di Elvira D’AMICO
Considerata da Maurizio Calvesi (1976) “una delle più preziose gemme d’arte della città di Palermo”, la cappella denominata “del Borremans” sita all’interno del Palazzo Arcivescovile, oggi facente parte del percorso del Museo Diocesano del capoluogo siciliano (figg.1-2),
prende il nome dalle suggestive pitture qui eseguite dal pittore fiammingo Guglielmo Borremans (Anversa, 1672-Palermo, 1744), che una volta si estendevano a tutte le sale del piano nobile del monumentale palazzo palermitano, perdute in seguito alle trasformazioni ottocentesche (Di Natale 2010).
In esse il pittore, approdato in Sicilia dalle Fiandre dopo i suoi soggiorni a Roma e a Napoli, immette una concezione fino ad allora nuova nel convenzionale ambiente locale, proponendo una rivisitazione dei fatti evangelici e vetero-testamentari in chiave leggiadra e mondana, condotta con una levità nel racconto che equivale alla leggerezza di tocco del suo arioso stile rococò.
Il committente della vasta opera è l’arcivescovo di Palermo Matteo Basile (1733-36), di cui il pittore esegue negli stessi anni il ritratto (fig.3), il quale pensa al ciclo delle Storie della vita di Cristo (alternate a figure di profeti), già trattate dal fiammingo in altre chiese palermitane, che qui nello scrigno prezioso e solenne dei saloni dell’ imponente palazzo, ha modo di potenziarsi ed esaltarsi, dispiegandosi in tutta la sua estensione (D’Amico 2011).
Spetta poi al cardinal Ruffini intorno alla metà dello scorso secolo (1945-1967) la volontà di creare una nuova destinazione d’uso del salone superstite affrescato, apponendo a una delle pareti di esso, quella recante Il riposo durante la fuga in Egitto, un altare di spoglio da chiese distrutte o chiuse al culto (fig.4).
Così dalla chiesa di San Giovanni all’Origlione, un tempo annessa a un monastero di suore benedettine, recupera l’altare marmoreo settecentesco, sul quale depone un prezioso tabernacolo che si indovina subito non far parte del complesso originario. Esso, in marmi, lapislazzuli e rame dorato (fig.5),
appare agile nella struttura, rispetto agli altri cibori in lapislazzuli della tradizione cittadina- come quelli monumentali di Cosimo Fanzago alla Cattedrale o di Paolo Amato alla Martorana – avendo una base e ‘piedistallata’ frastagliata sulla quale poggiano esili colonnine rivestite da sottili lastre di lapislazzuli e uno sportello pure in lapislazzuli rifinito da profilature in metallo dorato, che si indovina possa essere argento nel sottile fregio interno di stile barocchetto. Nella parte superiore poi una cupola sui generis, che rievoca quelle ‘a squame’ di maiolica di alcune chiese siciliane, in pietra calcara pure sui toni del blu, che sembra riecheggiare quella disegnata da Giacomo Amato per la chiesa di Montevergini (riprodotta in Guadagna 2016), sovrastata da un crocifisso in rame dorato, con l‘apposizione sul tamburo di una raggiera dello Spirito Santo e di due angioletti pure in rame dorato.
L’opera, considerata a tutt’oggi di sconosciuta provenienza, per la quale è stata ipotizzata l’ideazione di un architetto della prima metà del secolo XVIII (Guadagna), è a mio parere identificabile con la custodia realizzata nel 1725-26 per la perduta chiesa delle Stimmate di San Francesco dal marmoraio Antonio Rizzo su disegno dell’architetto Carlo Infantolino . Tra i miei appunti archivistici di alcuni anni fa, trovo un’annotazione compendiaria, ricavata da una minuta di notar Sardo e Fontana:
“A 28 luglio 1726
Magister Antonio Rizzo marmorarius…riceve da Suor Anna Beatrice Branciforti un pagamento per una cifra complessiva di o.122,26…per maestria per le pietre di diaspro agata e calcara fatto a ingasto…per avere lavorato ed allustrato alcune pietre di lapis lazzaro ed ingasto delle medesime per servitio primi ordini nove custodie si sta facendo in monasterium stigmatum come per relatione fatta per sacerdotem Don Carlo Infantillino ingegnerum et architectum” (ASPa, vol.2175, f.2221).
La ricerca archivistica è stata di recente ampliata portando alla documentazione relativa all’intero altare marmoreo eseguito su disegno dello stesso architetto due anni prima (1724) (Sola 2018).
Dai documenti resi noti sembra cogliersi sin da subito la differenza tra il tabernacolo, caratterizzato dai toni del blu, dato dal lapislazzuli e dagli smaltini di calcara, e l’altare sottostante, sui toni prevalenti del giallino e del rosso, essendo costituito da diaspro fiorito, pietra agata, giallo di Castronovo e rosso libeccio impiegati a grandi lastre (Sola).
L’altar maggiore dunque, che aveva pure due medaglioni marmorei forse di Giovan Battista Ragusa (Sola), eseguito secondo il gusto dei primi decenni del ‘700, doveva troneggiare nella chiesa annessa a un monastero di clarisse, fondata dalla famiglia Branciforti agli inizi del secolo XVII e atterrata a cavallo degli anni 1860-70 per la costruzione del Teatro Massimo.
Il pregio indiscusso del tabernacolo, che doveva essere superiore a quello della mensa sottostante, è ancora attestato dagli storici locali che fin dallo stesso secolo XVIII ne riportano entusiastiche descrizioni. Il canonico Mongitore per primo, trattando della chiesa delle Stimmate, lo descrive nella sua interezza, completo del secondo ordine, non noto dal documento iniziale che si fermava alla citazione del primo ordine:
“Ha il maggiore altare … dedicato al Ss. Sacramento con tabernacolo d’argento ricoperto di marmi, pietre mischie, pietre di paragone egregiamente lavorate e nella parte superiore con stucco coperto d’oro”.
Dunque il canonico, che vede l’opera appena ultimata, aggiunge nuovi particolari per l’ identificazione del pezzo che appariva sovrastato da stucchi dorati, probabilmente riferentisi alla raggiera con testine di cherubini e ai puttini laterali, simili a stucchi, che in realtà potevano essere di rame dorato, come risulta da un altro pagamento cumulativo del 1725 “al mastro Marmoraro Argintero Ingegniero per lapis lazzaro pietra agata libeccio zecchino per addorare il rame per uso della medesima custodia ed altri” (Sola).
Altrettanto significativa è ancora la citazione che dell’opera fa Gaspare Palermo (1816 ca.), per la quale spende parole di lode, ignorando di nuovo l’altare che la sostiene, ma anche tacendo incredibilmente dei pregevoli stucchi serpottiani dei quali era adorna la chiesa (1703-04), che oggi costituiscono il fulcro del Museo dell’Oratorio dei Bianchi (figg.6-7) :
“Chiesa e Monistero delle Stimmate di S.Francesco…L’altar maggiore era con custodia di pietre dure pregevolissime, ed il cappellone ornato di marmi e di stucchi dorati, e pitture del Borromans ”. Inoltre egli parlando al passato dell’opera ci dà un’ ulteriore informazione circa la sua asportazione, già avvenuta nel secondo decennio del secolo, che il Di Marzo Ferro in nota puntualizza essersi verificata poco dopo, nel 1828, per una questione di mutamento del gusto, infatti “in tale cambiamento si rifece l’altare maggiore con gusto moderno”.
L’opera in esame, che verrebbe ad ampliare la produzione poco nota dell’architetto Carlo Infantolino come ‘designer di arti minori’ (D’Amico 1987), sembra dunque rispondere alla descrizione dei documenti sopra riportati ed alle testimonianze degli storici locali, ed è stilisticamente assimilabile pure al tabernacolo ligneo superstite dell’altare di Piana degli Albanesi, eseguito nel 1710 dall’intagliatore Pietro Marino su disegno dell’Infantolino (fig.8), sebbene essendo passati circa 15 anni lo stile ancora barocco di quello si è tramutato nel nostro in uno più classicistico e razionale.
Non par dubbio che oggi la nuova collocazione della custodia, che un invisibile fil rouge lega dunque all’altra realtà museale serpottiana della città di Palermo, appaia la cornice più consona per esaltarne la bellezza e il pregio artistico sottolineati nei secoli passati dagli entusiastici visitatori. E’ infatti plausibile che il cardinal Ruffini volesse collocare l’opera dismessa dalla chiesa francescana in uno scenario che gli consentisse di ricostituire l’ambiente originale, di gusto squisitamente rocaille, per cui essa era stata pensata, quello dell’abside ecclesiale affrescata con pitture del Borremans, le stesse che oggi fanno di nuovo da sfondo alla preziosa opera d’arte applicata.
Elvira D’AMICO Palermo 11 luglio 2021
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