di Francesco PETRUCCI
Come noto un problema sociale di carattere endemico che interessò per secoli lo Stato Pontifico fu la piaga del Brigantaggio, fino alla sua definitiva estirpazione che si fa risalire al 1825, con temporanea ripresa tra il 1860 e il 1870 dopo l’Unità d’Italia.
Il fenomeno conobbe in area laziale il suo momento di massima espansione nel primo quarto dell’Ottocento, in conseguenza dei capovolgimenti politici successivi all’occupazione francese del 1798, confondendosi e saldandosi all’insorgenza e a motivazioni di carattere sociale, religioso e politico comuni al vicino regno di Napoli.[1]
Il ritratto eseguito ad Ariccia
Una viva memoria del brigantaggio è costituita dalla presenza nel Palazzo Chigi di Ariccia del ritratto del terribile brigante Antonio Gasbarrone (Sonnino, 12 dicembre 1793 – Abiategrasso, 1 aprile 1882), detto anche “Gasparone” o “Gasperone”.
Si tratta di una bella acquaforte acquerellata delineata al tratto, di cui è noto anche un esemplare monocromo conservato presso il Castello Sforzesco di Milano (fig. 1).[2]
L’iscrizione impressa sul foglio in basso riporta a caratteri capitali: “GASBARRONE / Già capo Brigante…”, mentre a destra è iscritto più piccolo in corsivo: “Disegnato dal vero in Ariccia li 23. 7mbre 1825.”. [3]
Il ritratto raffigura il famoso brigante di Sonnino a mezzo busto, scorciato sul mezzo profilo sinistro, la mano destra poggiata al calcio del fucile “alla francese” inciso e finemente lavorato.[4]
I caratteri fisiognomici del volto sono caratterizzati da vivo realismo, senza alcuna idealizzazione: affilato naso aquilino, rughe espressive sulla fronte e attorno agli occhi, lunghe basette fino al mento, vistosa treccia che termina con nastrino annodato, fazzoletto al collo a strisce azzurre, celesti e grigie con bordature dorate, grande orecchino a cerchio in oro sul lobo sinistro.
Il brigante indossa il caratteristico cappello conico con larga banda bianca, una giacca di velluto grigio con bordo dorato, un gilet rosso con asole e bottoni dorati a fuso, camicia di lino di cui si intravede il colletto bianco, cartucciera in cuoio da cui emergono le else finemente istoriate di una pistola e di un coltellaccio da caccia messo per traverso.
La tipica “padroncina” che copre la cartuccera reca a destra un’immagine della Madonna con Gesù Bambino, riferimento alla Madonna delle Grazie di Sonnino, a destra sant’Antonio di Padova, santo molto venerato nella cittadina laziale e onomastico del brigante; al centro un’aquila circondata da serti di quercia, simbolo del municipio ciociaro ed emblema di Gasparone. Le immagini dorate staccano sul fondo blu della “padroncina”.
Paternità del ritratto
In un primo momento ritenevo che il ritratto potesse essere opera di un artista francese, fra i tanti che frequentavano la celebre Locanda Martorelli sulla piazza di Corte, tappa obbligata per i numerosi viaggiatori italiani e stranieri che si recavano sui Colli Albani o qui transitavano per Napoli.[5]
Infatti l’incisione reca in basso la scritta a penna “célèbre brigand italienne”, ma si tratta chiaramente di un’aggiunta successiva.
Il ritratto venne eseguito in occasione della sosta ad Ariccia del brigante lungo il tragitto sulla via Appia tra Sonnino e Roma, probabilmente su commissione, chiamando un abile ritrattista ad immortalare il famoso malvivente, prima che fosse internato nel carcere di Castel Sant’Angelo.
Gasparone infatti si era arreso a Sonnino con i suoi sodali il 19 settembre 1825 e la notte del 23 la banda soggiornò nel piano con ingresso su via del Parco del palazzo baronale (ex “Oliara”, oggi Campus della Auburn University), che era stato prigione dei soldati austriaci durante la guerra austro-napoletana del 1744. Proprio qui i briganti vennero incatenati la mattina all’alba e condotti in fila nelle carceri pontificie.[6]
La tecnica esecutiva e lo stile dell’acquaforte sono molto vicini ai modi di Bartolomeo Pinelli (Roma 1781-1835), che, come noto, oltre ad essere stato il più prolifico illustratore di scene popolari e tematiche pittoresche romane, è stato il primo e massimo illustratore dei briganti e delle loro avventurose vicende, pubblicando varie serie di incisioni ad acquaforte, precedute da numerosi disegni ed acquerelli.[7]
Dopo la Fucilazione del brigante Spadolino eseguita nel 1812, l’artista comprese l’enorme portata iconografica del tema, molto attrattivo soprattutto per i viaggiatori stranieri, illustrando Venticinque soggetti di Briganti per il conte russo Nikolaj Dmitrievitch Gouriev (1822) e la Raccolta de’ fatti li più interessanti eseguiti dal capo brigante Massaroni per la strada che da Roma conduce a Napoli, dall’anno 1818 fino al 1822 (1823), pubblicata anche in due edizioni inglesi (figg. 2, 3).
Ragioni stilistiche
Soffermandoci sull’analisi formale del ritratto al confronto con le opere del Pinelli, possiamo notare stringenti omogeneità stilistiche. Affine è il modo di delineare al tratto con solco forte e deciso i contorni della figura, di chiaroscurare con segni paralleli e in parte incrociati che assecondano le volumetrie e le curve, di tratteggiare con piccoli tocchi alcuni dettagli anatomici.
Simile è anche la pittura finale ad acquerello sui toni del blu, rosso e celeste, comune a tutte le sue incisioni acquerellate e ai suoi disegni.
L’adozione della “tecnica lineare” tipica del Pinelli viene adattata alla posa ravvicinata del ritratto, naturalmente più dettagliata nei particolari. La tecnica è l’acquaforte, quella prediletta dal grande artista e illustratore.
Pinelli fu anche un ottimo ritrattista, come documentano alcuni fogli conservati presso il Museo di Roma. Valgano come confronto il ritratto di “Vero discendente romano” (fig. 4) che mostra un modo di disegnare analogo all’effigie di Gasparone, anche nell’inquadratura sul mezzo profilo e la tendenza al tratteggio insistito, e il suo pendant con ritratto di “Vera Romana di Trastevere” (fig. 5).[8]
Contiguità
d’impostazione e di tecnica esecutiva, anche se in quel caso più compendiaria per essere un piccolo frontespizio, si riscontrano anche con il ritratto del brigante Massaroni, che introduce alla Raccolta de’ fatti li più interessanti della sua banda incisi da Pinelli nel 1823 (fig. 6).[9]
Fonte d’ispirazione
Ma il confronto decisivo è con l’incisione edita dalla tipografia Capparoni di Roma raffigurante, come recita l’iscrizione sottostante, L’Arciprete Pellegrini di Sezze persuade Gasbarrone ed i suoi Compagni ad arrendersi a descrizione del Governo come in fatti seguì la resa di tutti i Briganti ai 19. 7bre 1825. In basso a sinistra è riportato l’autore e l’anno: Pinelli fece 1825 (fig. 7).[10]
Ebbene il ritratto dell’imponente figura del brigante, notoriamente alto e robusto, è ripreso letteralmente proprio da quello nell’incisione in esame, che deve ritenersi il suo prototipo di riferimento.
Lo stesso naso aquilino, le medesime sopracciglia folte e arcuate, simili l’occhio con le palpebre calate, le labbra carnose, i capelli lisci e incolti che cadono sulle tempie, la lunga treccia annodata, il grande orecchino, l’elsa del pugnale che esce dalla cinta.
L’artista ha riproposto nel cappello anche la stessa immagine del Madonna delle Grazie presente sulla “padroncina”, per dargli maggiore visibilità nell’incisione di gruppo. Se si confronta il ritratto nella stampa di Capparoni ribaltato specularmente con quello chigiano, essi risultano quasi sovrapponibili (figg. 8, 9).
Evidentemente Pinelli utilizzò il ritratto eseguito dal vero ad Ariccia nel settembre 1825, come riferimento iconografico per l’incisione predisposta immediatamente dopo allo scopo di celebrare la resa del bandito, che segnò anche la fine del Brigantaggio nello Stato Pontificio come fenomeno endemico.
Un disegno acquerellato attribuito a Bartolomeo Pinelli, che ripropone la medesima composizione ma con varianti soprattutto nel paesaggio e nelle fisionomie maggiormente idealizzate dei protagonisti, è ricomparso recentemente in asta da Finarte a Roma. Si tratta di una “memoria” della composizione e non di un modello preparatorio per la stessa, probabilmente mano di Achille Pinelli, figlio dell’artista, per la sua resa meno vigorosa (fig. 10).[11]
Il ritratto di Ariccia – a documentare la sua eccezionale importanza iconografica – è stato fonte di ispirazione anche per il pittore francese Charles de Châtillon (1777-1844), che nel suo libro Quinze ans d’exil dans les Etats Romains…, biografia romanzata di Gasparone, presenta come antiporta una sua litografia con un ritratto idealizzato del brigante, ispirato con varianti proprio a quello qui attribuito a Pinelli (fig. 11).[12]
Si conoscono altri ritratti del sonninese, molti d’invenzione. Tra le effigi reali la xilografia inserita nella biografia del compagno Pietro Masi, che lo raffigura più avanzato negli anni con una lunga barba bianca, certamente tratta, pur nella modestia del risultato conseguito, da una conoscenza diretta.
Costituisce un punto di riferimento certo per la sua iconografia una litografia del 1866 intestata “Antoine Gasbaroni dans la prison au fort de Civita-Castellana”.
Di intenso verismo e bella qualità pittorica i ritratti eseguiti da Filippo Balbi (Napoli 1806 – Alatri 1890), ove emerge ancora il carattere volitivo e lo sguardo da aquila dell’indomito bandito: uno conservato presso il Museo di Criminologia di Roma ed esposto nel 1932 alla Mostra di Roma nell’Ottocento (fig. 12), l’altro ricomparso in asta Dorotheum a Vienna il 24 ottobre 2018, lotto 521 (fig. 13). Il malvivente posò sicuramente in carcere attorno al 1850-60, mentre successivamente – a studio come da prassi – i ritratti furono ambientati in un paesaggio.[13]
Un fenomeno Pop
Gasparone fu una vera icona Pop in anticipo sui tempi. Un influencer che si trascinò dietro migliaia di followers – parafrasando un gergo in voga tra seguaci di social-network –, tra contadini, pastori, popolani/e, viaggiatori anglo-francofoni ed ecclesiastici anti-giacobini.
Mitizzato sostenitore del Cattolicesimo in opposizione all’anticlericalismo rivoluzionario, difensore dei deboli e degli oppressi contro i soprusi dei potenti, era venerato dal popolo come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri.
Celeberrimo all’estero tra la borghesia e la nobiltà quale esempio di eroismo sprezzante del pericolo, poco importa che si fosse macchiato di esecrabili delitti ed efferati atti criminali.
Tanto famoso da essere ricordato da Alexandre Dumas che nel 1835 gli fece visita nel Forte Michelangelo di Civitavecchia, citandolo anche ne Il Conte di Montecristo.
Stendhal, console francese nello Stato Pontificio, nel 1840 scriveva ad un amico da Civitavecchia:
“Su cento stranieri che giungono qui, cinquanta vogliono vedere il celebre brigante Gasparone, e quattro o cinque M. de Stendhal”.
“Gasperone” ad Ariccia
La presenza del brigante ad Ariccia è acclarata dalle testimonianze di illustri viaggiatori del suo tempo. Si tramandavano inoltre fino al secolo scorso vivaci ricordi popolari, che in parte ebbi modo di registrare dalle viva voce di anziani ariccini e degli stessi Chigi.[14]
Massimo d’Azeglio (1798-1866), pittore e poi noto statista che fu sui Colli Albani negli anni ’20 del XIX secolo, soggiornando nel 1826 presso la Locanda Martorelli, ricorda la sosta del famoso brigante con la sua banda a Palazzo Chigi:
“Il governo del papa era, com’è, e come sarà sempre, in identico caso. Tutte le sue prove per distruggere i briganti erano riuscite vane, perché gli strumenti che adoperavano erano fradici. E quindi non riuscì mai a nulla, fin al giorno in cui conchiuse con essi un trattato, da potenza a potenza; trattato che i briganti osservarono, e che il governo violò, facendo prigione a tradimento Gasparone e tutta la sua compagnia nel Castello della Riccia”.[15]
Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882), massimo poeta e scrittore americano del XIX secolo, che nelle sue memorie del viaggio in Italia dedica un intero capitolo a The village of La Riccia, ove si stabilì presso la Locanda Martorelli nel settembre 1828, fornisce interessanti informazioni sul brigante:
“Mi ricordo che un mattino, mentre sedevo nel caffè del paese facendo colazione, un grande e bellissimo cane spaniel entrò nella stanza e, appoggiando il suo muso sulle mie ginocchia, rivolse il suo sguardo al mio viso con occhi compassionevoli; povero cane!, sembrava quasi volesse dirmi che non aveva mangiato. Gli detti un boccone di pane che ingoiò quasi senza muovere le sue lunghe, setose orecchie, e mantenendo i dolci, bellissimi occhi ancora fissi nei miei, batté la coda sul pavimento come chi chiama un cameriere. Era un animale magnifico e dall’atteggiamento così docile ed affettuoso che chiesi al cameriere chi fosse il padrone. “Non ne ha nessuno”, disse il ragazzo”.“Come!” dissi “un così bel cane senza padrone?” “Eh, signore, apparteneva a Gasparoni, il famoso bandito delle montagne abruzzesi, che uccise molte persone, per poi, alla fine, essere catturato e mandato in prigione a vita. Quello sul muro è il suo ritratto”.
“Era appeso proprio di fronte a me; una stampa grossolana che rappresentava il volto scuro e severo di quel peccatore, un viso dall’espressione selvaggiamente feroce e di una sensualità rozza. Avevo già sentito la sua storia raccontata nel villaggio, la solita storia di attentati, violenza ed assassinii. È mai possibile, pensai, che quest’uomo collerico avesse scelto la compagnia di un cane così buono e docile? Che rimprovero deve aver visto in quei grandi, docili occhi mentre accarezzava il suo favorito sulla testa, macchiando le sue lunghe orecchi di sangue!…
Il cielo sembrava essere stato così misericordioso da stabilire che nessuno, no, neanche il più depravato degli uomini, dovesse essere lasciato alla mercé della propria natura malvagia, senza una guida paziente, una moglie, una figlia, un cane compiacente dagli occhi docili, il cui sguardo muto supplichevole riusciva a rimproverare il peccatore! Se questa creatura muta ed allegra che lambisce la mano di un estraneo, potesse possedere il dono della parola, quante storie di notti tempestose, passi di montagna, rifugi solitari potrebbe – ma queste sono riflessioni banali!”.[16]
Evidentemente Gasparone, che non conosceva il proprio vero destino, aveva portato con sé il suo fidato cane durante il tragitto sulla via Appia da Sonnino, pensando di poterlo tenere una volta amnistiato. Proprio ad Ariccia dovette acquisire la consapevolezza che lo aspettava, almeno provvisoriamente, il carcere. Probabilmente prese quindi la decisione di lasciare il cane ad Antonio Martorelli, gestore della locanda e personalità di spicco nel paese, di cui fu anche Sindaco, con la speranza di poterlo poi recuperare: cosa che invece non sarebbe mai avvenuta!
Per quanto riguarda il ritratto ricordato da Longfellow, forse si trattava di un esemplare di quello in questione, sebbene la definizione di “stampa grossolana” non corrisponda alla qualità dell’opera. Poteva anche essere una taglia per la cattura del brigante, con una sua immagine di fortuna.
A proposito del ritratto l’avvocato Antonio Sante Martorelli, nipote del gestore della locanda e quindi fonte presumibilmente attendibile, riferisce invece di un dipinto murario poi staccato: “Anni addietro un vecchio quasi centenario mi assicurò che l’affresco era volato all’estero sotto il Governo Pontificio!”[17]
Il tesoro nel Parco Chigi
Un’antica tradizione di casa Chigi, ancora molto diffusa in loco, riferiva che nel parco annesso al palazzo baronale il brigante, che nelle sue escursioni aveva battuto dall’Abruzzo ai Castelli Romani, prima di consegnarsi nelle mani della giustizia avesse seppellito il suo favoloso tesoro con la speranza di venirlo poi a recuperare.
D’altronde il territorio di Ariccia, un tempo circondata da vaste foreste, era il luogo ideale per imboscate e assalti alla diligenza, con ripetuti episodi di brigantaggio documentati perlomeno dal XVII secolo. All’epoca imperversava il famigerato Giuseppe Pozzi alias “Feliciotto”, poi catturato e decapitato nel settembre 1653 con la testa esposta in una gabbia in piazza di Corte sul Casino del Governatore “ad esempio di facinorosi “(fig. 14).[18]
Nel Parco Chigi ci sono antri e spelonche sotterranee, sia nella parte alta presso il cancello del “Lampioncino”, che nelle cosiddette “Neviere” (figg. 15, 16), dove si dice che egli si sia temporaneamente rifugiato, consenzienti i Chigi che ne ottenevano la benevolenza, tanto che da allora presero il nome di “Grotte di Gasperone”.[19]
A dire il vero le supposte tacite connivenze tra i Chigi e i briganti non sembrano senza fondamento, altrimenti come si spiegherebbe che il principe Agostino III (1771-1855), a leggere il suo diario, durante le villeggiature tra estate e autunno si recasse quotidianamente a passeggiare sui Colli Albani attraversando boschi, monti e radure senza che nulla mai gli accadesse (fig. 17)?
Probabilmente si trattava di una silente complicità simile a quella immaginata tra il Marchese del Grillo e il brigante don Bastiano, interpretati da Sordi e Flavio Bucci nel celebre film di Mario Monicelli (1981).
Racconti popolari
Memorie popolari raccontavano di doni fatti da “Gasperone”, in cambio di viveri ed “altro”, a due belle sorelle dell’Ariccia dette “le Ioie”, ma anche di una sorta di immunità riservata ad alcuni personaggi altolocati o agli ospiti dei feudatari.
Anni fa ebbi modo di trascrivere una storia che mi fu raccontata da Ottavio Silvestroni di Ariccia, tramandata oralmente nella sua famiglia da generazioni. Un suo antenato si recava a Velletri per andare a comprare le doghe per le botti; lungo la strada che dalla valle saliva verso Genzano, alle pendici di Colle Pardo (luogo prediletto da secoli per imboscate), venne affiancato da uno sconosciuto che gli disse: “ma non hai paura di girare così da solo, non lo sai che qui si aggira il brigante Gasperone?”; Il Silvestroni, con quella tipica arguzia contadina, rispose: “Ma cosa devo temere, che può rubarmi, la pelle?”.
Così i due continuarono a camminare mentre lo sconosciuto seguitava a parlare del bandito ed il contadino rispondeva prontamente, con scambio di sagaci battute.
Arrivati a Genzano lo sconosciuto volle offrire da bere ed entrando in un locale ordinò al gestore: “un caffè per tutti, e quando me ne sarò andato di’ loro: l’ha pagato il brigante Gasperone!”.
Uscendo consigliò poi al Silvestroni: “Se qualcuno ti dovesse fermare, di’ la parola d’ordine: ho ballato”.
Il contadino sulla strada del ritorno fu fermato infatti dai briganti, che al fatidico motto si arrestarono stupiti, domandando come l’avesse appreso. Fu così che il Silvestroni raccontò tutta la vicenda e l’incontro con il famigerato brigante-gentiluomo.
Ringrazio per aiuti e preziosi suggerimenti Daniele Coletta, presidente dell’Associazione Brigante “Antonio Gasbarrone” di Sonnino. L’associazione conserva e raccoglie ricordi, documenti e cimeli relativi al brigante.
Francesco PETRUCCI Ariccia, 29 agosto 2021
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