di Sergio ROSSI
Il palazzo di Montecitorio, come ha osservato Claudio Strinati
«può ben essere definito come una sorta di Museo atipico, uno dei più grandi d’Italia, dove sono conservati oltre mille tra dipinti e sculture dal Rinascimento ai nostri giorni, alcune migliaia di stampe e incisioni di varie epoche, numerosi reperti archeologici, e poi arazzi, mobili e arredi spesso di grande valore … In particolare i dipinti dei secoli XVI-XIX sono, tranne rare eccezioni, costituiti da opere in deposito, mentre la collezione di arte contemporanea è di proprietà della Camera dei Deputati».
E’ stato Federico Hermanin, allora direttore della Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma a raccogliere nel biennio 1926-27 la quasi totalità delle opere provenienti dai depositi dei principali Musei italiani, in particolare dalla stessa Galleria Nazionale di Arte Antica Roma, dalle Gallerie e Musei fiorentini (Uffizi e Pitti), dalla Pinacoteca e dall’Accademia di Brera a Milano, dal Museo di Capodimonte di Napoli, dal Palazzo Ducale di Venezia, dalla Galleria Estense di Modena, dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna, dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma e da altre sedi ancora.
All’interno di questa imponente collezione i dipinti del XVI secolo costituiscono senz’altro una minoranza dal punto di vista quantitativo, ma non certo da quello qualitativo, perché alcuni di questi pezzi offrono notevoli spunti di interesse, sia artistico sia documentario. Mi riferisco, ad esempio, ai due chiaroscuri su tela di Jacopo Pontormo provenienti dalle Gallerie fiorentine e raffiguranti rispettivamente un Portaarmi con putto e Due guerrieri o alla splendida Madonna col Bambino di Perin del Vaga. Ma uno dei quadri, in assoluto, più interessanti e finora meno studiati è un Ritratto di uomo (olio su tela, cm. 53×36, inv. C. D. 1030) pervenuto dalla Pinacoteca di Brera nel 1926, insieme, tra gli altri, al Ritratto di Antonio da Sangallo di Jacopino del Conte e a un Ritratto di ingegnere militare di un non meglio identificato Maestro del XVI secolo.
Anche quest’opera viene tuttora indicata negli inventari di Montecitorio sotto la voce generica di Scuola romana del XVI secolo, ma essa, che è fra l’altro di altissima qualità, ritrae senza ombra di dubbio Taddeo Zuccari ed è da ascrivere alla mano del fratello Federico [fig.1]. Questi, come è noto, alla memoria del congiunto ed alla sua immagine ha dedicato grandissima attenzione ritraendone le fattezze più volte (nella cupola del Duomo di Firenze, nel palazzo Farnese a Caprarola, nel Palazzetto Zuccari (ora sede della biblioteca Hertziana) a Roma, in una tela ora agli Uffizi, nella grande Pala di S. Angelo in Vado, ecc.). E in quasi tutte queste occasioni Taddeo appare raffigurato secondo un modulo che non offre mutamenti, o quasi, tanto da far ipotizzare che alla base di questo continuum iconografico vi sia stata un’unica fonte figurativa. La diffusione del ritratto di Taddeo avviene del resto post mortem, in contemporanea con l’elaborazione di un progetto organico, nell’ambito del quale lo stesso Taddeo veniva assunto come modello ideale.
Ora, proprio il ritratto conservato a
Montecitorio, per la sua qualità e per certe caratteristiche fisionomiche, può essere considerato un prototipo da cui derivano numerose repliche; in particolare esso è straordinariamente vicino, anche per quel che riguarda l’abbigliamento, al ritratto di Taddeo che compare nella grande pala di Federico con La Madonna e Santi conservata a Sant’Angelo in Vado, presso il Museo di Santa Maria extra muros. Eppure qui l’immagine di Taddeo appare più idealizzata [fig.2b], come si addice del resto ad un dipinto commemorativo, mentre nel nostro ritratto la resa del volto è più spontanea e veritiera, tanto da far supporre che Federico si sia basato su modello dal vero, forse un qualche disegno di Taddeo con il proprio autoritratto, ormai andato perduto, per poi riproporlo, con minime varianti, in diverse occasioni, tra le quali quella di Montecitorio potrebbe essere una delle prime. Si osservino in particolare i capelli ricci e dall’attaccatura molto alta sulla fronte, il naso leggermente adunco, la barba piuttosto rada, lo sguardo intenso e penetrante per comprendere come questo sia un prototipo e le immagini di S. Angelo in Vado o Palazzo Zuccari al Pincio solo derivazioni.
Problematico appare però un esatto inquadramento cronologico dell’opera, e del resto anche la Pala di S. Angelo in Vado, seppure firmata e datata 1603 solleva non pochi dubbi al proposito, soprattutto perché l’età dei personaggi rappresentati, praticamente l’intera famiglia, dal padre al fratello, dalla moglie ai sette figli, alcuni dei quali addirittura già deceduti in tenera età molti anni prima, è assolutamente incongruente con il 1603 che è, tra l’altro, proprio l’anno nel quale Federico ha redatto il suo ultimo testamento. E anche questa grande tela, la cui iscrizione recita FEDERICUS ZUCCARUS SUAE FAMILIAE / ADVOCATIS ET PATRIAE GRATI ANIMI MONUMENTUM / DF A. D. MCIII, ci appare come una sorta di testamento spirituale, che è stato iniziato verosimilmente intorno al 1597, quando Federico esegue la Madonna del Rosario per la chiesa omonima di Fossombrone; è rimasto alcuni anni incompiuto ed è stato ultimato poi nel 1603, data dell’ultimo soggiorno di Federico nel suo paese natale. Il Ritratto di Montecitorio, che come detto è sicuramente da mettere in relazione con la Pala vadese ma anche con la decorazione romana del Palazzo di famiglia, è dunque da collocare intorno al 1591 o poco dopo, nel periodo cioè di più intensa meditazione sulla “iconografia famigliare” del nostro artista.
A questo punto vorrei proporre qualche ulteriore breve considerazione su questo aspetto dell’attività di Federico a integrazione di quanto già analizzato da Cristina Acidini nella sua fondamentale monografia sui fratelli Zuccari. E inizierei da quello che è con tutta probabilità il primo autoritratto di Federico, finora non rilevato dalla storiografia, e che compare nella giovanile Pala per il Duomo di Amelia eseguita intorno al 1559 da un Federico appena ventenne. In questa grande tavola è raffigurata la Madonna in trono col bambino che regge un grande globo e con intorno una nutrita schiera di angeli. Ai piedi del trono ed ai lati della Vergine appaiono i Santi Pietro e Bartolomeo e alle loro spalle, appena visibili e privi di altri attributi specifici che non sia l’aureola, altri due giovani Santi: quello di sinistra, tra l’altro molto rovinato, è ritratto di profilo mentre quello di destra, dietro San Bartolomeo, è sicuramente un’immagine del giovane Federico e si volge verso gli spettatori con la posa inequivocabile di colui che si ritrae allo specchio, ricalcando inoltre in maniera evidente l’autoritratto di Raffaello nell’affresco della Scuola d’Atene, a riprova di come già ai suoi esordi il giovane Zuccari non temesse di paragonarsi al grande Urbinate.
Un altro probabile autoritratto, contrariamente a quanto pensato finora dagli studiosi, è quello che compare nel Palazzo Farnese di Caprarola, nella famosissima scena raffigurante l’Entrata di Francesco I e Carlo V con il cardinale Alessandro a Parigi, dove vi sono le immagini di entrambi i fratelli Zuccari. L’affresco è unanimemente e giustamente considerato uno degli ultimi capolavori di Taddeo, ma proprio i volti di questi e di Federico inducono a qualche riflessione ulteriore.
La datazione dell’affresco è da porsi nel 1563, anche se sappiamo che nell’estate dello stesso anno mancavano ancora dei ritratti da inserire nelle scene parietali e comunque quattro teste rimasero non dipinte, allo stato di sinopia, nel riquadro con la Guerra luterana, a testimonianza del fatto che, nella decorazione di tutte le pareti, prima si era provveduto alla definizione dell’impianto generale delle scene e poi si era passati a definire ogni singolo aspetto della figurazione.
Precisare questo è molto importante perché l’età dei due fratelli ritratti, o autoritrattisi, nell’Entrata di Francesco I, è del tutto incongruente con il 1563. Federico e Taddeo appaiono infatti assolutamente coetanei e anzi è semmai Federico a sembrare, seppure di poco, il più anziano tra i due, mentre l’anagrafe dice che egli ha appena compiuto 24 anni e il fratello maggiore sta per compierne dieci in più. A questo punto, per spiegare la contraddizione si possono avanzare numerose ipotesi. La prima è che le teste dei due artisti siano rimaste allora incompiute e che i due ritratti appartengano entrambi a Federico quando questi tornò a Caprarola nel 1569, anche se per l’immagine del fratello egli si servì sicuramente di qualche autoritratto di Taddeo rimasto in suo possesso e che l’artista aveva probabilmente predisposto proprio come modello per Caprarola, senza potere poi completare l’opera; la seconda è che entrambi siano degli autoritratti nel senso che Taddeo raffigurò se stesso ma non il fratello, che poi aggiunse la propria effige nel 1569; la terza è che Taddeo eseguì effettivamente sia il proprio ritratto sia quello di Federico e che quest’ultimo, tornando a lavorare nel Palazzo aggiornò la propria immagine a quella di un artista ormai trentenne, proprio per non sfigurare nei confronti del fratello e Maestro.
A spiegazione di quanto qui detto bisogna rifarsi ai complessi rapporti di amore, emulazione ma anche rivalità, che legò i due congiunti pittori in vita e anche dopo la morte del primogenito. Federico si dedicò infatti ad una intensa opera di esaltazione e glorificazione della memoria del fratello non disgiunta mai, però, da un altrettanto intenso desiderio di superamento della sua fama, per cui, quasi sempre, quando si ritrae accanto al fratello maggiore, e questo accade spesso, egli tende, contro ogni regola di buon senso, a raffigurarsi come suo coetaneo o addirittura come più anziano, quasi a voler evidenziare, anche figurativamente e attraverso l’età, i segni di un “superamento”, appunto. In questo contesto un ruolo del tutto particolare assume la celebre serie di disegni sulla Vita di Taddeo eseguita da Federico intorno al 1590 e tutta incentrata sul binomio Virtù e Fatica, tema tra l’altro assai importate nella riflessione teorica del XVI secolo.
Per Federico:
«la fatica è innanzi tutto quella intellettuale dello sforzo continuo di emulare i grandi modelli del passato; ma è anche la fatica fisica delle vessazioni e dei patimenti che bisogna sopportare per conquistare comunque una propria personalità artistica; e la fatica diviene spesso disagio e vera e propria sofferenza. La fatica, comunque, sia essa quella intellettuale, sia essa quella fisica costituisce la via stretta per il raggiungimento della virtù. Per raggiungere la virtù infatti Taddeo non esita a lasciare la patria e gli affetti, a sottoporsi a “disagio” e “servitù”. Ed ecco che accanto a questi elementi negativi ripetuti in continuazione (disagio, servitù, cure servili) sono indicate le corrispondenti virtù in grado di neutralizzare questi fattori: desiderio di gloria, amore per lo studio, e infine “Ardir, Gratia, Fierezza, Arte e Disegno”» [Rossi pp. 67-68].
Ora è indubbio che nel bel ritratto di Palazzo Montecitorio non vi sia traccia di tutto questo travaglio intellettuale, ma proprio il suo tono privato e direi anche “affettuoso”, quasi da prototipo o incunabolo, ne costituisce la particolarità ed il fascino perché svela il lato meno ufficiale e più personale dei complessi rapporti che legavano Federico Zuccari alla figura ed alla memoria, così amata ma così ingombrante, del fratello maggiore.
Sergio ROSSI Roma 7 giugno 2020
Nota bibliografica