di Claudia RENZI
Eseguito a Siracusa nel 1608 nell’arco di poche settimane tra ottobre post 6, data della fuga da Malta, e dicembre, prima del 6, quando il maestro risulta già a Messina[1], il Seppellimento di santa Lucia (Fig. 1), il più grande della produzione del Caravaggio dopo la Decollazione di Giovanni Battista (1608, La Valletta, Oratorio di San Giovanni dei Cavalieri) fu probabilmente terminato entro il 13 dicembre, festa della santa[2], ed è oggi, reduce da travagliate peripezie conservative, di nuovo sull’altare del Santuario di Santa Lucia al Sepolcro a Siracusa dove, secondo la tradizione, la santa ventunenne subì il martirio e fu sepolta:
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“Quanto a Lucia ella non fu mossa dal luogo dove fu torturata e non rese il suo spirito finché non vennero i sacerdoti a portar il corpo del Signore. Tutti i presenti risposero amen al Signore. In quello stesso luogo fu sepolta, e venne edificata la chiesa”[3].
A tutt’oggi non sono noti gli estremi della commissione[4] e le fonti in merito sono piuttosto laconiche: Giovanni Pietro Bellori si limitò ad annotare che Caravaggio
“Pervenuto in Siracusa, fece il quadro per la Chiesa di Santa Lucia, che sta fuori alla Marina; dipinse la Santa morta col Vescovo che la benedice e vi sono due che scavano la terra con la pala per seppellirla”[5];
mentre, secondo Francesco Susinno, sarebbe da ricondurre all’intercessione di Mario Minniti, pittore col quale Caravaggio aveva fatto amicizia a Roma anni prima e che nel 1608 era da tempo tornato sull’isola natia, l’ottenimento dell’incarico per la pala:
“Nottetempo scalati i muri fuggì in Sicilia, e ricovratosi nella città di Siracusa fi ivi accolto dall’amico suo e collega nello studio di pittura, Mario Minniti pittore siracusano, da cui ricevette tutta la compitezza che poté farle la civiltà d’un galantuomo. Lo stesso supplicò quel senato della città acciò impiegasse il Caravaggio in qualche lavoro […] ed insubito l’impiegò nella fattura di una gran tela della vergine e martire S. Lucia siciliana…” che ebbe sin da subito grande successo: “Riuscì di tal gradimento questa gran tela che comunemente vien celebrata, ed è tale di questa dipintura il meritato concetto che in Messina ed altresì in tutte le città del regno se ne veggono molte copie”[6].
Le “molte copie”, sopraggiunte fino ad oggi in numero di undici, attestano l’immediato successo del dipinto e costituiscono un’importante testimonianza per alcuni dettagli dell’originale oggi quasi scomparsi quali il piede dx della vergine e la palma del martirio nella sua mano dx; il manto su cui era adagiata; il pastorale del vescovo inizialmente orientato a destra cioè verso l’”esterno” della tela, anzichè verso il popolo; le pietre in terra e i badili dei fossori oggi sbiaditi; un ramo spezzato tra le gambe del fossore di sx, probabile allusione al fior dei gentili anni di Lucia caduto.
Il monumentale dipinto, altamente devozionale pur nella sua struggente essenzialità, inscena un aspetto poco praticato dell’agiografia di Lucia: il seppellimento.
Secondo le fonti Lucia era una giovane siracusana che, dopo aver accompagnato la madre afflitta da incessanti perdite di sangue sulla tomba della catanese Agata per impetrarne la guarigione, prese coscienza della sua missione e, pur essendo promessa sin dall’infanzia a un giovane del luogo, decise di votarsi a Cristo spendendo gli ultimi tre anni della sua vita al servizio dei poveri, assistendo bisognosi, ristorando infermi e vedove dando fondo alla propria dote, finché quello che era stato il suo promesso la denunciò quale cristiana al proconsole Pascasio. Questi ne decretò la morte in seguito al vano proposito di chiuderla in un lupanare se non ci avesse ripensato – Dio rese la fanciulla miracolosamente inamovibile tanto che mille uomini e poi mille coppie di buoi e alcuni maghi non riuscirono a smuoverla – e ai falliti tentativi di bruciarla cospargendola di pece, resina e olio bollente; infine Lucia fu martirizzarla attingendo alla sua gola con una lama.
L’ambiente incombente eppure scarno – nello “sfondo rarefatto […] quasi un acquario d’ombra”[7] si intravede a malapena un malinconico arco sulla sx, caratterizzato da una porta ormai evanescente – fa da teatro a un rito funebre. Nonostante le proposte di individuazione di uno specifico sito reale quale set del dipinto[8], è probabile che il pittore abbia operato una crasi di luoghi diversi personalmente visti – Caravaggio aveva visitato le latomie, in particolare quella ribattezzata proprio in seguito a un suo commento, “orecchio di Dioniso”, in compagnia dell’erudito Vincenzo Mirabella il quale, anni dopo, avrebbe riportato l’episodio in una sua pubblicazione[9], ripreso in seguito anche da Giuseppe Maria Capodieci [10]– creando dunque una location artificiale, una scenografia a tutti gli effetti.
Il deterioramento della tela contribuisce a rendere l’ambiente scabro, pulviscolare: il vuoto che nella Chiamata di Matteo (1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi) si riempie di luce all’irrompere di Cristo nella vita dello spiazzato pubblicano pare qui colmo soltanto di smarrimento; animato unicamente dal fruscio secco delle pale che dissodano la nuda terra atta a ricevere la semente della fede di Lucia, che sin da subito avrebbe dato grandi frutti: i convenuti raccolti in muta desolazione sono a rappresentare proprio la primitiva comunità cristiana aretusea che aveva sfidato l’autorità per presenziare alle esequie della giovane martire, un campionario di quegli infermi, poveri e vedove, di quella “religiosa plebe”[11] che Lucia aveva assistito.
Ai lati della scena, quasi quinte teatrali in carne e ossa che veicolano l’attenzione sulla liliale fanciulla deposta in terra, due imponenti, statuari fossori che hanno forse un debito nei confronti dei due boia nell’affresco raffigurante il Martirio di san Vitale eseguito nel 1582 da Niccolò Circignani detto il Pomarancio [12], in Santo Stefano Rotondo a Roma (chiesa titolo del cardinale Matteo Contarelli, che quindi Caravaggio ha visto e studiato senza dubbi): uno concentrato nel ferale compito, cui attende con accanimento quasi belluino, l’altro improvvisamente distratto da qualcosa che gli fa sospendere la mesta attività.
Sulla dx, accanto al fossore all’opera, si staglia la figura di un soldato e, subito appresso, il vescovo officiante il rito: i due personaggi e i fossori sono sulla stessa linea, in primo piano; dietro di loro, a scalare, Lucia e i dolenti convenuti.
Tra questi ultimi, maschere più o meno tragiche, quasi un coro da tragedia greca, ricompare il “tipo” della vecchia con le mani al volto già visto in precedenza (es. nella Decollazione di Giovanni Battista) mentre l’individuo che si porta un fazzoletto alla gota per asciugarsi le lacrime è lo stesso modello già comparso nella Decollazione di Giovanni Battista e che tornerà a breve nella dispersa Natività coi SS. Francesco e Lorenzo (1609, già Palermo).
Lucia (Fig. 2) è adagiata in terra su un non più leggibile manto (che dalla copia eseguita da Mario Minniti, Roma, coll. priv., pare fosse di colore ocra gialla), forse il sudario che è servito a trasportala; nella mano dx la palma del martirio oggi quasi del tutto scomparsa.
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Dalle radiografie [13] risulta che la testa di Lucia era inizialmente spiccata dal tronco: il ripensamento potrebbe essere relativo al dibattito dell’epoca sulle reali condizioni di martirio della santa di cui dominavano principalmente due versioni: secondo quella greca, a Lucia era stata recisa la testa; secondo la latina le era stata trafitta la gola con un pugnale (jugulatio)[14].
Caravaggio ha probabilmente anche qui operato una crasi, in questo caso delle due principali varianti agiografiche, mostrando alla fine un taglio molto profondo, memore forse anche – come proposto da Howard Hibbard [15] – della celebre statua raffigurante Santa Cecilia di Stefano Maderno (1600, Roma, Santa Cecilia) eseguita sulla scorta del rinvenimento, nel 1599, del corpo incorrotto della martire che presentava ancora i tagli che ne avevano attinto il collo: di niveo marmo pare in effetti anche il corpo di Lucia, nella cui plasticità Caravaggio ha forse voluto alludere, anche, alla sua prodigiosa condizione di inamovibile prima del martirio vero e proprio.
Caravaggio dunque:
“ non perse occasione di innovare, ma lo fece in modo colto e avveduto, adeguando il soggetto sacro ai più aggiornati termini storici”[16].
Nel consesso c’è tuttavia qualcuno che rivolge l’attenzione altrove: l’uomo in fondo sulla dx del quale si intravede appena, coperto dal braccio e dalla mano del vescovo, la parte superiore del viso, e il fossore a sx.
Il personaggio più in fondo non sembra interessato all’evento: il suo sguardo è già rivolto a contemplare qualcosa “fuori” dal quadro. È probabile non ritragga un individuo in particolare, come pure si è ipotizzato [17] – quale dovrebbe essere il senso di un ritratto mostrante soltanto mezza faccia di qualcuno che si vorrebbe, eventualmente, omaggiare? – né pare probabile possa trattarsi, in alternativa, di un autoritratto più o meno criptico: palesemente diversi, nonostante le critiche condizioni del dipinto, i lineamenti qui visibili rispetto a quelli degli autoritratti certi, e va d’altro canto tenuto presente che Caravaggio era sì fuggito da Malta in maniera rocambolesca, ma non era approdato in Sicilia in chissà quale grande incognito: vi ha passato anzi diversi mesi, avendo agio di soddisfare varie commissioni, e ovunque si è presentato col suo nome e spendendo il titolo di Cavaliere[18]; se si fosse sentito braccato è presumibile la sua condotta sarebbe stata ben diversa. Nulla di più lontano, insomma dal “fuggì sconosciuto in Sicilia” preteso da Bellori [19]: dunque se Caravaggio avesse voluto qui autoritrarsi come da tradizione un pittore era uso in caso di dipinti che stimava particolarmente importanti, lo avrebbe fatto mettendo lo spettatore in condizione di riconoscerlo e individuarlo con facilità, ponendo il cameo in maniera più limpida e evidente.
Dato che del personaggio si notano, significativamente, soltanto gli occhi, si potrebbe supporre si tratti di un’allusione alla tradizione popolare (assente nelle più antiche passio) che vuole Lucia protettrice della vista per aver subito l’enucleazione degli occhi ma, a ben guardare, il personaggio rimanda piuttosto – anche l’incidenza della luce, da dx verso sx è la stessa – al volto e sguardo del pubblicano Matteo nella Chiamata Contarelli: lì è la luce salvifica di Cristo a “illuminare” Matteo, qui cos’è a illuminare l’uomo in fondo e il fossore di sx, che pure è rivolto verso la luce? Ha forse quest’ultimo sospeso il lavoro perché soltanto in attesa di istruzioni dal vescovo? Non pare il caso, perché l’officiante va di fretta, non c’è tempo, in quel funerale clandestino, da sciupare in cerimonie: la funzione va sbrigata lesta, alla chetichella, prima di attirare attenzioni indesiderate; il vescovo fa “appena in tempo a benedire il corpo, incalzato dal soldato che ne sollecita la sepoltura”[20]. A cosa rivolgono allora lo sguardo, lui e il personaggio sullo sfondo, già consapevoli forse che Lucia non è più lì, che ai loro piedi ci sono soltanto le sue spoglie mortali, un guscio ormai vuoto, perché lei è già nella Luce suprema?
Probabilmente i due personaggi guardano e alludono alla lucis via di cui la martire, che illumina il cammino dell’uomo nella comprensione del Vangelo, è incarnazione: “via della luce” è infatti il significato del suo nome secondo la Legenda aurea.
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Tra gli astanti quello che comunque attira maggiormente l’attenzione è il giovane al centro (Fig. 3), col capo chino verso il corpo esanime della santa, quasi tutto il rosso vivo del sangue di lei fosse confluito nel manto che di lui punteggia le spalle, sparuto conforto alla meditazione sulla morte.
Il giovane si trova tra due figure femminili dolenti, che rappresentano probabilmente le vedove che secondo le fonti Lucia aveva assistito: considerando la vicinanza fisica con una delle due, quella alla sua dx, si potrebbe persino supporre ella sia sua madre, mentre l’anziana inginocchiata, accartocciata da dolore, potrebbe anche essere interpretata come la madre di Lucia.
Considerando la posizione preminente del ragazzo, ci si è presto interrogati su chi o cosa rappresenti. Definito impropriamente diacono [21] è più probabile egli sia un chierico, parte di quel clero citato senz’altro nella Legenda aurea, come indovinato da alcuni spettatori successivi[22].
L’abito del giovane non è quello comune di un popolano, somiglia infatti piuttosto a una veste lunga, talare, e sembra sulle prime essere nero[23], tuttavia, osservando bene, il colore deducibile dalle sfumature è piuttosto in realtà un verde scuro[24], il che suggerisce l’ipotesi di un accenno alla figura di san Giovanni evangelista – unico apostolo tra l’altro raffigurato convenzionalmente sempre glabro, in quanto il più giovane – dolente ai piedi della Croce, assieme alla Vergine, i cui colori convenzionali sono proprio rosso e verde.
Questo perché proprio a Siracusa anche il culto di san Giovanni era molto sentito, sin da quando nel III sec. era stata edificata, sul luogo ove tradizionalmente fu sepolto san Marciano martire[25], una piccola chiesa chiamata oggi San Giovanni alle catacombe, uno dei primi centri di culto cristiani dell’isola: è possibile che Caravaggio, con quel tocco di verde, abbia fuso, ancora una volta, più concetti.
Tuttavia quello che nel maestro era un discreto accenno degenera fino allo stravolgimento nella modesta copia di Anonimo custodita in Santa Lucia (1817 ca., Ragusa): il ragazzo al centro ha qui non più soltanto un drappo a punteggiargli le spalle, ma un ampio mantello rosso, e una veste ora palesemente verde, proprio come vuole l’iconografia relativa a san Giovanni; la vedova alla sua dx è avvolta in un manto azzurro come quello canonico della Vergine mentre la dolente alla sua sx, che nel dipinto di Caravaggio e in diverse copie coeve è senza dubbi anziana, qui pare decisamente giovane e con un abito anch’esso dai toni celesti: giovinezza e bellezza che potrebbero far pensare a Maria di Magdala – unica discepola presente, con Giovanni, alla Crocifissione insieme alla Madonna – o al limite a sant’Agata, “amica” di Lucia come riporta la Legenda aurea. A chiudere la variante un angelo svolazzante che indica con la dx verso il basso e reca nella mano sx una coppa con gli occhi di Lucia e un’apertura sulla parete di dx, alle spalle del vescovo.
Ad accostare il giovane chierico caravaggesco all’iconografia di San Giovanni ai piedi della Croce non tanto per il colore della veste quanto per la posa, e la figura femminile alla sua destra a quella della Vergine, fu Hibbard:
“The ecclesiastical figure behind Lucy and the female figure at his right derive from the tradition of the dolorous John and Mary in Renaissance Crucifixions”[26].
Hibbard non indicò un precedente specifico dunque l’osservazione, senza dubbi pertinente, e che non fa altro che confermare quanto Caravaggio fosse artisticamente colto e attento al lavoro di colleghi e predecessori dai quali attingeva senza ingiustificati imbarazzi rielaborando poi alla sua maniera quanto assorbito, era di carattere generale.
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È tuttavia possibile che per la posa del giovane del Seppellimento di santa Lucia vi sia una fonte in particolare da tenere in considerazione: la Crocifissione con la Vergine e i SS. Domenico e Giovanni, detta anche Pala Cornovi Della Vecchia, di Tiziano, databile al 1558, realizzata per la chiesa di San Domenico ad Ancona e oggi conservata nella Pinacoteca Francesco Podesti la cui esposizione a Roma, Musei Capitolini, si è da poco conclusa (Fig. 4).
Firmata TITIANVS F. 1558, la pala mostra Gesù crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni mentre, ai piedi della Croce, altissimo legno, misura dell’abisso tra umano e divino in quel tragico eppur necessario venerdì, albero di Jesse che “isola” un Gesù titanico, eroico eppur fragile, aggrappato ad essa, è san Domenico.
Il tono generale del dipinto è cupo poiché, secondo i Vangeli sinottici e alcuni apocrifi, alla morte di Gesù il cielo si oscurò: la terra del Calvario è scura, quasi nera, ad accentuare il senso di sgomento e rovina; la luce deflagra nel rosso vivo del manto di Giovanni, “testimone” fino in fondo e qui unico rivolto verso il Maestro, quasi non si capacitasse di quello che pure era scritto doveva accadere, per poi stemperarsi nell’ocra della veste, contraltare al blu oltremare del manto della Vergine la cui figura statuaria, quasi monolitica, pietrificata dal dolore, colpisce particolarmente. Le mani intrecciate in muto sconvolgimento, il capo chino, il volto ottenebrato, liquefatto dal dolore.
È forse proprio a questa figura che ha guardato Caravaggio, ricordandola anni dopo per il suo giovane dolente? Le mani rivolte verso il basso mostrano le dita intrecciate nello stesso identico modo, mentre le teste sono interessate da un’inclinazione speculare (Fig. 5):
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dunque una rielaborazione di una fonte senz’altro conosciuta che induce a domandarsi una volta di più se Caravaggio sia passato a Venezia prima di giungere a Roma, come pare probabile seppure non ancora dimostrato, o anche piuttosto in questo caso nelle Marche[27]: il dipinto di Tiziano sembra essere stato spedito subito ad Ancona, Caravaggio dunque può aver visto della tizianesca Crocifissione con la Vergine e i SS. Domenico e Giovanni probabilmente soltanto delle copie o incisioni; comunque ulteriore conferma che aveva ben presente il lavoro dei predecessori, dal quale traeva spesso e volentieri spunto e ispirazione.
©Claudia RENZI, Roma, 23 febbraio 2025
NOTE
[1] Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, 2005, Seppellimento di santa Lucia (scheda), pp. 547-549, p. 548; Gioacchino Barbera, Caravaggio: due capolavori a confronto, Siracusa, 2003, pp. 20-25, p. 20.
[2] Alessandro Zuccari, La pala di Siracusa e il tema della sepoltura in Caravaggio, in: Maurizio Calvesi (a cura di), L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli in Sicilia e a Malta, Siracusa, 1987, pp. 147-173, p. 151; Catherine Puglisi, Caravaggio, Londra, 1998, p. 317
[3] Jacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, 1995, pp. 34-37 (Santa Lucia Vergine), p. 37. Le fonti per il martirio di Lucia sono varie; vanno ricordati il Codice Papadopulo (databile al V sec. e chiamato anche Atti Greci), considerato il più antico racconto pervenuto; il codice Vaticano greco n. 866; il codice Vaticano latino n. 1190, ecc. Il particolare dell’edificazione della chiesa sul luogo del martirio è anche nel Codice Papadopulo; cfr. Sebastiano Amenta, Santa Lucia. La tradizione popolare a Siracusa, Tyche ed., 2017. Ad oggi le spoglie di Santa Lucia si trovano nella chiesa di San Geremia a Venezia.
[4] Per ipotesi sull’identità del committente si vedano M. Marini, op. cit., p. 547; Alvise Spadaro, Caravaggio in Sicilia. Il percorso smarrito, Acireale-Roma, 2012, pp. 83-98; A. Spadaro, Caravaggio a Caltagirone e la committenza francescana in Sicilia, in: «Incontri», 3, giugno 2013, pp. 47-52.
[5] Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pictori, scultori et architetti moderni, Roma, 1672, p. 210.
[6] Francesco Susinno, Le vite de’ pittori messinesi e di altri che fiorirono in Messina, Messina, 1724, pp. 115-124 (Vita di Michelangnolo Morigi pittore da Caravaggio, pp. 118-9.
[7] Maurizio Calvesi, Caravaggio, Firenze, 1986, p. 59, poi in: Idem, Le realtà del Caravaggio, Torino, 1990 p. 381.
[8] Maurizio Marini, Io Michelangelo da Caravaggio, Roma, 1973 [1974], Sepoltura di santa Lucia (scheda), pp. 443-444, p. 444, lesse nell’ambientazione un riferimento alla Grotta dei Cordari nella Latomia del Paradiso; Alessandro Zuccari, La politica culturale dell’oratorio romano nella Seconda metà del Cinquecento, in: «Storia dell’Arte», XLI, 1981, pp. 77-112 [poi in: Alessandro Zuccari, Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Milano, 2011, pp. 18-84], pp. 92-105, propose come luogo della sepoltura, accessibile ai tempi del pittore, la “rotonda di Adelphia” nel cimitero di San Giovanni e, in seguito, la cripta di San Marziano [Marciano], annessa alle catacombe di San Giovanni, cfr. A. Zuccari, La pala di Siracusa e il tema della sepoltura in Caravaggio, in: Maurizio Calvesi (a cura di), L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli in Sicilia e a Malta, Siracusa, 1987, pp. 147-173, pp. 157-9; riepilogo in M. Marini, op. cit., 2005, p. 548.
[9] Vincenzo Mirabella, Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse, Napoli, 1613, p. 89: “E mi si ricorda, che avendo io condotto a veder questa carcere quel Pittore singolare de’ nostri tempi Michel Angelo da Caravagio, egli considerando la fortezza di quella, mosso da quel suo ingegno unico imitatore delle cose di natura disse: Non vedete voi come il Tirano per volere fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volle altronde pigliare il modello che da quello che la natura per lo medesimo effetto fabbricò. Onde ei fece questa carcere a somiglianza d’un orecchio. La cosa sì come prima non considerata, così dopo saputa ed esaminata ha portato a’ più curiosi doppio stupore”.
[10] Giuseppe Maria Capodieci, Antichi monumenti di Siracusa illustrati dall’antiquario Giuseppe Maria Capodieci, Siracusa, 1813, vol. I, p. 364: “Nell’angolo della Grotta ove termina quasi a angolo ottuso vi è un canale aperto incavato nella viva pietra che principia dal fondo della Grotta e seguitando tortuosamente termina nella bocca d’un piccolo corridore che porta a una stanzina palmi 10. di quadro incavata nella viva pietra, per cui il volgo la chiama l’Orecchio di Dioniso, credendola lavorata in forma vera d’orecchio per ascoltare il tiranno [quel]lo che diceano anche a voce bassa i prigionieri. Michelangelo Caravaggio condotto dall’antiquario Mirabella per osservarla disse che fu formata a tale uso. Dubito però che siano tutte malfondate idee e narrazioni favolose”.
[11] Così sono definiti gli astanti all’inumazione della santa in una delle versioni latine della passio di Lucia, cfr. A. Zuccari, op. cit., 1987, p. 152, n. 15.
[12] A. Zuccari, op. cit., 1987, p. 170.
[13] Per cui si veda Michele Cordaro, Il restauro del Seppellimento di santa Lucia, in: AA. VV., Caravaggio in Sicilia: il suo tempo, il suo influsso, Palermo, 1984, pp. 269-293, pp. 270-279; Roberta Lapucci, Dopo Messina, Siracusa: ulteriori chiarificazioni per la tecnica dei dipinti siciliani del Caravaggio, in: Gioacchino Barbera, Roberta Lapucci (a cura di), Il Seppellimento di santa Lucia del Caravaggio, Siracusa, 1996, pp. 17-70.
[14] Nel Codice Papadopulo e nel Vaticano 866 la passione di Lucia si conclude con la decapitazione, mentre il Vaticano 1190 riferisce che “gladio visceribus transforata est”. In Santo Stefano Rotondo la scena col martirio di Lucia, Circignani adotta la jugulatio.
[15] Howard Hibbard, Caravaggio, New York, 1983, pp. 240; 328.
[16] Alessandro Zuccari, Seppellimento di santa Lucia (scheda), in: Claudio Strinati (a cura di), Caravaggio, Milano, 2010, pp. 214-219, p. 216.
[17] Es. Vincenzo Mirabella, l’erudito che aveva fatto da Cicerone a Caravaggio nelle latomie: per quanto il confronto con l’incisione che ritrae Mirabella nel suo Dichiarazioni della Pianta dell’antiche Siracuse, Napoli, 1613, sia abbastanza stringente da giustificare l’ipotesi, per la quale si veda M. Marini, op. cit., p. 548; Alvise Spadaro, Caravaggio in Sicilia, in: «Foglio d’Arte», n. 12, 1984, p. 11; Gioacchino Barbera, Caravaggio: due capolavori a confronto, Siracusa, 2003; Gioacchino Barbera, Donatella Spagnolo, Dal “Seppellimento di santa Lucia” alle “Storie della Passione”: note sul soggiorno del Caravaggio a Siracusa e a Messina, in: Nicola Spinosa (a cura di), Caravaggio, l’ultimo tempo 1606-1610, Napoli, 2004, pp. 80-87.
[18] M. Marini, op. cit., 2005, p. 86.
[19] Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672, p. 210.
[20] A. Zuccari, op. cit., 1987, p. 166.
[21] Mia Cinotti, Gian Alberto Dell’Acqua, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Tutte le opere, in: I Pittori bergamaschi. Il Seicento, I, Bergamo, 1983, pp. 203-641, pp. 546, 548.
[22] Il viaggiatore Carlo Castone Della Torre di Rezzonico, che aveva visto il dipinto nel suo tour del 1793-4, scrisse in seguito: “Con molto dolore mi posi a considerare una stupenda opera del Caravaggio, di cui non appariscono omai che l’ombre, e le reliquie in alcune bellissime figure di scavatori muscolosi ed ignudi, ed una folla d’uomini e di donne accorse con un vescovo, e parte del clero al diseppellimento di S. Lucia […] L’umidore della parete ha tanto nociuto a sì gran tela, che tutta è già piena di screpoli, e ne cadono le croste, e lasciano allo scoperto il canape tessuto” , cfr. Carlo Castone Della Torre Rezzonico, Viaggio della Sicilia, Palermo, 1828, p. 121 [grassetto mio]. Nonostante la svista per “disseppellimento” della santa, ripresa da altri commentatori, sul resto del dipinto la sua descrizione appare congrua.
[23] Nero risulta da alcune copie: in quelle di Anonimo (pre 1614, Caltagirone. coll. priv.) e Anonimo (1614 ca., Palestrina, convento dei Padri Carmelitani); ancora di Anonimo (XVII sec.?, già Sicli, Ragusa, coll. priv.); nell’affresco di Anonimo (post 1625, Santa Lucia del Mela, Messina). Forse anche, difficile stabilirlo, nella copia di Raffaele Politi (1797, San Giuseppe, Siracusa) e nella malconcia copia di Michelangelo Politi (1856, Canicattini Bagni, Siracusa, San Nicola).
[24] In particolare, stando ad analisi chimiche, il pigmento utilizzato per il verde è il resinato di rame, cfr. M. Cordaro, op. cit., p. 293. Anche nella copia attribuita a Minniti la veste tende al verde.
[25] Cfr. nota 8.
[26] H. Hibbard, op. cit., p. 239; secondo M. Marini, op. cit, 2005, p. 548 la posa del giovane rimanderebbe al Demostene (Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek) già evocato per la sant’Anna nella Madonna dei Palafrenieri (1605, Roma, Galleria Borghese).
[27] Per “l’intermezzo marchigiano” si veda M. Marini, op. cit., 2005, p. 62; pp. 486-487.
BIBLIOGRAFIA
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- Alessandro Zuccari, Storia e tradizione nell’iconografia religiosa di Caravaggio, in: Stefania Macioce (a cura di), Michelangelo Merisi da Caravaggio. La vita e le opere attraverso i documenti – Atti del convegno internazionale di Studi, Roma 5-6 ottobre 1995, pp. 289-308
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