di Caterina NAPOLEONE
Nel raffigurare il vero in una concezione ideale sottesa di rimandi, non ci pare superfluo soffermarci sugli ornati a “rabesco” della cornice della Presa di Cristo del Caravaggio.
Dipinto che, al centro di un’annosa diatriba per la sua dibattuta autografia – a mio parere ampiamente acclarata- è assurto alle cronache con unanime plauso di pubblico nella mostra recentemente conclusasi a Palazzo Chigi di Ariccia, curata da Francesco Petrucci, e oggi esposto dalla Fondazione del Banco di Napoli nella sua sede di Palazzo Ricca [1]. Prestigiosa istituzione situata nel cuore della città partenopea dove l’opera commissionata dal marchese Ciriaco Mattei nel 1602, sembra essere pervenuta successivamente al primo soggiorno a Napoli dell’artista nel 1606 in fuga da Roma, e dell’infausto ritorno nella capitale Regno, concausa della sua prematura scomparsa nel 1610, a soli trentasei anni. Fatalmente, e sotto i migliori auspici, si chiude così il cerchio (FIG. 1).
Non pochi sono gli indizi che ci inducono a ripercorrere a ritroso la genesi della cornice, che esula stilisticamente da quelle in voga a Roma nei primi del Seicento, e adottata dal Caravaggio in maniera quasi sistematica nelle sue opere romane, di cui è l’unica superstite. A iniziare dai registri dei pagamenti di Ciriaco Mattei con il saldo del nostro quadro:
“Adj 2 Genn[ai]o 1603 e più devono havere sc[udi] cento vinticinque d[i] mo[ne]ta di iulij X p[er] [prez]zo p[er] tantij pagati à Michel Angelo di Caravaggio p[er] un quadro con la sua cornice depinta d’un Cristo preso all’orto dico sc[udi] 125”.
Deceduto nel 1614 il committente della Presa di Cristo, l’opera viene descritta più meticolosamente nell’inventario del figlio ed erede Giovan Battista Mattei il 4 dicembre del 1616:
“Un quadro della presa di Giesù Cristo del Caravaggio con la sua cornice nera rabescata d’oro col suo taffetà rosso, e cordoni di seta rossa, e fiocchi pendenti”[2].
Il lauto compenso percepito da Caravaggio e la destinazione privata desunta dalla protezione del dipinto, sottintendono il pregio assegnatogli cui non doveva essere esente il riguardo riservato alla cornice originale ideata come parte integrante di un’iconografia che svela alcuni fondamenti dell’apprendistato lombardo di Caravaggio.
L’artista era entrato al servizio di casa Mattei su intercessione del cardinale Francesco Maria del Monte, suo grande estimatore e collezionista, al quale era stato introdotto da Prospero Orsi conosciuto poco dopo essere giunto a Roma ed essere accolto all’Ospizio della SS. Trinità dei Pellegrini, fondato da Filippo Neri con il patrocinio di Ferdinando de’ Medici, per dare asilo agli artisti forestieri. Compagnia caritatevole limitrofa all’erigendo palazzo progettato da Ottavio Mascherino per monsignor Petrignani, ove lo stesso Orsi era impegnato. Nel rione Regola, la residenza avrebbe dovuto competere con Palazzo Farnese e la Casa grande dei Barberini in via dei Giubbonari, ritrovo dell’Accademia degli Insensati sotto l’egida del futuro papa Urbano VIII, che fra i suoi affiliati contava anche il fratello maggiore di Prospero Orsi, Aurelio, il poeta di corte dei Farnese. Oltre alla parentesi, concomitante alla sua indigenza, trascorsa da Caravaggio “a dipinger fiori e frutti sì bene contra fatti”, copie e ritratti nella bottega del Cavalier d’Arpino, luogo in cui si intensifica il sodalizio con Prospero Orsi – per la fama di decoratore[3] soprannominato “Prosperino delle Grottesche” – ben presto grazie alle sue entrature nel milieu del più aggiornato collezionismo romano per la contestuale solerzia di agente e mercante di opere d’arte, l’intesa si sarebbe rilevata foriera di altri più lusinghieri e auspicati incarichi da entrambe le parti[4].
Il recente rinvenimento bibliografico, da cui si evince che il Suonatore di liuto possa essere stato eseguito nel 1597 durante la permanenza del Merisi nella casa prossima alla SS. Trinità dei Pellegrini di Prosperino, il quale insieme ad altri suoi quadri lo avrebbe mostrato a Francesco Maria del Monte, comproverebbe esser questo non solo l’incipit della stretta collaborazione instauratasi fra il prelato e l’artista, ma anche il preludio della sua ascesa professionale[5].
Nel 1598, il cardinale Francesco Maria del Monte, alter ego diplomatico a Roma di Ferdinando I de’ Medici, nel destinare al granduca la “rotella” con la Medusa per l’Armeria di Palazzo Vecchio, che verrà montata su un’armatura da torneo, era certo al corrente del prototipo cui attese il giovane Leonardo insieme agli studi naturalistici citati dalle fonti e andati dispersi[6]. Conoscenze certo discusse e note a Caravaggio – nel frattempo stabilitosi nella dimora del porporato a Palazzo Madama – il quale dovette accogliere di buon grado la sfida di cimentarsi su uno scudo convesso in legno di fico per raffigurarvi l’immagine della testa della Gorgone (FIG. 2). Trofeo che, secondo la tradizione mitologica, sin dall’antichità si stagliava al centro degli scudi e come fregio nel mezzo delle egide sulle corazze dei Cesari[7].
Con crudo effetto realistico, l’artista lombardo imprime un’intensità drammatica all’espressione sgomenta del volto di Medusa, stigmatizzandone nella fisionomia androgina la smorfia e gli occhi sgranati dell’ultimo spasmo di vita e la repulsione provocata dal macabro sortilegio subito in sorte. Il malefico potere di pietrificare con il suo sguardo chiunque l’avesse guardata. Un’agonia, esaltata dal fiotto di sangue che fuoriesce dal collo reciso di Medusa macchiando orribilmente la superfice dello scudo, amplificata dalla capigliatura tramutata in un groviglio di aspidi. Serpenti dalle spire iridescenti e che paiono emettere “veleno” e “striduli sibili”, esemplati sulla falsariga del disegno di Jacopo Ligozzi con due vipere attorcigliate fornitogli dallo stesso cardinale del Monte.
Nella rivisitazione del modello – indice dello sperimentalismo scientifico in auge nell’entourage granducale di cui del Monte era fervente promotore – Caravaggio si affranca dalla tipologia classica del ritratto frontale di Medusa sfatando la simbologia di forza guerriera e di annichilimento del nemico ricorrente nell’iconografia delle armature da parata – in cui la maschera apotropaica della Gorgone ricalca gli stereotipi manieristi di terrore e scompiglio che la sua vista suscita – adottata dalle rinomate, e da altre meno celebri, maestranze milanesi dei Negroli, dello Zarabaglia, del Piccinino e di Pompeo della Cesa. I quali detenevano il primato – vanto conteso da tutte le corti d’Europa – nel guarnire i loro virtuosismi principeschi in metallo sbalzato, cesellato, patinato, inciso e intarsiato in oro e argento con soggetti tratti dall’antico circonfusi da fantasiosi arabeschi (FIG. 3-4).
Un rimando che Caravaggio, da sagace esperto della perizia artigianale e dell’esuberante inventiva degli armaioli dell’antica Mediolanum[8], introduce “nel fregio attorno rabescato d’oro” su fondo nero emulando l’ageminatura di un intreccio a spirale di racemi per delineare il perimetro del suo scudo da parata con l’inquietante effige di Medusa [9].
Insieme all’accenno dello stesso decoro ad arabesco, che più di un semplice ricamo impreziosisce il colletto della zingara nel quadro appartenuto allo stesso cardinal del Monte della Buona Ventura (1593-95, Roma Pinacoteca Capitolina) – dipinto che, insieme a I bari (1594) e al Suonatore di liuto, testimonia il gusto del cardinale per il teatro popolare oltre al suo ascendente nella messinscena delle rappresentazioni in “musica nuova”, il cosiddetto “recitar cantando” promosso dalla Camerata fiorentina, origine del moderno melodramma – è questo uno degli emblematici precedenti, in aggiunta ai tessuti damascati che rivestono le figure di molte sue opere, della consuetudine di Caravaggio con il lessico decorativo acquisito e perfezionato durante il suo apprendistato a Milano alla scuola del Peterzano, originario di una famiglia di orefici bergamaschi trapiantati a Venezia dove fu allievo di Tiziano.
Bottega, in cui i dettami tardo cinquecenteschi enunciati nel 1584 nel Trattato dell’arte de la pittura [10], letterariamente confluiti ne i Grotteschi e nel Rabisch, anch’essi composti rispettivamente nel 1587 e nel 1589 dal pittore e poeta Giovan Paolo Lomazzo – deus ex machina dell’Accademia della Valle di Blenio, onirica Arcadia ambientata in una valle dell’alta Lombardia – si dimostreranno imprescindibile complemento nella formazione di un artista[11].
Non è un caso se il Rabisch fosse destinato a Pirro Visconti Borromeo, collezionista d’arte e mecenate il quale, pur appartenente alla stirpe degli arcivescovi Carlo e Federico Borromeo restii ai temi profani, con un eccentrico rivestimento a “rabesco” – messo in opera dagli “irregolari” adepti dell’accademia del Lomazzo, estimatore dello stesso Peterzano – inaugurava nel 1589 le sale del suo Ninfeo di Lainate (FIG. 5-6).
Rabisch – si locuzione dialettale di arabesco – costituisce pertanto il paradigma di un consesso di artisti e delle più diverse maestranze artigianali dediti a “invenzioni” e “capricci” che, dai precetti leonardeschi, attraverso il Lomazzo s’innervano nelle estrose composizioni di Arcimboldo [12].
A ribadire il nostro asserto e la proverbiale laboriosità ambrosiana familiare a Caravaggio, non è secondaria l’adozione del medesimo repertorio ornamentale, cui diede impulso con il Sacco di Roma nel 1527 la diaspora dei discepoli di Raffaello[13] (FIG. 7-8)
impiegato nelle altrettanto rinomate botteghe milanesi degli intagliatori di cristallo di rocca e pietre dure, fra cui primeggiò quella dei Saracchi [14]. I grandi concorrenti dei Miseroni – i quali si prestarono anche a rendere oltremodo sontuosi gli artifici degli armaioli tempestandoli di gemme e cammei – e di altre dinastie di maestri della glittica ed orefici, che resero celebre in tutta Europa il nome della loro città con i loro manufatti in stile internazionale (FIG. 9-10).
A questo proposito, giova qui riportare un brano della Vita di Benvenuto Cellini:
“Nell’Italia siamo diversi di modo nel fare fogliami: perché i Lombardi fanno bellissimi fogliami ritraendo foglie di elera (edera) e di vitalba (clematide) con bellissimi girari, le quali fanno molto piacevol vedere; li Toscani e i Romani […] contra fanno le foglie d’acanto, detta branca orsina, con i suoi festuchi e fiori, girando in diversi modi; e in fra i detti fogliami viene benissimo accomodato alcuni uccelletti e diversi animali […]. Queste grottesche hanno acquistato questo nome dai moderni, per essersi trovate in certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali caverne anticamente erano camere, stufe, studii, sale e altre cotaj cose” [15].
Gli opifici di Milano, surclassando ben presto gli esempi antichi da cui avevano tratto ispirazione, forti della liberalità dei commerci conseguirono una scienza produttrice del lusso debitrice non solo delle ricerche tecniche e scientifiche di Leonardo, ma delle sue stesse osservazioni dal vero della natura in relazione all’analogia tra le arti e i mestieri. Declinazioni del naturale in artificiale che Annibale Fontana, nell’ideare i parossistici intagli dei fratelli Saracchi – dei quali era cognato avendone sposato la sorella Ippolita – ammette d’essere stato influenzato dalla lezione leonardesca. Testimonianza che, nel segno dell’estrema raffinatezza e dell’eccentricità che aspira a sconfinare i limiti imposti dalla materia e le leggi imposte dalla natura, si rafforza tenuto conto che, con l’epiteto di Nibalin, il Fontana era tra i più celebrati esponenti, nonché consigliere, dell’Accademia del Lomazzo[16].
Sorge spontaneo rammentare l’interesse per l’intaglio del cristallo e per la tecnica vetraria veneziana dello stesso cardinal del Monte – che nella Serenissima era nato nel 1549 – il quale, assiduo della Galleria dei lavori medicei al Casino di San Marco durante i suoi ripetuti soggiorni a Firenze e, specie tra il 1598 e il 1599 in attesa che venissero completati i lavori di ristrutturazione della residenza romana di Palazzo Madama offertagli dal granduca Ferdinando con tanto di arredi della più eccelsa fattura fiorentina, commissionava intorno al 1600 a Giovanni Maggi una raccolta in quattro volumi contenenti milleseicento “fogie di bichieri”, destinata alla Fonderia medicea [17].
La fornace di cristallo impiantata nel 1572 alla corte di Francesco I dagli intagliatori milanesi Ambrogio e Stefano Caroni, presto raggiunti da Giorgio Gaffurri i quali, costretti all’esilio per il tracollo economico e sociale della loro patria, con la loro progenie daranno origine al “commesso” di pietre dure in un tripudio decorativo di flora, fauna e cartigli che, sullo scorcio del XVII secolo, diverrà fiore all’occhiello dell’opificio granducale in alternativa al tramonto della lavorazione del cristallo di rocca segnato dall’invenzione del meno costoso cristallo a piombo. Compendio non estraneo all’incarico assegnato nel 1597 al Caravaggio il quale, per appagarne le curiosità di filosofia naturale, in particolare dei “medicamenti chimici” e della trasmutazione dei metalli agendo sulla natura e dominandola, non poté esimersi dal decorare nel Casino della Vigna presso Porta Pinciana il soffitto del Camerino. La cosiddetta “distilleria”, o “studiolo”, ove dipinse ad olio – tecnica a lui più congeniale dell’affresco – la triade alchemica di Paracelso, personificata da Giove, Nettuno e Plutone, disposta attorno a una sfera celeste attraversata dai segni zodiacali in cui l’artista, ricorrendo all’impiego dello specchio, in ardito scorcio prospettico si ritrae[18].
Ci siamo fin qui dilungati per offrire uno spaccato della temperie milanese tardo manierista, in cui era immerso il Caravaggio prima di trasferirsi a Roma, con lo scopo di ricondurla alla sua pittura. Trascorsi, che certificano lo spessore del suo profilo culturale nel restituirli in una rivisitazione solo in apparenza formale nel dipinto da cui il nostro discorso discende.
In aggiunta alle tautologiche derivazioni stilistiche relative alla cornice originale “arabescata in oro su fondo nero” (FIG. 11) – notoriamente reiterata dal Caravaggio nei suoi quadri [19] – emerge un implicito raccordo con l’iconografia della Presa di Cristo nella raffigurazione delle armature in metallo dei soldati desunte da una tipologia di matrice lombarda, in antitesi a quelle che nella pittura dell’epoca a Roma si rifacevano agli esempi derivati dalla statuaria antica.
Una citazione che, nella figura di spalle in primo piano, Caravaggio adotta come espediente pittorico per specchiare il bagliore della luna e con i suoi riflessi dare risalto alla merlatura arabescata sul cimiero dell’elmo, oltre a far scintillare le borchie e le bordature dorate, e le parti in ombra dell’armatura. Conseguendo lo scopo, nel padroneggiare l’uso della luce, di portare in avanti il concitato movimento del soldato all’occhio dello spettatore, e di rischiarare la zona del quadro nell’oscurità della notte in cui la scena è ambientata.
Senza ricorrere alla meraviglia delle armature cerimoniali milanesi, eseguite da maestranze alle quali abbiamo dedicato una sintetica digressione rispetto a quanto avrebbe meritato la qualità del loro operato al pari di quello dei maestri dell’intaglio in cristallo di rocca e pietre dure, il Merisi, come cronista e interprete di un momento storico, nell’alludere all’ornato dei loro pregiati manufatti, si attiene a riprendere un più consono modello di armatura in ferro annerito, adornandola con una lieve damaschinatura dorata[20]. In parallelo, nella resa della calligrafica agemina dipinta ad arabesco sulla cornice con sagoma a cassettone di gusto lombardo-veneto in legno di pino – resistente agli sbalzi climatici – si astrae dalla tipica cornice a cassettoncino romana della prima metà del Seicento realizzata in olmo, pioppo e castagno per ribadire metaforicamente sulla scena artistica contemporanea la sua appartenenza culturale[21].
In sintesi, l’ornato a “rabesco” della cornice accostata alle armature dei soldati nella Presa di Cristo, altro non sono che una rêverie dell’origine lombarda del Caravaggio e un’ulteriore controprova dell’autenticità del dipinto.
Caterina NAPOLEONE Roma 3 Marzo 2024
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