di Francesca SARACENO
Nel titolo di questo mio scritto, ho preso a prestito e parafrasato l’incipit di un’opera del 1853 del filosofo tedesco Johann Karl Friedrich Rosenkranz, intitolata Estetica del brutto, per provare a riflettere su una delle più aspre critiche rivolte all’arte del Caravaggio, all’origine di quella damnatio memoriae che condannò uno dei più grandi artisti della nostra storia a un ingiusto oblio:
“All’hora cominciò l’imitatione delle cose vili, ricercandosi le sozzure, e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente […] Sono gli habiti loro calze, brache, e berrettoni, e così nell’imitare li corpi, si fermano con tutto lo studio sopra le rughe, e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi.” [1]
Il tono altezzoso di Giovan Pietro Bellori nel lanciare il suo j’accuse, in fondo, è comprensibile; così come quello di tutti coloro che, prima di lui, avevano storto il naso davanti a certi soggetti del Caravaggio giudicati, per così dire, “sconvenienti” (secondo le logiche del tempo). Il “dogma” della perfezione estetica, originato dalla tradizione classico-ellenistica che aveva permeato il Rinascimento e nutrito il Manierismo, era ormai un’eredità profondamente radicata e si nutriva di un senso artistico fondato sulla bellezza armonica, sulla morbidezza delle forme e la grazia delle espressioni. Nelle raffigurazioni a tema sacro, più ancora, tutto questo si legava all’aspetto devozionale riassumendosi in un’unica definizione: “decoro”. Nella sua accezione più propriamente “moralistica”. E la carenza o l’assenza di decoro in alcune opere, fu l’accusa – sprezzante e reiterata – mossa al maestro lombardo dai suoi detrattori, assolutamente refrattari ad accogliere la novità di uno stile in cui la bellezza, intesa come valore estetico, non era più così centrale.
D’altra parte è innegabile che anche oggi, quando si immagina il “bello” nell’arte, il pensiero corra subito ai marmi greci e romani. Ma più avanti furono le ieratiche figure medievali, statiche e solenni, a cui l’avvento di Giotto infuse la vita. E poi furono le eteree immagini del Beato Angelico, la purezza assoluta delle visioni di Piero della Francesca, fino alle forme plastiche e solenni degli eroi biblici michelangioleschi, e la grazia delle sublimi Madonne di Raffaello. Col trascorrere del tempo, la misura, la proporzione, l’esclusiva ricerca della perfezione armonica che avvicinava l’uomo a Dio, avevano creato nelle arti figurative una sorta di universo parallelo in cui la natura e la realtà subivano una severa selezione, tanto da perderne quasi ogni riferimento. L’arte era quasi esclusivamente bellezza, e creare bellezza era l’Arte.
Eppure non è insolito, all’interno di opere d’arte, imbattersi nel “brutto”; in soggetti morfologicamente sgraziati, grotteschi. Già nel Medioevo si trovano raffigurazioni bizzarre o demoniache, spesso legate al tema della morte con intenti moralizzanti; in ogni caso figure decisamente lontane da ogni ideale estetico (fig. 1).
Tra Quattrocento e Cinquecento la pittura fiamminga, con Bosch (fig. 2) e Dürer (fig. 3), vi aveva indugiato con maggior circospezione e fantasia, affidando a figure deformi, inquietanti e immaginifiche, un simbolismo carico di significati; segno che era già in corso, nelle arti, un fisiologico progressivo riconoscimento dell’imperfezione come naturale antitesi all’estetizzazione estrema, e parimenti foriero di enormi potenzialità espressive.
Lo stesso Leonardo si era crogiolato, trovandovi diletto, nell’indagine scientifica delle mostruosità, come testimoniano i suoi numerosi studi grafici di volti bizzarri, bitorzoluti e caricaturali (fig. 4). E come dimenticare i demoni, le anime dei dannati e il terrificante “caron dimonio con occhi di bragia” del Buonarroti nel Giudizio della Sistina (fig. 5).
Poi arrivò Giorgione, con la sua straordinaria enigmatica Vecchia (fig. 6), a sancire – in un certo senso – una sintesi pittorica “virtuosa” tra pensiero e immagine, tra simbolo (la vanitas) e scienza (la ricerca naturalistica), e infondere così “contegno” e valore artistico alla bruttezza.
Ma è chiaro che, fino ad allora, si era trattato di un fenomeno caratterizzato da una ricerca iconica di fondo, la cui valenza estetica negativa non faceva che esaltare il valore della bellezza perfetta come espressione massima del creato.
Ebbene, forse per un naturale bisogno di ridimensionare quell’estetismo totalmente idealizzato (riequilibrando i pesi tra Manierismo estremo e Naturalismo incipiente), o forse per una innata inclinazione degli artisti a scrutare e conoscere la natura in tutte le sue forme (non solo le migliori), a partire dal XVII secolo cominciò a farsi strada quella che, solo dal tardo Settecento e dopo le dissertazioni di Lessing, Kant ed Hegel, quando le arti ormai erano solo “belle arti” e l’Idea aveva trionfato sulla mimesis, verrà indicata dal succitato Rosenkranz proprio come estetica del brutto.
Secondo l’Estetica di Hegel la bellezza prodotta dall’artista è superiore a quella che può esprimere la natura, poiché è frutto di elaborazione intellettuale e travaglio spirituale; elementi che la mimesis, in quanto mera imitazione, non prevede:
“il principio dell’imitazione è del tutto formale, se esso è posto come fine, [al punto che] viene a scomparirvi il bello oggettivo stesso. Infatti non si tratta più di vedere come sia fatto ciò che deve essere imitato, ma solo del fatto che esso venga imitato esattamente”[2]
Rosenkranz, invece, non mette a confronto bellezza artistica e bellezza naturale, anche perché:
“bellezza e bruttezza, in natura, sono sempre del tutto casuali, e la bellezza non è mai compiutamente realizzata, ma sempre imperfetta: sarebbe anzi più corretto dire che in sé la natura, in tutti i suoi aspetti, non è né bella né brutta, e che solo l’immaginazione umana proietta su di essa giudizi di tal genere.”[3]
Il filosofo di Magdeburgo, semmai, teorizza sulla bruttezza come passaggio intermedio tra il bello e il burlesco; ovvero un attimo prima che il brutto venga “depotenziato” diventando “caricatura”, in quel percorso che – sempre e comunque – conduce all’affermazione dell’idea estetica. Non solo. Se in Hegel l’Idea, che è la bellezza in sé, si origina dalla elaborazione della realtà attraverso il concetto, e dunque l’opera d’arte è tale come “prodotto” di quella commistione tra materiale e spirituale, Rosenkranz applica lo stesso ragionamento alla categoria estetica del brutto:
“che non è qualcosa d’inerte o passivo, ma una potenza in divenire, la quale tanto più è sottomessa, quanto più contribuisce alla realizzazione del bello” [4]
Ma prima di arrivare a queste teorizzazioni, il percorso del pensiero rispetto alla presenza e alla ineludibilità del brutto aveva preso corso dalla sua formalizzazione in termini artistici, partendo dall’accettazione dell’imperfezione come dato di fatto “naturale” e dalla necessità del suo rapporto teorico con la bellezza.
Il gioco degli opposti che proprio nel Seicento trovò la sua massima espressione, nei fortissimi contrasti che lo caratterizzarono dal punto di vista politico, religioso e sociale, divenne pregnante anche nelle arti figurative dove, per un certo periodo e nonostante le reticenze dei classicisti, al “brutto” venne riconosciuto un potere evocativo pari al bello. L’inestetismo venne rivalutato come logica contrapposizione alla bellezza, la cui componente morale aveva in sé una valenza e una forza – figurativa e concettuale – uguale e contraria. Il bello esiste perché esiste il brutto; la bellezza viene percepita come tale solo se messa a confronto con il suo contrario. E nel rapporto dialettico che, in ambito etico/artistico, individua il bene nel bello e il male nel brutto (ovvero “Il male è l’eticamente brutto, che avrà come conseguenza anche il brutto estetico”) [5], il bene viene meglio compreso e perseguito solo se si conosce e accetta l’esistenza e il ruolo del male. Dunque il brutto serve al bello, il male serve al bene.
Ed è forse in virtù di questo principio che Caravaggio perseguì il suo obbiettivo artistico alla ricerca della verità in ogni sua forma, anche la più imperfetta, in aperta antitesi con quell’ipocrisia del bello che si beava di se stesso pur non avendo alcuna radice nella realtà. E quando fu chiaro che l’indecoroso “inestetismo del vero” riusciva a smuovere intelletti e coscienze anche più della soavità del bello, perfino il potere ecclesiastico si adattò all’evidenza, perché poteva trarne vantaggio.
Sotto questo aspetto, nel periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento la tendenza ideologica della Chiesa oscillava tra la corrente conservatrice, auspice della riaffermazione trionfalistica del proprio ruolo politico, e quella più riformista tendente a rivalutare le radici del cristianesimo nell’austerità, nella sobrietà di azioni ed espressioni. Tuttavia, entrambe le correnti si ritrovavano unite nel comune intento di contrastare e sconfiggere il Protestantesimo che dilagava in Europa minando pesantemente il potere temporale del papato e, con esso, gli equilibri geopolitici tra i vari stati. E tra le tante critiche mosse dai protestanti alla Chiesa di Roma vi erano l’eccessivo sfarzo dei luoghi di culto e la ridondanza delle raffigurazioni artistiche, da essi considerate come un abuso, una forma di idolatria.
Ma per la Chiesa di Roma la funzione dottrinale dell’arte costituiva elemento di primaria importanza, soprattutto in quel frangente; le immagini sacre erano considerate Biblia pauperum, ovvero la Bibbia dei poveri, degli incolti. Il consolidamento della fede, anche negli strati più bassi della società, era fondamentale per mantenere salde le redini di un potere che si fondava sul totale affidamento dei popoli alla Chiesa, e veniva perseguito con ogni mezzo. La rigida osservanza delle storie sacre, le raffigurazioni minimali e severe, caldeggiate dai precetti controriformistici, in tal senso, erano state la risposta cattolica alle critiche dei protestanti, e risultavano estremamente efficaci nell’opera di rafforzamento dei consensi.
Peraltro Caravaggio – è bene ricordarlo – proveniva da un territorio (il ducato di Milano) in cui il rigore precettistico promosso e praticato dai Borromeo costituiva un pesante e imprescindibile retaggio culturale; e a Roma l’artista operò in gran parte sotto il papato di Clemente VIII, il quale frequentava assiduamente personaggi come San Filippo Neri, i cardinali Cesare Baronio e Roberto Bellarmino, questi ultimi due autori entrambi di autorevoli scritti relativi alla trattazione artistica delle immagini sacre.
Gli artificiosi belletti manieristi a cui l’ambiente artistico romano si era – in un certo senso – assuefatto, furono il diretto contrapposto con cui Caravaggio dovette confrontarsi, per imporre all’attenzione la novità della sua pittura di matrice naturalista che, attraverso composizioni e iconografie – per così dire – “non convenzionali”, ben si conformava alle aspettative dottrinali della Chiesa. L’estremo realismo del maestro lombardo esaltava il valore del difetto e lo rendeva “funzionale”; senza mai scadere nell’indecenza – a dispetto di quanto si voleva, invece, affermare – gli conferiva una capacità evocativa potente che definiva e giustificava la completezza e l’efficacia delle scene.
Ed è in questo senso che si potrebbe forse parlare di una estetica del brutto in Caravaggio, due secoli prima della sua ufficiale teorizzazione filosofica, come tentativo ancora in embrione e fondamentalmente concettuale, di attribuire un valore artistico – formale e ideologico – alla bruttezza.
Dalle espressioni terribili, ai frutti macilenti, agli abiti laceri, ai volti vetusti e grinzosi di certi suoi personaggi, l’estetica del brutto in Caravaggio ha assunto via via sempre più una valenza filologica narrativa ed esplicativa. Nulla di “brutto” è dipinto a caso dal maestro lombardo, o per un mero e semplicistico culto dell’orrido, come tendenziosamente gli è stato imputato nel tempo; bensì per un preciso intento comunicativo, in assenza del quale il senso della scena avrebbe perso gran parte del suo potere evocativo. Se l’espressione atterrita della Gorgone Medusa (fig. 7) condensava negli occhi e nel grido disperato l’attimo esatto in cui vita e morte si passavano il testimone, la Canestra più “inclusiva” della storia dell’arte (fig. 8) riservò la ribalta scenica alla corruzione della materia, evocando la caducità della vita e quel senso di memento mori così caro alla Chiesa.
Allo stesso modo, l’atteggiamento palesemente truffaldino, quasi comico, del gaglioffo al centro della scena dei Bari (fig. 9), chiarisce l’ambiguità pericolosa già evocata dalle righe dei suoi abiti, e restituisce – tutto intero – al riguardante l’esito infausto di una vita dissoluta che impoverisce (non solo) l’anima, nelle feritoie lerce di un vecchio guanto bucato.
Il brutto, l’anti-estetico, ha qui la sua funzione esplicativa, tanto quanto il bello se non di più. Inoltre, già in queste prime espressioni di “inestetismo funzionale”, e specificamente nella Medusa e nei personaggi dei Bari, si rileva un’evidente e minuziosa tensione introspettiva da parte dell’artista, il quale – quasi a voler smentire quel primo assunto hegeliano – si pone con determinazione ed empatia alla ricerca, nei suoi soggetti, di quei “moti dell’anima” che non potevano rimanere esclusi dalla raffigurazione naturalistica in quanto parte integrante della natura umana, e pertanto oggetto anch’essi di indagine concettuale e poi di “imitazione”. Che, nel caso di Caravaggio, diventa riproduzione fedele.
Ma è il teatro del sacro, in Caravaggio, lo spazio artistico in cui l’imperfezione trova – per paradosso – la sua dimensione più altamente significativa; è proprio nelle raffigurazioni sacre che l’artista esalta la funzione didascalica del brutto. Ed è così che, quando si alza il sipario sull’alcova dove Oloferne troverà la morte (fig. 10), la violenza della scena, l’orrore del sangue, il volto terrificante del generale assiro, inchiodano l’osservatore al dramma; e poi, per estremo contrasto, lo “risarciscono” con la visione esplosiva di una Giuditta sfolgorante di luce e di bellezza.
Il “male necessario perché si compia il bene”, in questa scena, confluisce tutto – come un traguardo visivo premeditato – sul volto rinsecchito della vecchia Abra, nei suoi occhi strabuzzati da perfida plebea. È lei, con la sua grinzosa bruttezza, il contrapposto – estetico e morale – allo splendore intrepido di Giuditta; su quella faccia arcigna, l’orrendo crimine dell’eroina biblica monda e legittima la sua urgenza. Si compie forse in questo dipinto, con oltre due secoli di anticipo, quell’assunto di Rosenkranz secondo il quale l’elemento antiestetico a volte è capace di procurare all’osservatore un
“piacere sano […] quando il brutto si giustifica come necessità relativa nella totalità di un’opera d’arte e viene superato dall’effetto contrario del bello” [6].
Non soltanto la violenza o il tempo, però, deformano i volti e le espressioni: lo stesso potere ha il dolore.
Come teorizzò Hegel più di due secoli dopo Caravaggio, il brutto non può ridursi soltanto all’espressione “visibile” del male, soprattutto se si tratta di opere d’arte sacra; e questo partendo dal presupposto che il dramma della parabola terrena del Cristo impone che essa non si possa rappresentare secondo parametri di bellezza classica, poiché:
“nel momento in cui appare il dolore, anche il brutto fa il suo ingresso nell’arte per conferire un’espressione estetica adeguata alla sofferenza.” [7]
E Caravaggio – pittore di Madonne popolane ma di straordinaria bellezza – ne fornisce altissima testimonianza nell’unica sua raffigurazione di una Vergine “anziana”: quella della Deposizione (fig. 11), il cui volto segnato dall’umana sofferenza, sembra essere sfiorito d’un tratto, “monacato a forza” da un velo che lo cinge in un tragico ufficio istituzionale, indifferente al suo dolore di madre.
Lo stesso dolore che raggrinzisce in maniera drammatica il volto della donna in ginocchio nel Seppellimento di Santa Lucia (fig. 12), espressione esteriore delle pieghe invisibili del suo cuore, stretto nella morsa della disperazione.
Per contro, nel volto avvizzito della Sant’Anna eseguita per i Palafrenieri di sua Santità (fig. 13), la bruttezza è capace di esprimere in maniera potente e solenne, tutta la grazia dell’umiltà; che se ne sta in disparte, che non “disturba”, ma sorride – compiaciuta e grata – del “bene” che si compie sotto il suo sguardo discreto.
L’imperfezione delle forme, la loro disarmonica evidenza, come la caducità del corpo umano, sono testimonianza viva e materiale della natura, sottoposta ai capricci genetici e alla corruzione del tempo; ma spesso sono anche capaci di manifestare la più profonda e struggente spiritualità. Come quella che si materializza e splende sui volti dei due pellegrini in ginocchio ai piedi della Madonna di Loreto (fig. 14).
Sciatti, logori e con i piedi sporchi eppure teneri, quasi infantili nei loro sguardi lindi, luminosi di speranza e di fede; commoventi nel trionfo di santità delle mani callose congiunte in preghiera; sublimi nel fango dei calcagni che esalta il valore del pellegrinaggio quale mirabile atto di fede.
I “brutti” del Caravaggio hanno dunque una funzione di primaria importanza, all’interno dei suoi dipinti; e più che mai in quelli a tema sacro. La loro “antiestetica” presenza spesso sublima e autentica il ruolo del male, la sua ineluttabilità. L’idea del Cristo torturato, immolato come agnello sacrificale per la redenzione degli uomini, prende forma e sostanza evocativa, nel piatto da portata tra le mani nodose della vecchia cameriera della Cena in Emmaus milanese (fig. 15).
Le aride pieghe del suo volto vetusto si sommano a quelle della veste logora; ci imprigionano dentro il senso indifferibile e profondo della consapevolezza che nulla, su quella Mensa, sarebbe avvenuto senza il sacrificio che ella reca tra le mani. Quelle grinze della coscienza fanno da contrappeso alla manifesta perplessità sul volto dell’oste, lì accanto. La sua rozza figura incarna la greve, quanto incolpevole ignoranza dei semplici; coloro per i quali Cristo è venuto a rendere testimonianza con la propria vita.
I volti popolani dei due discepoli e i loro abiti laceri, dai cui strappi sfrangiati respira la fede, ne sono il segno evidente. L’oste rozzo e la vecchia malinconica, sono lì a certificare e definire il senso stesso dell’Eucaristia.
E non è certo un Adone l’emulo personaggio cui la Misericordia spegne la sete scorrendogli in gola come a Sansone, dalla mascella di un asino, nella celeberrima pala delle Sette opere napoletane (fig. 16); perché il bisogno è un mostro che inaridisce, e non sarebbe pieno nell’osservatore il senso del “ristoro” se non avesse origine da un uguale e contrario – visibile – senso di “arsura”.
Il bisogno materiale dell’uomo si accompagna a quello spirituale. L’indigenza è il martirio quotidiano che avvizzisce i lineamenti, che gonfia la struma e le vene del collo; gli stessi segni che l’anziana donna sotto la croce di Sant’Adrea (fig. 17), mostra al mondo col fervore della fede e il calore innocente della schiettezza; opposti al luccichio sinistro di una corazza fredda, impennacchiata e punitiva.
Anche in questo caso, bene e male si fronteggiano, nella ineluttabile necessità – tutta caravaggesca – che li tiene insieme, e ne accompagna gli sguardi verso l’unico traguardo “verticale”: l’estrema testimonianza dell’apostolo crocifisso, il cui corpo consunto nelle pieghe della senescenza è l’emblema stesso del sacrificio.
Il contrasto neo-platonico tra estetico e antiestetico esplica pienamente la sua funzione comunicativa e didattica se evidenziato nella divergenza netta, nell’opposizione sostanziale e paritaria. In un labile equilibrio che solo la genialità e la profonda coscienza di un genio come Caravaggio fu capace di esprimere. Le due redazioni della Salomè con la testa del Battista (fig. 18) ne sono forse il manifesto artistico.
Un dualismo giocato tra buio pesto e luce violenta, tra opposte cromie, tra subdola avvenenza e fatale abiezione che spiccano dallo stesso collo come un mostro bifronte. Il volto levigato, dall’espressione ora sfuggente ora malefica di Salomè, è “gemello” nella finalità evocativa a quello dell’anziana fantesca – dall’espressione prima contrita, poi pragmatica – che emerge dalla medesima cervice, sia nel quadro di Londra che in quello di Madrid. In entrambi i casi quella figura livida è il riflesso tragico di Salomè, è il suo “alter ego” corrotto; come l’immagine traviata dell’anima del giovane Dorian Gray nel ritratto di Basil Hallward.
Dunque spesso dolore, miseria e senilità, in Caravaggio, rispondono alla didascalica estetica del brutto: ma non solo. Tra i tanti volti del male, sparsi nelle opere del maestro lombardo, molti sono i manigoldi poderosi, gli energumeni dai corpi massicci, sebbene rozzi e coperti solo da “brache, e berrettoni” – come rimarcava Bellori – deputati alle funzioni più strettamente pragmatiche della malvagità. Come gli aguzzini della Crocifissione di San Pietro (fig. 19),
i vessatori dell’Incoronazione di Spine di Vienna (fig. 20),
o i due fossori del Seppellimento di Santa Lucia (fig. 12), o ancora il boia della Decollazione di Malta (fig. 21).
Ma, a ben vedere, c’è anche il colosso che si erge terribile sul San Matteo morente del Martirio in San Luigi dei Francesi (fig. 22), con il suo corpo statuario, illuminato a giorno, che sembra voler negare, anche in questo caso in anticipo, la tesi hegeliana – non ancora formulata – secondo cui il male non possa avere fattezze “armoniche”.
E poi c’è un “attore” caravaggesco che ricorre più volte, in circostanze uguali o simili, e ogni volta riesce a esprimere una sfumatura diversa del suo tragico, nefasto personaggio. È l’arcigno torturatore della Flagellazione di Napoli e di Rouen; lo stesso volto del boia che consegna la testa del Battista nella Salomè di Londra (fig. 23).
Un volto questa volta giovane, dai lineamenti “naturalmente” maligni eppure duttili, perfetti per i ruoli che, di volta in volta, l’artista loro affida. Carnefice crudele nella pala d’altare napoletana, incarna la furia sadica, avvelenata, con cui il potere esercita la sua bieca funzione punitiva sui deboli e sui miti. Ma cambia espressione, diventa quasi elusivo nel dipinto di Rouen, dove il male che compie viene vissuto più come un compito macabro, un dovere formale (il ruolo del fustigatore sadico, in questo caso, tocca all’uomo col cappellaccio nero dietro di lui). Per poi staccarsi dall’evento drammatico con il braccio teso, e tradire quasi un moto di contrizione nella tela di Londra, mentre allunga sul bacino la testa recisa dell’innocente Battista.
È l’identico volto del male che fa i conti con se stesso, perché il riguardante li faccia con la propria coscienza.
E il male quasi si sorprende dell’inutilità della propria scelleratezza, e si sgonfia – letteralmente – come un pallone bucato sul volto rattrappito di Attila, nel Martirio di Sant’Orsola (fig. 24).
Cosa può la sua imponente armatura, lo spirito fiero del “flagello di Dio”, davanti all’evidenza che la freccia scagliata dal suo arco ha solo suggellato, nel pallore della morte, la santità di colei che vince gli eserciti con la forza della fede? La luce abbagliante che rifulge sulla figura di Orsola confitta, spegne il furore e si fa nera caligine sul volto del tiranno.
Ombra e luce non chiedono che di essere “riconosciute”, l’una dall’altra e viceversa.
In fondo non sono che facce della stessa medaglia, come la bellezza del bene e l’orrore del male. Come i due volti della stessa anima che Caravaggio dipinge negli occhi pietosi di David e nell’urlo muto di Golia, del dipinto Borghese (fig. 25).
I tratti gentili del giovane re fanno da contrapposto naturale alle spaventose fattezze del gigante la cui testa recisa pende dalla sua mano sinistra, protesa in avanti, offerta come olocausto del peccato. L’apoteosi dell’orrido che ha un’anima e la urla al mondo; ne rivendica il riconoscimento, ne implora il perdono.
Se davvero un’estetica è possibile individuare nelle “brutture” del Caravaggio, essa è forse quella sottesa ricercatezza che ne nobilita la funzione comunicativa. Per quanto mi sforzi, infatti, non riesco a vedere nei volti del maestro lombardo, o nelle sue raffigurazioni giudicate “indecorose” più in generale, quello stridore grottesco, quel compiacimento sottile che fissa la bruttezza all’evidenza del puro inestetismo, ostentato per un “malato” senso di eversione artistica o per un atteggiamento di ribellione congenita. Anche la foglia più rinsecchita, il volto più avvizzito, il tallone più lercio, l’abito più frusto, l’elemento pittorico più corroso dagli effetti del male o della caducità della materia, in Caravaggio esprimono una certa sostanziale “dignità”, illuminata dalla stessa luce potente e rivelatrice che fa splendere la bellezza. Come se questa dignità insita nella bruttezza volesse autenticarne il valore “naturale”: essa è “creatura” egualmente riconosciuta dal Creatore.
Tutto questo non sarà che una parentesi, favorita dagli ultimi strascichi di una controriforma che, della Chiesa cattolica in realtà, non “riformerà” nulla se non – al rialzo – la misura del proprio egocentrismo. E questo si esprimerà nel trionfo del barocco, nelle splendide, mirabolanti produzioni di Giovanni Lanfranco, Pietro da Cortona e Andrea Pozzo, che esalteranno la gloria della “vera fede” in una pittura che sbalordisce e stordisce, che apre varchi celesti dove tutto è teatrale, esuberante, illusionistica… bellezza.
©Francesca SARACENO Catania 25 giugno 2023
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