di Carla ROSSI
Donna per necessità dinastica. Le spoglie mortali di Vittoria Colonna
Michelangelo e Vittoria: un’amicizia spirituale
Nel gennaio del 1991, Giovanni Dall’Orto scriveva:
«Prendiamo Michelangelo […] Chi se non lui ha rivelato nella sua opera d’arte una passione frenetica per il corpo maschile, addirittura esagerata, accoppiata a rara insensibilità per quello femminile? Chi se non lui ha squadernato in sonetti ardenti, che hanno fatto arrossire generazioni di studiosi di arte figurativa e di letteratura, il suo bruciante ardore per una nutrita pattuglia di giovinetti? »[1]
Musa spirituale della lirica michelangiolesca e destinataria della seconda parte dei testi del canzoniere del Buonarroti, la poetessa Vittoria Colonna fu legata a Michelangelo sin fin dal 1536 da «una stabile amicitia […] in cristiano nodo da sicurissima affectione».[2]
Questo rapporto parrebbe suggerire che l’idea di una raccolta di rime organica fosse stata concepita da Michelangelo in vista di un omaggio alla Colonna, attorno al 1546, contraccambiando il dono del manoscritto con cui la poetessa aveva omaggiato l’artista e che fu la morte improvvisa dell’amica a far abbandonare a Michelangelo il progetto della revisione per la stampa del suo canzoniere.
Vittoria Colonna: un uomo in una donna, anzi, un dio
Figlia del nobile Fabrizio Colonna, uno dei grandi condottieri del Rinascimento, e di Agnese da Montefeltro, discendente dei duchi di Urbino, Vittoria nasce a Marino nell’aprile del 1490 o forse nel 1492 (non si hanno certezze sulla data)[3] e a soli cinque (o forse a tre) anni viene ufficialmente promessa, per motivi dinastici, a Francesco Ferrante D’Avalos, marchese di Pescara.
I Colonna, in quegli anni, tenevano a suggellare l’alleanza con la famiglia D’Avalos e il matrimonio venne celebrato ufficialmente nel 1509. Stando all’intero canzoniere della Colonna, pare che Vittoria fosse molto innamorata del marito, ma l’unione non concesse alcuna gioia: le cronache veneziane, infatti, parlano addirittura di una fuga del marito dal letto nuziale durante la prima notte di matrimonio.
Il Marchese di Pescara, giovane, avvenente, ardimentoso e geniale condottiero al servizio del suo re, pare fosse scappato letteralmente inorridito e avesse ben presto iniziato a tradire Vittoria, senza neppure darsi pena di nasconderglielo e lei si ritrovò a scrivere:
« Non curi farmi del tuo amor digiuna./ Ma io con volto disdegnoso e tristo/ serbo il tuo letto abbandonato e solo »
Eppure, episodio decisivo dell’esperienza umana e poetica di Vittoria fu proprio la morte improvvisa, nel 1525, del marito trentaseienne, impegnato per lunghi anni nella guerra antifrancese in Lombardia e compianto come «sole» glorioso. Proprio l’esperienza del lutto indusse la Colonna ad approfondire la ricerca intellettuale e religiosa, entrando in rapporto non solo con la spiritualità inquieta di Michelangelo, ma anche con i protagonisti dell’evangelismo italiano (Juan de Valdés, Bernardino Ochino, Reginald Pole). Ne scaturì una poesia essenziale e austera che dall’omaggio funebre al marito si leva alla contemplazione del cielo, facendo della misura breve del sonetto lo specchio di un’illuminazione spirituale.
Vittoria Colonna fu anche la prima poetessa in Italia che vide stampate le proprie liriche, con larghi consensi anche fuori dai confini nazionali. Nel 1546 pubblicò infatti le Rime spirituali, codificando il genere letterario della lirica religiosa come meditazione personale.
Attiva nella difesa del nascente movimento cappuccino, impegnata nel dibattito sulla riforma della Chiesa, favorevole alla riconciliazione tra cattolici e protestanti, la Colonna maturò convinzioni religiose eterodosse, come lo stesso Buonarroti, pur senza entrare in conflitto con l’autorità ecclesiastica.
Di lei non vi sono ritratti dal vero, ma solo per congettura.
Questo ha portato, da un punto di vista meramente iconografico, ad una messe di opere che ritraggono una donna assolutamente simbolica, a volte bruna, altre bionda, dai tratti somatici assai sfuggenti. In tutti i ritratti spicca l’alta fronte, il naso diritto, l’acconciatura quasi monacale.
Michelangelo, che la ritrasse sicuramente più di una volta, le rivolse questi versi:
Un uomo in una donna, anzi uno dio,/ per la sua bocca parla,/ ond’io per ascoltarla/ son fatto tal, che ma’ più sarò mio.
Michelangelo, Rime, 235
Nel febbraio del 1547 la morte improvvisa le risparmiò un’inchiesta dell’inquisizione che perseguitò molti dei suoi amici e per secoli neppure si seppe dove fossero sepolti i suoi resti. Senza dubbio la Colonna morì a Roma, ma pare che il fratello Ascanio abbia voluto esaudire il desiderio di lei di giacere, almeno nel sonno eterno, accanto al marito, a Napoli, in San Domenico.
«Quando sarà col suo gran sole unita/ Felice giorno! allor contenta fia;/ chè sol nel viver suo conobbe vita/ Vera gloria saria vedermi unita/ col lume che diè luce al corso mio/ poi sol nel viver suo conobbi vita»
Negli anni Ottanta del secolo scorso, la ricerca dei suoi resti è approdata dunque nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, proprio quando un’équipe dell’Istituto di anatomia e istologia patologica dell’Università di Pisa, diretta dal professor Gino Fornaciari e voluta dalla dottoressa Lucia Portoghesi, alla quale il soprintendente Raffaele Causa aveva affidato il compito di verificare lo stato delle arche che contenevano i cadaveri di uomini e donne illustri, stava iniziando l’autopsia di quegli scheletri conservati nella cripta e in particolare di quello conservato nell’arca n. 28: «una donna, forse, o un individuo dall’ambigua sessualità».
I resti di Vittoria in San Domenico Maggiore
La chiesa, nella cui sacrestia vennero custoditi i resti mortali dei re di Napoli, tra il Quattrocento e il Cinquecento, ha celato per secoli uno fra i più strabilianti segreti della storia.
Dal punto di vista medico, le indagini sono state affidate agli studiosi dell’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Pisa. L’indagine ha evidenziato una serie di spoliazioni delle arche che contengono le salme dei nobili; spesso il contenuto delle bare non corrisponde alle generalità scritte nelle targhette di metallo dei sarcofagi.
Dentro l’arca 28, senza nome, una donna ben vestita, con copricapo, lunghe mani affusolate, unite in grembo. Si è posto subito l’interrogativo: di chi è il corpo mummificato? Di Vittoria Colonna?
Sebastiano del Piombo eseguì un ritratto di Vittoria Colonna in cui è evidenziato il volto ovale e l’ampia fronte della poetessa. Proprio l’esame di quest’opera pittorica parrebbe averne confermato l’identità: il copricapo e la mantella dipinti da Sebastiano del Piombo sono uguali alle stoffe che vestono i resti mortali contenuti nell’arca 28 ed attribuiti a Vittoria Colonna.
Interessante notare come già nel 1894, le indagini avessero portato alcuni studiosi (l’antropologo A. Zuccarelli, dell’Università di Napoli, Gaetano Maio dell’ufficio regionale per la conservazione dei monumenti di Napoli, l’avv. Quirino Bianchi, il prof. Romolo Bianchi, il padre Carlo Maiello, rettore della Chiesa e sovraintendente del monumento) ad affermare che i resti rinvenuti nell’arca 28 corrispondevano a quelli di
un organismo di donna tra 45 e 55 anni, malgrado le difficoltà nella costatazione del sesso, dovute alle condizioni dello scheletro; tale corpo aveva costituzione robusta, vantaggiosa, macroschela, deviata se vuolsi in senso virile, di una viragine, il che è conforme alla infecondità della Colonna.
L’individuo H, nell’arca 28
Riportiamo qui di seguito un estratto dei risultati dell’analisi condotta a fine Ottocento sul corpo:
Al di sotto di tale cappuccio ce n’era un altro, bianco, relativo ad una stola, che formava un velo diviso in due liste ai lati del volto; al di sotto della stola si vedeva una cuffia di panno bianco e sottostante ad essa ancora un’altra cuffia di lino bianco. Una lunga zimarra bianca, dello stesso panno della cuffia, rivestiva inoltre il corpo e, al di sotto di essa, una camicia di lana bianca appariva allacciata sul davanti e ornata di bottoncini originali. Il corpo poi, ben conservato, era mummificato per eviscerazione, eseguita con due tagli, uno verticale ed uno ortogonale, da un fianco all’altro. La cattiva conservazione della parte alta delle cosce rendeva invero difficoltosa l’identificazione del sesso, nonostante la presenza di quella che sembrava un’asta a imbuto, per giunta fimotica, che faceva propendere per un individuo H. Le lunghe calze di panno, legate con un cordoncino, ma non in vita come quelle maschili, giungevano fino alla testa dei femori, mostrandone chiaramente i segni; mancava ogni traccia di mutande, di calzoni, di sottana o di tunica; le mani apparivano affusolate, le anche ampiamente divaricate; l’altezza era di cm. 168/170, mentre i piedi, con le punte orientate verso l’alto, misuravano cm. 37. Ai lati del volto e nella cuffia si potevano osservare poi molti capelli rossicci.
“All’altezza dei seni infine si notavano due ampie resezioni, mentre la caduta della mandibola era da imputare forse al terremoto del 1980: all’atto della rimozione delle arche, effettuata nel luglio 1985, il cranio infatti si era addirittura fratturato”.
Nel luglio 1986, si è poi proceduto nuovamente all’analisi dei resti dell’individuo nell’arca 28 e sono emersi elementi interessanti: si trattava di un uomo con caratteri femminei.
Si affermava, quanto all’età, che lo scheletro era di persona di circa 50 anni. In ogni caso l’equipe riteneva necessario un supplemento di indagini presso l’Istituto antropologico di Pisa e, a tal fine, prelevava la testa, un dito e parte della sinfisi pubica. Quanto alle mani, emerse che il particolare del pollice piegato sotto la palma e alquanto storto, era evidente altresì nel classico ritratto di Vittoria attribuito a Sebastiano del Piombo.
Dall’analisi delle parti pudende si poteva chiaramente arguire che il soggetto in esame non aveva avuto probabilmente nessun rapporto sessuale vero e che la virilizzazione piuttosto energica, che conferiva un aspetto viriloide agli organi genitali esterni, rendeva difficile l’attribuzione del vero sesso, autorizzando a pensare ad un caso palese di ginandrismo.
Dunque, una Vittoria Colonna ermafrodita?
Questo emergerebbe dalla doppia analisi degli anatomopatologi dell’Ottocento e del Novecento. Forse, però, si può avanzare un’altra ipotesi: si potrebbe pensare che nel 1490 la famiglia Colonna avesse realmente avuto una figlia femmina, promessa subito in moglie a Ferrante D’Avalos, nato anch’egli nel 1490. Forse la bambina, battezzata col nome di Vittoria, come spesso accadeva, morì in fasce e per non venir meno ai patti e sugellare i legami con i D’Avalos, la famiglia crebbe quell’infante nato due anni dopo, nel 1492, in tutto e per tutto come una femmina, come quella bambina promessa in sposa ai D’Avalos.
Le ossa dei piedi dello scheletro di Vittoria risultano ridotte a forza al numero 37 (cfr. foto dei piedi dell’individuo ritrovato nell’arca 28, qui accanto), parrebbe secondo un procedimento di bendaggio attuato, ad esempio, nella Cina imperiale.
Anche la rimozione dei seni del cadavere e degli organi riproduttivi potrebbe essere stata decisa dalla famiglia Colonna per nascondere la scomoda verità di una Vittoria donna per necessità dinastica, sebbene impossibilitata ad esser madre, e la fuga di Ferrante durante la prima notte di nozze, raccontata da quelle malelingue degli ambasciatori veneziani, apparirebbe più che comprensibile in questo contesto.
Carla ROSSI Zurigo 6 dicembre 2020
NOTE