di Francesca SARACENO
Una visita alla Pinacoteca dei Musei Vaticani è stata occasione unica e preziosa per rivedere e allargare le mie conoscenze su un’opera del Caravaggio tra le più celebrate, anche dai suoi severissimi biografi.
Parlo ovviamente della celeberrima Deposizione (fig. 1), in esposizione nella sala XII della Pinacoteca Vaticana che, grazie a papa Pio VII, la conserva dal lontano 1816, quando venne riportata in Italia dopo i saccheggi napoleonici.
Trovarmi davanti a quest’opera, dopo averne letto e scritto, avrebbe dovuto chiudere il cerchio, dare senso compiuto ai tanti mesi di studio e ricerca che avevo condotto. E invece, non sapevo che quel dipinto aveva ancora tanto da dirmi. Non si tratta solo dell’emozione fortissima di trovarsi al cospetto di un capolavoro assoluto, o della sensazione vivida, quasi palpabile, che il maestro fosse ancora lì, dentro, intorno, davanti a quella tela, e poterne avvertire la presenza, poterla quasi respirare; ma la scoperta che, oltre a tante conferme a ciò che sapevo o avevo intuito, osservando foto e leggendo libri, alcuni aspetti assolutamente fondamentali dell’opera erano, per me, ancora da rilevare, indagare e comprendere. Poterlo fare sul posto, guidata da una grande esperta come Sara Magister, è stata per me una fortuna inattesa.
Della Deposizione avevo già scritto nel relativo capitolo del mio libro Caravaggio. emozioni e impressioni (Etabeta EBS-print 2022), tracciandone sinteticamente la genesi, sviluppandone la mia personale esegesi, e soffermandomi su alcuni aspetti interpretativi relativi al soggetto e alla composizione che – ho potuto constatare – alla visione diretta, trovavano sostanziale corrispondenza. In particolare avevo rilevato (come del resto hanno fatto molti studiosi prima di me) quanto evidente fosse il modello di riferimento del Caravaggio nella trattazione di questo soggetto, ossia Michelangelo Buonarroti. E l’osservazione fisica dell’opera non ha certo smentito le mie (ma non solo mie) impressioni; dalla plasticità scultorea dei corpi, alle pose di alcune particolari figure (quella del Cristo, in primis), fino alla singolare interpretazione del ruolo della Vergine, mi hanno confermato che il maestro lombardo – come anche gran parte dei suoi predecessori – aveva certamente guardato al suo omonimo fiorentino e, sicuramente, alla straordinaria Pietà vaticana (fig. 2).
Questo, peraltro, a dispetto dei conservatori biografi del Caravaggio, avarissimi di apprezzamenti nei suoi confronti, i quali, pur riconoscendo all’opera un maggior valore pittorico in quanto strutturalmente e stilisticamente più vicina all’ideale classico,di quanto non lo fossero le altre, non avevano però mai “concesso” all’artista un particolare modello di riferimento; meno che mai – temo – avrebbero menzionato il “divino” Buonarroti.
Decisamente sintetico è Giovanni Baglione, il quale, con malcelata alterigia, rimanda ad altri il giudizio positivo sull’opera:
“Nella Chiesa nuova alla man diritta v’è del suo nella secònda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato, e questa dicono, che sia la migliore opera di lui.”
Più dettagliato e compiaciuto è Giovan Pietro Bellori, che pure riscontra, nella posa del braccio del Cristo, i segni del modello michelangiolesco ma si guarda bene dall’evidenziarli:
“Ben trà le megliori opere, che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritatamente in stima la Depositione di Christo nella Chiesa Nuova de’ Padri dell’Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell’apertura del sepolcro. Vedesi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi, abbracciandolo sotto le ginocchia, e nell’abbassarsi le coscie, escon fuori le gambe. Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta supina la faccia e’l petto pallido à morte, pendendo il braccio col lenzuolo.”
Eppure, con buona pace di Baglione, Bellori, e loro precedenti e successivi, le citazioni dal genio fiorentino, in Caravaggio, sono piuttosto evidenti e disseminate ad ampio spettro in numerose sue celebri opere. Ma se il Buonarroti fu certamente un punto fermo nello sviluppo di alcuni aspetti dell’arte del Caravaggio, quello che non avrei mai immaginato di scoprire è che, il maestro lombardo, potesse aver (felicemente) subito l’influenza anche di un altro grandissimo artista, coevo e “rivale” del Buonarroti: l’insospettabile Raffaello Sanzio.
Verrebbe da chiedersi “cosa” un artista come Caravaggio potesse mai attingere dal più scrupoloso osservante del “bello classico”, dal più elegante e celebrato perfezionista della forma e della composizione; proprio il Merisi, che aveva stravolto e rigettato ogni idea selettiva di perfezione formale, per riprodurre la realtà della natura tutta intera, difetti e brutture compresi. Invece, a ben vedere, tracce di Raffaello si riscontrano in Caravaggio, già a ridosso dell’esecuzione delle tele Contarelli; la prima versione del San Matteo e l’angelo, quella dispersa a Berlino nel 1945, riporta per il santo una posa che sembra derivare dal Giove che bacia Amore eseguito dall’urbinate nella Loggia di Amore e Psiche di Villa Farnesina (fig. 3).
Ma nella stessa Deposizione del Caravaggio è piuttosto ravvisabile l’influenza dell’omonimo soggetto eseguito da Raffello (oggi conservato alla Galleria Borghese, fig. 4), nel particolare impianto scenico della presa del Cristo da parte di Giovanni e Nicodemo: il primo lo regge dalle spalle, l’altro dalle ginocchia.
Accostarsi senza pregiudizio all’opera di Raffaello, pone nella condizione di individuare convergenze inopinate, se non addirittura l’origine stessa, ideologica e strutturale, di quello che diventerà l’elemento principe nell’arte del Caravaggio, ossia la luce. Perché, se è vero – e lo è – che la cultura artistica lombardo-veneta del Merisi è pressoché ineludibile e ampiamente manifesta, nelle tavolozze come nei forti contrasti chiaroscurali, che rimandano spesso a Tiziano, Tintoretto o Giorgione, è pur vero che l’uso particolare che Caravaggio fa di quel luminismo nordico così caratterizzato, una volta approdato a Roma, risente per forza di cose del contesto specifico in cui l’artista si trova a operare. Un contesto in cui la pittura era più che mai funzionale alle intenzioni dottrinali della Chiesa, impegnata, in quegli anni, nella strenua lotta contro il protestantesimo e nel consolidamento della sua posizione di potere all’interno dei precari equilibri geopolitici europei.
Non si può prescindere da questo assunto se ci si vuole approcciare in maniera analitica alle opere del Caravaggio, e soprattutto a quelle romane. Ogni aspetto della vita pubblica cittadina veniva regolato, in quegli anni, dal sistema giuridico ecclesiastico; la dottrina cattolica era “legge” a tutti i livelli, e l’ambito artistico non faceva eccezione, anzi. L’arte, e la pittura in particolare, era regolamentata dai dettati tridentini e aveva la funzione precisa di veicolare il messaggio evangelico, ma più specificamente i precetti cattolici che a esso avrebbero dovuto ispirarsi. Un dipinto a soggetto sacro, non costituiva solo una raffigurazione pittorica decorativa, ma un vero e proprio “libro di catechesi per immagini” rivolto a quelle fasce di popolazione illetterate, culturalmente escluse dallo studio diretto delle scritture e dei Vangeli, ma che, grazie ai dipinti realizzati nelle chiese, posti sugli altari e nelle cappelle di devoti notabili, avevano la possibilità di conoscere la storia sacra e di assimilarla secondo le direttive e le intenzioni specifiche della Chiesa; la quale, in tal modo, operava – di fatto – un controllo sistematico sulle masse inculcando il timore della dannazione e indicando, al contempo, nella sequela dei suoi precetti, la via della salvezza.
Caravaggio, peraltro, approda a Roma proveniente da un territorio, quello milanese, nel quale gli aspetti più severi della dottrina cattolica controriformata avevano trovato autorevole rappresentanza e compimento (non solo teorico) nella figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo, avallati e proseguiti dal cardinal Federigo suo cugino, attivo a Roma proprio negli anni in cui Caravaggio arriva in città. Dunque la dura austerity morale imposta dai due alti prelati lombardi era stata la culla culturale, anche dal punto di vista artistico, entro la quale il giovane Caravaggio si era formato e che, una volta arrivato nell’Urbe, ritrovò – trasfusa di nuovi significati – negli ambienti oratoriani ispirati all’opera di San Filippo Neri, che con il cardinale Borromeo cooperò attivamente.
Gli oratoriani filippini, molto legati alla riscoperta del cristianesimo paleocristiano, predicavano a Roma una percezione della religiosità “nel quotidiano”, un modo empatico di vivere la fede. Per questo motivo, attraverso l’impegno in campo artistico del cardinale Cesare Baronio, caldeggiavano raffigurazioni di arte sacra che rispondessero a questi principi; e Caravaggio – assecondando una sua precisa e personale esigenza stilistica – sembrava aver accolto le loro istanze. Non è un caso che, proprio da una famiglia di ferventi attivisti oratoriani, i Vittrice, fu affidata al Caravaggio la commissione della Deposizione per l’altare della cappella della Pietà nella Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella (allora sede dell’Oratorio), un’opera nella quale, il richiamo alla preghiera attiva e l’attualizzazione dell’evento sacro, costituivano il linguaggio primario con cui raccontare al popolo il Vangelo.
Questa premessa era necessaria per tracciare opportunamente il contesto nel quale si compì la vera rivoluzione operata dalla pittura del Caravaggio, e soprattutto, da dove – forse – essa abbia avuto origine. E che si sia trattato di una rivoluzione non deve apparire esagerato, poiché è indubbio che il fervido talento del maestro lombardo, seppe rielaborare elementi stilistici del passato e del presente, in maniera del tutto personale, fino a farne qualcosa di assolutamente nuovo ma soprattutto “efficiente”.
La novità portata dal Merisi nell’ambiente artistico romano, fu evidente fin dai primissimi lavori, e si palesava nell’aderenza al naturalismo, largamente diffuso nel nord-est e nella bassa padana, di cui l’elemento “luce” costituiva caratteristica peculiare. Tuttavia, se il luminismo lombardo-veneto fu senza dubbio elemento primario del bagaglio artistico del Caravaggio, esso mancava però – fino a quel momento – di una funzionalità specifica, rimanendo sostanzialmente un principio pittorico di matrice naturalista sorto in opposizione ai virtuosismi manieristi.
Ma a Roma la luce nordica del Caravaggio si evolve, si carica di pàthos e di una valenza diversa, “sacrale”: la luce “nuova” del maestro lombardo rappresenta e manifesta la presenza e l’azione del divino nella vita quotidiana dell’essere umano. Un pensiero artistico che affonda le radici nei nuovi movimenti filosofici che in quegli anni si sviluppavano, tendenti allo studio scientifico, esperienziale, della natura al cui interno il divino diventava “riscontrabile”. La trasposizione di questo pensiero, a livello pittorico, in Caravaggio, si compie proprio a Roma; paradossalmente nel luogo in cui il neoplatonismo rinascimentale predominava ancora sulle correnti naturaliste, quasi incontrastato, esasperato dai belletti manieristi, dove il luminismo rifulgeva chiaro, diffuso e beatamente irreale.
Eppure … potrebbe sembrare un paradosso ma, al concepimento dell’idea di una funzione così innovativa ed efficace della luce nella composizione pittorica, Caravaggio arrivò – molto probabilmente – dopo aver visto un’opera proprio del classicissimo esteta Raffaello; una pala d’altare che, a quel tempo, si trovava nella chiesa di San Pietro in Montorio, ovvero la straordinaria Trasfigurazione (fig. 5) con la quale si concluse la breve ma intensissima carriera dell’osannato pittore urbinate.
Opera questa che, per interpretazione e trattazione dei soggetti raffigurati, risulta sommamente diversa rispetto a quanto prodotto in precedenza dall’artista; qualcosa che preannuncia, e in parte manifesta già, il superamento proprio di quella idealizzazione così marcata e impersonale che aveva dominato la scena artistica tra Quattrocento e Cinquecento, fino a sfociare nel manierismo più lezioso con cui venne a scontrarsi il Caravaggio. Ebbene, Raffaello – l’ultimo Raffaello – in quella sua strepitosa pala d’altare, dimostra di aver intuito, e forse già in parte elaborato, un nuovo modo di raccontare la storia sacra; un linguaggio più oggettivo, concreto e coinvolgente. La magnifica Trasfigurazione che accoglie i visitatori nella sala VIII della Pinacoteca vaticana, presenta elementi stilistici ben lontani dal consolidato idealismo raffaellesco, per virare verso una indagine più intima e concreta dei soggetti rappresentati e del contesto in generale.
Lo aveva intuito il Vasari che, lodando l’opera dell’urbinate, faceva notare come:
“nel vero egli vi fece figure, et teste oltra la bellezza straordinaria, tanto nuove, varie, et belle, che si fa giudizio commune degli artefici, che questa opera tra tante che quant’egli ne fece, sia la più celebrata, la più bella et la più divina.”
L’imponente pala d’altare presenta una composizione nettamente distinta tra la parte alta e quella bassa; una soluzione che – come altri artisti a lui precedenti – lo stesso Merisi adottò, ad esempio nel San Matteo e l’angelo oggi sull’altare della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, oppure nelle Sette opere della Misericordia nella chiesa del Pio Monte a Napoli, dove la collocazione delle due dimensioni, divina e umana, è nettamente contrapposta, e riscontrabile anche nel contesto contemplativo (per la sfera celeste) o dinamico (per quella umana) in cui vengono inserite le figure.
Nel caso specifico della Trasfigurazione di Raffaello, nella parte alta del dipinto (fig. 6) si svolge l’evento divino narrato nel Vangelo di Marco (9, 1-13), mentre quella più in basso (fig. 7) rappresenta il passo successivo (Mc 9, 14-29), in cui si narra della richiesta di liberazione di un giovane posseduto da uno “spirito muto”; una contrapposizione messa in risalto da un cromatismo ben definito per ciascuna delle due parti.
Ciò che va ben esaminato, in questa composizione, è il modo di illuminare le due scene: il bianco sfolgorante in cui si inserisce la figura trascendente del Cristo e che connota la natura miracolosa dell’evento, “bucando” letteralmente l’azzurro del cielo, si oppone ai forti contrasti di chiaro-scuro che dominano, invece, la scena “terrestre”, con una tavolozza particolarmente intensa, e definiscono – esaltandolo – il dinamismo concitato delle figure dei discepoli sul lato sinistro e della famiglia del ragazzo su quello destro.
Raffaello qui opera un profondo mutamento ideologico, oltre che pittorico. Le sue figure sono ora decisamente più “umane”, colte ciascuna nella realtà del loro personale turbamento. Lo rilevava Luigi Antonio Lanzi scrivendo:
“nelle invenzioni di Raffaello ciò ch’è il men osservato ed il più difficile: il movimento degli affetti che tutto è opera della espressione”.
Ma ciò che di veramente nuovo fa il maestro urbinate, in questo dipinto, è eleggere la luce a elemento strutturale e narrativo. Essa manifesta all’osservatore la presenza monumentale e inamovibile del divino e, al contempo, la precarietà disorientante della natura umana. É una luce che rifulge chiara e mistica là dove il divino si manifesta, mentre schizza irrequieta, lampeggiando tra le ombre scure, dov’è la natura terrena incostante a prevalere. Un aspetto, quest’ultimo, che si palesa nella parte bassa della grande pala d’altare, dove la luce – letteralmente – tira fuori le anime dai corpi e li mostra “veri”, umani e fallaci; qualcosa di assolutamente inedito nella pittura dell’urbinate.
I discepoli di Cristo, chiamati a liberare il ragazzo dal demone che lo scuote e lo opprime, si smarriscono confusi; non sono capaci di agire, si consultano tra loro convulsamente, i loro sguardi vagano senza meta, le loro mani incerte rimettono l’impegno a Colui al quale tutto è possibile. I loro corpi vertono in direzioni diverse, opposte; addirittura uno di loro cerca nelle scritture le “istruzioni” per operare il miracolo richiesto. Sono confusi perché non hanno fede in se stessi; e non hanno fede in se stessi perché non hanno abbastanza fede in Dio.
Tutto questo mentre dall’altra parte, i familiari del ragazzo assistono attoniti alla manifesta inadeguatezza di coloro nei quali avevano riposto le loro speranze; l’espressione incredula dell’uomo che regge il ragazzo è esplicativa, in questo senso. Solo un personaggio, in questa scena così inquieta e concitata, appare stranamente “equilibrato”: la figura femminile inginocchiata al centro tra i due gruppi (fig. 8), alla quale già il Vasari attribuiva un ruolo cruciale:
“Evvi una femina fra molte, la quale è principale figura di quella tavola, che inginocchiata dinanzi a quegli, voltando la testa loro, et coll’atto delle braccia verso lo spiritato, mostra la miseria di colui.”
Quella della donna in ginocchio – a ben vedere – è l’unica figura, nella parte bassa del dipinto, inondata della stessa luce chiara e intensa visibile nella parte superiore. Essa risulta isolata, quasi avulsa dal contesto, nelle vesti dai colori pastello, nell’incarnato diafano, nella posa orante. Come già descritto dal Vasari, questa elegante figura volge la testa a sinistra, mentre con le braccia indica il lato opposto, quasi tracciando un percorso esplicativo, “rivelatorio”, agli smarriti e inconcludenti discepoli di Gesù.
Si tratta – con ogni probabilità – di una allegoria della Grazia, dalla quale, attraverso la preghiera, si ottiene il dono della fede che rende tutto “possibile”. Esattamente ciò che è mancato ai discepoli chiamati a liberare il ragazzo posseduto dallo “spirito muto”. Esattamente ciò che la Chiesa voleva scongiurare nel popolo dei fedeli: la mancanza di fede, che li avrebbe condotti alla perdizione. Quella strana, “luminosa” figura allegorica concepita da Raffaello diventa, probabilmente, l’origine da cui si diparte la rivoluzione pittorica del Caravaggio; la luce vivida, indefinibile, che su essa si posa e che da essa emana, sarà il nuovo linguaggio “didattico” con cui il maestro lombardo comunicherà al popolo il messaggio di Cristo e della Chiesa: la via verso la salvezza.
E come in un percorso obbligato – forse non casuale – proprio la Pinacoteca vaticana guida il visitatore dalla Trasfigurazione di Raffaello alla Deposizione del Caravaggio, dove le intuizioni luministiche dell’urbinate trovano compimento; elaborate, evolute e applicate con una nuova inusitata potenza. Le ombre che si affacciavano scure e frammentarie, tra il lampeggiare convulso di luci discordanti, per direzione e intensità, nella pala dell’urbinate, si concentrano sul fondo della scena caravaggesca come “summa” unica, concettuale, del buio in cui si brancola quando non si ricorre alla preghiera, quando non ci si apre alla speranza, quando – in definitiva – si manca di fede.
Ed ecco la rivoluzione del Caravaggio, l’evoluzione del pensiero di Raffaello elevato all’ennesima potenza: il fondo scuro nella Deposizione, concentra l’idea della disperazione ed esalta la potenza rivelatoria della luce che lo squarcia, improvvisa e violenta. Da quel buio intenso le figure umane emergono come apparizioni spettacolari di luce e colore che catalizzano l’attenzione, invadono la scena e la rendono viva, estremamente “attuale”. Il corpo del Cristo (fig. 9) è investito da una luce abbagliante, quasi profetica; la stessa che farà dire al Bellori che “tutto l’ignudo è ritratto con forza nella più esatta imitatione”.
Quella luce potente, che disegna e pervade le forme plastiche del Cristo, è il respiro dell’Eterno, la Grazia che cancella la morte da un corpo esanime ma incorruttibile, dove la vita già esplode nell’evidenza fulgida di muscoli contratti e vene pulsanti. Quello del Cristo è un corpo morto che splende “vivo”, “acceso” come il roveto ardente dell’Antico Testamento. La sequenza ideologica che la luce della Grazia illumina nelle opere del Caravaggio è chiara e inequivocabile: sacrificio – fede – salvezza. Questa è la via tracciata da seguire nel quotidiano; questo l’unico vero messaggio da veicolare, e il maestro lombardo lo fa cogliendo e concretizzando fattivamente l’intuizione raffaellesca di una luce che “parlasse” al riguardante; nella fattispecie al fedele smarrito per le vie tortuose e scure del peccato e dell’eresia. Pàthos e mìmesis, prodotti da quella luce salvifica, sono l’effetto empatico, deflagrante, che “accresce la divozione et compunge le viscere”. Esattamente ciò che richiedeva la funzione didattica dell’immagine sacra secondo i dettami tridentini, nonché oratoriani.
Caravaggio, però, va anche oltre. La luce divina è l’elemento rivelatorio, essenziale, che guida il fedele verso la salvezza; ma egli deve essere accompagnato passo dopo passo in questo cammino di fede. Nulla deve essere lasciato al caso. Per tale motivo, ogni aspetto strutturale del dipinto a soggetto sacro, viene concepito dall’artista lombardo in funzione della fruizione finale nel luogo specifico per il quale è stato commissionato. E questo vale tanto di più per una pala d’altare come la Deposizione.
L’osservazione diretta del dipinto e le preziose indicazioni di Sara Magister mi hanno dato prova di quanto fervido sia stato, in tal senso, l’ingegno prodigioso del Caravaggio; del quale, i faziosi biografi, nonché certa divulgazione contemporanea, hanno sempre raccontato che non avesse basi tecniche di disegno e prospettiva. Ebbene, mi sarebbe tanto piaciuto, quel pomeriggio del 6 ottobre scorso, che messer Bellori – ad esempio – fosse stato accanto a me nella sala XII della Pinacoteca vaticana per metterlo, finalmente, di fronte alle sue “omissioni”, che hanno fatto danni secolari alla reputazione del maestro lombardo:
“non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza della pittura”, costantemente biasimato per “non intendere né piani, né prospettiva”.
Avrei voluto costringerlo ad ammettere, quale incredibile stratega della visione prospettica – invece – fu il suo esecrato Caravaggio. L’opera d’arte sacra nasce per un contesto specifico, per una posizione e una visualizzazione precise; il tutto in funzione del messaggio “didattico” di cui si è già detto. E il maestro lombardo ne era consapevole.
La Deposizione commissionata dai Vittrice al Caravaggio avrebbe trovato collocazione nella seconda cappella della navata di destra rispetto all’ingresso della chiesa di Santa Maria in Vallicella. Il fedele che avesse dovuto recarsi presso la cappella per assistere alle funzioni liturgiche, prima ancora di vedere la pala d’altare frontalmente l’avrebbe vista di scorcio e dal lato destro; quello da cui si proviene entrando nella chiesa. Dunque già dal primo impatto visivo, l’immagine avrebbe dovuto “parlare”, catturare l’attenzione, raccontare l’evento sacro e coinvolgere il riguardante.
Ed è esattamente ciò che accade posizionandosi sul lato destro del dipinto: si viene letteralmente risucchiati dentro la scena, ci si ritrova tutti in braccio a Giovanni e Nicodemo (o Giuseppe d’Arimatea) per essere trasportati, insieme al Cristo, nell’antro scuro del sepolcro, che si apre, appena percettibile, sul lato sinistro del dipinto. Un effetto esperibile solo se si osserva l’opera dal vivo, procedendo verso la scena come si sarebbe fatto all’interno della chiesa; nessuna foto, per quanto ad alta definizione, potrà mai restituire questa percezione così netta. Inoltre, da quella angolazione la scena appare assolutamente equilibrata, nelle forme e nei volumi; mentre risulta stravolta se la si osserva dal lato opposto, quello sinistro, dal quale le figure appaiono compresse, deformate. Proprio perché le linee di prospettiva che Caravaggio impiega per la composizione prevedono la visione ottimale, primaria, dal lato destro, quello da cui arriva l’osservatore (fig. 10).
Ma il vero e proprio “miracolo” ottico si compie quando ci si muove da destra verso il centro, per guadagnare la posizione frontale, e nulla di quell’impianto armonico cambia, se non la percezione di aver raggiunto una specie di “traguardo”. La consapevolezza che quello straordinario dipinto sia una pala d’altare, costringe – oggi – l’osservatore a immaginarlo nella sua collocazione originaria, proprio sopra la mensa da cui il sacerdote, durante il rito della Consacrazione, solleva l’ostia verso l’alto. E non serve uno sforzo d’intelletto per visualizzare quell’ostia innalzata che si congiunge al corpo del Cristo nel dipinto (fig. 11); un corpo “vivo”, che si offre in sacrificio per l’espiazione dei peccati del mondo.
Ed ecco che il senso mistico della Transustanziazione si concretizza, materialmente, davanti agli occhi increduli dei fedeli; a fugare ogni dubbio, qualora ne avessero, che Cristo è morto e risorto per diventare, realmente, “pane di vita eterna”. La stessa pietra sepolcrale su cui grava l’intero peso della scena, a ricordare che “la pietra scartata dagli uomini è divenuta pietra d’angolo”, posta di spigolo verso l’esterno della tela, vista dal lato destro risulta avere una costruzione prospettica la cui linea di fuga migra da destra a sinistra (fig. 12).
Solo alla visione frontale l’angolo della pietra appare centrale (fig. 13), e si visualizza proprio in corrispondenza della direttrice lungo la quale viene innalzata l’ostia.
Non si ottiene una tale precisione figurativa senza uno studio tecnico rigoroso, senza una ricerca metodica orientata alla resa finale; indubbiamente il maestro lombardo aveva ben chiaro il proprio obbiettivo e anche come raggiungerlo. L’arte del Caravaggio risponde a una funzione precisa e per questo risulta assolutamente chiara: il “corpo di Cristo” che egli offre ai fedeli, inondato dalla luce della Grazia divina, su quella pietra sepolcrale che prefigura proprio l’altare, è la più viva testimonianza di una resurrezione che è già in atto; è la più concreta conferma che il sacrificio e la fede conducono alla salvezza e alla vita eterna. Per chi ha fede tutto è possibile; lo stesso annuncio che sembra veicolare la figura inginocchiata nella Trasfigurazione di Raffaello.
Messaggio ricevuto, missione compiuta.
Il naturalismo “integralista” del Caravaggio, tra oscuri profondi e squarci di luce, si fa strumento di una missione didattica imprescindibile per l’artista che, in quel particolare periodo storico, avesse ambito alle grandi commissioni pubbliche.
In questo consiste la rivoluzione pittorica del Merisi: aver saputo rielaborare in chiave “sacrale” le sue radici stilistiche territoriali e i riverberi profetici dell’ultima “grande maniera”, esaltandone le specifiche peculiarità con uno stile suo proprio, ma assolutamente adeguato alle esigenze dottrinali di una pittura assoggettata ai dettami ecclesiastici. Il risultato furono opere di pregio assoluto che scossero dalle fondamenta l’ambiente artistico romano, costringendolo a fare i conti con il “nuovo che avanza” e si prende la scena, tra gli applausi entusiasti di collezionisti e notabili a ogni livello della società romana. E soprattutto con l’assenso compiaciuto degli apparati ecclesiali che, a dispetto della vulgata, accolsero ben volentieri lo stile rivoluzionario di un pittore la cui novità risultava così opportunamente “funzionale” alle intenzioni di Santa Romana Chiesa.
Francesca SARACENO , Catania, novembre 2022.
BIBLIOGRAFIA: