernardino nella Pinacoteca di Perugia del 1473.
Per Zeri, lo stesso schema compositivo viene ripetuto da Fiorenzo, con variazioni più o meno essenziali in opere come il San Sebastiano della Pinacoteca di Perugia, il San Sebastiano in affresco della Donazione Contini-Bonacossi in Castel Sant’Angelo, e in una tavoletta con la Crocifissione e quattro Santi già in Collezione privata a Roma. Nel catalogo redatto nel 1970 insieme a Luisa Mortari, allora direttrice del Museo, Zeri ribadisce l’attribuzione del dipinto al pittore, definendolo finissimo dipinto, databile al 1475 circa, al momento in cui l’influsso di Pietro Perugino non si è ancora cristallizzato nella legnosa cifra tipica del Fiorenzo più tardo (19).
Le convincenti rassicurazioni di Zeri non hanno generato più dubbi intorno alla autografia dell’opera, facendola apparire in tutti questi anni, anche agli occhi dei visitatori del Museo, uno dei capisaldi del pittore noto prevalentemente in area umbra, fino a quando una rivoluzionaria scoperta documentaria (20) non ne ha messo in discussione i significati, sia pure indirettamente.
La scoperta riguarda infatti più propriamente il Trittico della Giustizia della Galleria Nazionale dell’Umbria che, da sempre attribuito a Fiorenzo di Lorenzo, risulta essere stato in realtà eseguito, in base ai pagamenti rintracciati, effettuati tra il 1475-1476, dai maestri perugini Sante di Apollonio del Celandro, cui spettano le tavole laterali e la predella con Cristo morto fra la Madonna dolente e Santi, e da Bartolomeo Caporali, esecutore della tavola centrale con la Madonna col Bambino in trono fra angeli.
La novità ha inevitabilmente indotto la critica ad un riesame del panorama della pittura perugina degli anni settanta e ottanta del quattrocento e del catalogo dei tre pittori coinvolti, e ha richiesto inoltre, una rilettura del trittico stesso, scegliendo come opportuna sede la mostra intitolata al Perugino svoltasi ad Urbino nel 2004.
Laura Teza nel suo saggio di catalogo (21), nel ripercorrere questo periodo ricostruisce la non facile attività professionale e di bottega dei due poco noti pittori ed elabora una attenta analisi sui loro specifici interventi nel trittico.
Dallo studio dei santi posti lateralmente e nella predella attribuibili alla mano di Sante di Apollonio, emergono inconfutabili affinità con i due da sempre comparati San Sebastiano della Galleria Nazionale dell’Umbria e della Galleria Spada, ritenuti proprio di Fiorenzo di Lorenzo. Il confronto le consente di eliminarli dal catalogo del pittore e di assegnarli a Sante di Apollonio. Allo stesso artista restituisce altre opere tradizionalmente di Fiorenzo, come la Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Bartolomeo nella National Gallery di Londra, la Madonna col Bambino del Museo Jacquemart-André di Parigi. Inoltre gli assegna due delle otto tavolette di autori vari con le Storie di San Bernardino da Siena della Galleria Nazionale dell’Umbria, precisamente il Miracolo della guarigione dell’uomo travolto dal toro e il Miracolo della guarigione di una donna sterile. Tutte opere accomunate dagli stessi caratteri incisivi e taglienti e dalle tonalità cangianti metalliche.
Artista sconosciuto, Sante di Apollonio, era detto del Celandro, un termine in uso a Perugia sin dal sec. XIV per indicare un mangano o una macchina a pesanti rulli utilizzati per lavorare la lana e altri tessuti e raffinarli. Lo strumento farebbe quindi risalire ad un tipo di attività familiare del pittore, legata al commercio di stoffe, molto sviluppato al suo tempo per gli scambi che il porto di Ancona favoriva con l’oriente e con le regioni centro settentrionali dell’Italia, e che faceva di Perugia il punto di incontro dei mercanti e di principale smercio (22).
Di Bartolomeo Caporali, con cui Sante di Apollonio aveva stretto il sodalizio artistico, si hanno notizie più concrete. Si sa che insieme al fratello Giapeco manteneva a Perugia una attiva bottega di carattere imprenditoriale specializzata in arti minori e che loro stessi fossero pittori, miniatori e doratori. Ma i contatti e gli orizzonti culturali di Bartolomeo non rimasero circoscritti in città. Dall’esame del suo tuttavia esiguo catalogo si evincono componenti toscane e marchigiane, dal Verrocchio al Botticelli fino al Perugino stesso.
Ad esse si aggiungono tangenze romane di Antoniazzo assimilate durante la documentata partecipazione 1467 nel cantiere di Palazzo Venezia voluto da Pietro Barbo, poi Papa Paolo II (1464 -1471), in particolare nella doratura del soffitto della chiesa per il quale aveva fornito anche una buona quantità di foglie d’oro(23).
Sante di Apollonio pur con meno dati biografici da offrire, mostra di possedere ugualmente la stessa cultura eterogenea di Caporale che unisce agli influssi di una sua ipotizzabile originaria formazione fiorentina, tanto sono evidenti nella sua arte i riferimenti al Verrocchio e al Pollaiuolo, quelli umbro-marchigiani del suo ambiente, e padovani del Mantegna, anche quest’ultimi largamente manifestati ad esempio nella esecuzione dei due San Sebastiano.
Santo e martire cristiano, Sebastiano si era segretamente convertito al cristianesimo mentre era un ufficiale della guardia pretoria di Diocleziano, nel III secolo. Scoperto, fu condannato alla pena capitale e gli arcieri che lo avevano giustiziato lo abbandonarono sul posto credendolo morto. Poiché le frecce non avevano leso nessun organo vitale, potè essere curato. Quando ritornò dall’imperatore a rinnovare la sua professione di fede, fu ucciso a bastonate e gettato nella cloaca massima (24) Hall,1984, pp.367-368). Subito a partire dal quarto secolo, ebbe inizio il culto di San Sebastiano come protettore contro la peste.
Come è stato ipotizzato da Teza per l’analogo della pinacoteca di Perugia, anche il dipinto Spada potrebbe essere considerato un ex voto eseguito durante le pestilenze che divamparono a Perugia e nei suoi dintorni nella seconda metà del ‘400, specie nel periodo 1475 – 1479.
Il dipinto di Perugia differisce tuttavia dal nostro per alcuni varianti: la figura del Santo è più scattante e maggiormente dotata anatomicamente, ed è posta in un contesto architettonico che denota una certa ricchezza e raffinatezza nei marmi squadrati che rivestono anche le arcate in rovina.
Nel dipinto Spada il Santo in deliquio legato alla colonna, ha dietro di sé un vasto orizzonte, delimitato prospetticamente dai due filiformi alberi posti ai lati e dai cirri a forma di chiocciola, motivo quest’ultimo adottato in area veneta e ripreso dalla cultura umbro marchigiana e romagnola fino al Palmezzano e ai suoi seguaci. In alto a sinistra, all’altezza dell’aureola, in un raro particolare iconografico, un angelo elegantemente abbigliato porge alla sua testa una corona, simbolo del martirio cristiano.
Purtroppo le attuali condizioni di conservazione non danno risalto all’opera dal punto di vista della luce e del trattamento pittorico, ridotta come è allo stato di preparazione da inspiegabili drastiche puliture effettuate in passato. Una condizione già lamentata da Zeri nella scheda di catalogo del 1954 che così si esprimeva:
la figura del Santo ha gravemente sofferto per eccessive puliture che hanno messo a nudo la preparazione verde delle carni, specie nel torace e nella gamba sinistra. Altri gravi danni nei due alberi, nel cielo e nella figura dell’Angelo, che, nelle vesti, ha del tutto perduto la velatura finale. Nel secolo XIX le parti danneggiate erano state pesantemente ridipinte; la rimozione dei ritocchi è stata effettuata nel 1946.
Restano tuttavia saldi i caratteri e motivi tipici del San Sebastiano del Mantegna, dipinto dall’artista per il Podestà di Padova nel 1459, oggi al Kunstistoriches Museum di Vienna. Al genere di architettura e dei panneggi che si increspano in un segno metallico e spigoloso che richiama anche la scuola ferrarese, si accompagnano ricerche del dinamismo anatomico proprie delle coeve tendenze toscane.
M. Lucrezia VICINI Roma 10 Dicembre 2023
NOTE