di Claudio LISTANTI
Il Teatro dell’Opera di Roma ha recentemente presentato un nuovo allestimento di Turandot di Giacomo Puccini affidandone la realizzazione scenica all’artista cinese Ai Weiwei e la direzione d’orchestra alla direttrice Oksana Lyniv.
Lo spettacolo doveva essere rappresentato nel 2020 ma le note vicende di carattere sanitario che hanno influenzato tutto il mondo non ne hanno consentito la regolare messa in scena. Solo ora il miglioramento delle condizioni sanitarie ha consentito allo spettacolo di prendere la via del palcoscenico e di riuscire a catalizzare l’attenzione della critica e del pubblico come punto di interesse della stagione 2021-2022 con ben otto recite che, come ha comunicato la direzione del teatro hanno fatto registrare il tutto esaurito.
Tale interesse è dovuto alla presenza del grande artista cinese Ai Weiwei, personaggio poliedrico particolarmente apprezzato nelle arti figurative che, per questa occasione, ha debuttato nel teatro d’opera, per una esperienza che, a suo dire, è destinata ad essere l’unica in questa particolare forma di spettacolo. Di grande richiamo è stata, anche, la presenza sul podio della direttrice ucraina Oksana Lyniv, oggi molto apprezzata in tutto il mondo per le sue doti di interprete, come dimostra la sua partecipazione come prima bacchetta femminile al festival wagneriano di Bayreuth e la fresca nomina alla Direzione Musicale di uno dei più importanti teatri italiani, il Comunale di Bologna. Tutte scelte artistiche di notevole spessore per le quali occorre dare plauso agli organizzatori della stagione lirica del Teatro dell’Opera.
La Turandot e il rinnovamento dell’arte pucciniana
Per iniziare la disamina dello spettacolo occorre iniziare innanzitutto da alcuni cenni sulla evoluzione della creazione dell’opera. La Turandot è l’ultima opera composta da Puccini che, a causa della sua prematura morte, è rimasta incompiuta. Nell’arco compositivo del musicista toscano giunge dopo l’esperienza del Trittico andato in scena nel dicembre del 1918 con il quale Puccini diede prova di estrema duttilità nel trattamento di diverse, e opposte, situazioni teatrali raggiungendo un livello espressivo di grande spessore. A quel punto sentiva la necessità di una innovazione cercando di trovare la giusta strada. Per realizzare tale desiderio scelse di affidarsi al librettista Giuseppe Adami che per lui aveva già prodotto Il Tabarro, prima opera del Trittico, contribuendo in maniera determinante a disegnare le caratteristiche di tragedia a fosche tinte, concependo un libretto che la musica di Puccini seppe esaltare dal punto di vista teatrale.
Come è noto Puccini sosteneva strenuamente per le sue opere l’utilizzo di due librettisti in quanto garantivano un lavoro collettivo utile al raggiungimento di un più completo organismo teatrale ed incline alla ricerca di una soluzione alle sue frequenti necessità di abbinare le parole alla musica che aveva in testa. Tale dicotomia aveva dato già ottimi risultati con Luigi Illica e Giuseppe Giacosa (Bohème, Tosca, Butterfly) e con Guelfo Civinini e Carlo Zangarini (Fanciulla del West). Al fianco di Adami, per il periodo che a noi interessa, il compositore scelse una personalità molto attiva nel campo dello spettacolo, Renato Simoni che nella sua carriera è stato, oltre che giornalista, critico teatrale, commediografo, poeta, librettista, perfino regista e sceneggiatore.
A questa nuova coppia di librettisti, Puccini, alla ricerca quasi spasmodica del rinnovamento, commissionò nel 1918 un libretto tratto dall’Oliver Twist di Charles Dickens, opera letteraria della quale aveva visto a Londra una realizzazione teatrale. Ben presto, però, il progetto naufragò. In una riunione milanese a tre, di carattere conviviale, proprio Renato Simoni propose di attingere all’opera teatrale di Carlo Gozzi, non ad una specifica commedia ma condensando in un’unica opera vari soggetti dell’autore veneziano per produrre un libretto il cui soggetto potesse essere considerato una ‘fiaba scenica’.
Fu una e vera e propria scintilla per Puccini e i suoi librettisti che trovarono quel rinnovamento che andavano cercando. Puccini fu attratto subito dalla proposta e la scelta cadde su Turandot (o Turandotte), una delle dieci ‘fiabe drammatiche’ di Carlo Gozzi il cui soggetto fu tratto da una raccolta di fiabe persiane tradotte nel ‘700 in francese pubblicata con il titolo di Le cabinet de Fées, contenuto anche in una edizione delle Mille e una notte tradotta all’inizio dello stesso secolo da Antoine Galland. Il soggetto colpì favorevolmente Puccini anche perché, nel 1917, ispirò Ferruccio Busoni che scrisse una sua Turandot utilizzando un proprio testo in tedesco per un’opera rappresentata a Zurigo sulla base di sue musiche prodotte nei primi anni del ‘900 per il lavoro di Gozzi.
Renato Simoni sottolineò che era suo desiderio introdurre nella trama quegli elementi di umanità assenti nell’originale di Gozzi, aspetto conseguente ai diversi contrasti tra la Commedia dell’Arte settecentesca, del quale Gozzi era strenuo difensore con il riformatore di quello stile, Carlo Goldoni, nelle cui opere l’umanità dei personaggi è parte determinante. Simoni, inoltre, fornì a Puccini il testo dell’adattamento prodotto agli inizi dell’800 da Friedrich Schiller per una rappresentazione di Turandot di Gozzi per il Teatro di Weimar. Puccini accolse favorevolmente, e con entusiasmo, il progetto che si avviò nella primavera del 1920. Simoni, inoltre, da seguace goldoniano, propose anche l’introduzione di tre maschere, reminiscenza della Commedia dell’Arte di stampo gozziano che compaiono nella Turandotte sotto le vesti di quattro tradizionali maschere veneziane, in un certo senso, avulse dal contesto. Nella stesura di Simoni mentre nel libretto le tre maschere e raffigurano altrettanti dignitari di corte per un ruolo del tutto legato all’evoluzione della trama raggiungendo così la propugnata ‘umanizzazione’.
Puccini accettò tutto questo dato che non veniva scalfito minimamente quanto di suo interesse. Vale a dire la rappresentazione di una donna terrorizzata dal rapporto con un uomo, il cui stato d’animo è influenzato dalla tragica esperienza di una sua antenata vittima della crudeltà e della brutalità di uomo.
Turandot è una adolescente e queste paure le impediscono uno sereno rapporto con l’altro sesso e la rendono, nonostante la sua acclarata bellezza, scostante, gelida e inflessibile, condizioni che la inducono a proporre i suoi tre difficilissimi enigmi la cui mancata soluzione costringerà gli spasimanti a subire la morte. Il Principe Ignoto sovvertirà questo stato di fatto ma troverà una fanciulla ancora acerba ed ancorata alle sue idee che dovrà portare allo ‘scongelamento’ per condurla all’amore. Egli risolve i tre enigmi, ma vista la tenacia di Turandot nel rifiutare qualsiasi rapporto con un uomo, le propone, a sua volta, una sola prova. Il principe si trovava a Pechino in incognito e quindi le chiede di scoprire il suo nome: se la principessa riuscirà a saperlo lui morrà altrimenti si andrà verso il matrimonio.
In questa storia fu aggiunto il personaggio di Liù, che Simoni inserì trasformando il personaggio di Adelma -nella versione gozziana confidente di Turandot dal carattere acido e velenoso- in una figura dai caratteri opposti, romantici ed eroici, particolarmente affine al modello di donna rappresentato da Puccini.
La gestazione dell’opera fu però travagliata e comune a tutte le imprese musicali che hanno caratterizzato la vita compositiva di Puccini. La documentazione epistolare, pur non chiarendo lo stato di avanzamento del lavoro, ci parla di più di tre anni trascorsi tra discussioni, ripensamenti, reazioni entusiastiche seguite da momenti di depressione e scontentezza. Puccini giunse fino alla prima scena del terzo atto completando musica, parte vocale ed orchestrazione. In questa scena si assiste al suicidio di Liù che per evitare la minaccia della tortura si toglie la vita come ultimo atto d’amore verso il Principe Ignoto che ha scosso il suo cuore.
Dopo questa scena Puccini trovò difficoltà nel rappresentare il seguito della trama che nel finale, dopo un duetto d’amore, doveva portare al lieto fine. Molti furono i tentativi dei librettisti di produrre un testo letterario necessario a questo scopo. Ci furono diverse difficoltà che, ad un certo punto, portarono Puccini sull’orlo di intervenire presso l’editore Ricordi per interrompere il progetto restituendo gli anticipi percepiti. Ma dopo vari tentativi Puccini rimase soddisfatto di quanto prodotto da Adami e Simoni. Iniziò ad abbozzare la musica ma, purtroppo, intervenne la terribile malattia che lo portò alla repentina e immatura morte avvenuta il 29 novembre 1924 che lasciò Turandot incompiuta.
Turandot ed il problema del finale
Uno dei punti d’interesse di questa rappresentazione romana di Turandot era la scelta del regista Ai Weiwei e della direttrice Oksana Lyniv di eseguire l’opera incompiuta abbandonando il completamento approntato da Franco Alfano che ha accompagnato l’opera in quasi tutte le esecuzioni del capolavoro pucciniano fino ai giorni nostri. Scelta difficile in quanto ha scosso gli animi degli appassionati come degli addetti ai lavori e dei critici che ha rinnovato un dibattito iniziato fin dopo la morte di Puccini.
I fatti sono questi. Puccini ha lasciato una partitura che arriva fino al suicidio di Liù seguito da una strepitosa e commovente marcia funebre che fa da cornice al trasporto del corpo di Liù al quale segue un accordo che avrebbe dovuto dare inizio al duetto tra il principe ignoto (che solo nel finale comprendiamo che si tratta di Calaf) e Turandot con relativo coro festoso finale. Il testo letterario era pronto e, come anticipato, Puccini iniziò ad abbozzare la musica per un ‘lieto fine’ che, comunque, non era nelle sue corde emotive. Il completamento della partitura risale al novembre del 1923 mentre la partenza verso Bruxelles, dove Puccini concluse il suo viaggio terreno, si verificò il 4 novembre del 1924. Il musicista ebbe a disposizione quasi un anno per concludere il suo capolavoro. In questo periodo, però, produsse solo 36 pagine di abbozzo senza giungere al completamento compositivo. Ciò dimostra la difficoltà di realizzare una scena che, con molta evidenza, non faceva parte delle sue corde emotive.
Dopo la morte di Puccini, comunque, fu valutato necessario un completamento. Per il difficile compito fu scelto, anche con il parere di Arturo Toscanini allora direttore stabile del Teatro alla Scala presso il quale fu eseguita il 25 aprile del 1926 la prima assoluta, il musicista Franco Alfano il cui stile compositivo era giudicato affine a quello di Puccini e, quindi, adatto a tradurre quelle 36 pagine abbozzate da Puccini in musica finita. Un lavoro certo ciclopico ma portato a termine. Pochi giorni avanti alla prima rappresentazione, Toscanini si dichiarò poco convinto di questo completamento ed indusse Alfano a tagliare 104 battute per rendere la scena più snella. Toscanini diresse solo la prima assoluta e la interruppe fin dove era arrivato Puccini. Poi non diresse più Turandot. Un caso? Un ripensamento circa la necessità del completamento? Di ciò non esistono notizie certe.
Per quanto ci riguarda, il finale di Alfano risulta pomposo e stilisticamente differente dalla musica composta da Puccini, possedendo solo la prerogativa di dare compimento all’azione teatrale non riuscendo, però, ad eliminare quel senso di ‘incompiuto’ che pervade il finale di questo capolavoro. I favorevoli a questa soluzione asseriscono, anche con ragione, che eliminando il finale di Alfano si trasferisce la palma di protagonista da Turandot a Liù cosa che contrasta con il significato dell’opera, e che, in definitiva, si può accettare questa evidente differenziazione di stili per il bene della completezza.
Se consideriamo che il personaggio di Liù è quello più affine a Puccini forse il taglio qualche senso lo ha e se riflettiamo anche sui molti incompiuti che costellano il campo dell’arte un capolavoro può restare tale anche se non completato definitivamente. Pensiamo, ad esempio, all’esterno del Tempio Malatestiano di Rimini di Leon Battista Alberti che comunque conserva la sua imponenza e la sua eleganza nell’insieme o, per rimanere nel campo della musica, all’Incompiuta di Schubert, con i suoi soli due movimenti che lasciano l’ascoltare in uno stato di sospensione ma con uno straordinario senso di pathos.
Per quanto ci riguarda, e con tali premesse, si può accettare un’opera come Turandot priva del necessario finale.
Ai Wiewei. Una Turandot poco ‘pucciniana’
All’artista Ai Weiwei è stata affidata la realizzazione scenica di tutto lo spettacolo. Con molta evidenza ha inserito nella sua costruzione una innegabile maestria nella realizzazione di quella parte dei costumi che richiamavano l’ambientazione ‘cinese’ dell’opera, utilizzando anche colori delicati e a volte smaglianti che evidenziavano una certa, e innegabile, eleganza d’insieme. Elementi dovuti alla sua grande esperienza nelle arti figurative delle quali è considerato maestro assoluto.
Ha voluto dare a questo dramma un significato particolare e del tutto personale. Quello di possedere un’azione che giudica la violenza di Turandot indotta dalla tragedia familiare come specchio delle immani tragedie di oggi che proprio in questi momenti ci circondano e che stiamo vivendo, che possono essere considerate ossessive e freno alla libertà di tutti. Nello specifico si tratta della pandemia e della guerra in Ucraina, autentici paradigmi delle brutture e delle violenze che non hanno mai lasciato il mondo e quotidianamente ne ripropongono il senso di morte.
Per mettere in evidenza tale impostazione ha concepito uno spazio scenico contornato da rovine di monumenti, una sorta di cornice che conteneva l’azione dell’opera i cui personaggi erano rappresentati in una posa piuttosto statica. Sullo sfondo continue proiezioni che raffiguravano scene di Covid (infermieri, ospedali, città deserte, ecc) oppure scene di guerre (soldati, violenze, bombardamenti, ecc) alternate a visioni di megalopoli orientali complete delle avveniristiche infrastrutture. Poi manifestazioni di giovani e di studenti soffocate dalla repressione delle polizie e degli eserciti con i personaggi che entravano anche come comparse nel cuore dell’azione dimostrando però di essere ad essa completamente avulsi. La scena di Ping, Pang e Pong del secondo atto aveva come sfondo diapositive di Roma, Parigi, Venezia -scelta della quale ci sfugge il senso- come pure di un immenso rospo che porta il principe ignoto sulle spalle del quale si libera appena accetta la sfida degli enigmi. Una visione collettiva che ha dato l’impressione di una attuale Hellzapoppin che ha oscurato il significato della tragedia contenuta da libretto.
Tale lettura, seppur non priva di significati attuali, risultava in contrasto con il pensiero di Puccini che vedeva Turandot, semplicemente, come una fiaba nella quale una ragazza in procinto di diventare donna adulta tenta, riuscendoci, di affrancarsi dalle paure e dal timore nel relazionarsi con l’altro sesso. All’epoca di Turandot, siamo nel periodo 1920 e anni seguenti, se Puccini avesse avuto velleità di rappresentare momenti come questi non avrebbe avuto difficoltà a trovare ispirazione considerando la coeva prima grande carneficina della storia, la Prima Guerra mondiale, oppure le varie violenze e le sopraffazioni che caratterizzarono l’Italia prima della Marcia su Roma che ci portarono con velocità verso un’altra tragedia, il fascismo. Di tutto non si trova traccia nella vita di Puccini dimostrazione del suo disinteresse per la tematica; per interpretare le sue creazioni basta leggere i suoi libretti ed in special modo questo approntato da Giuseppe Adami e Renato Simoni.
Per quanto riguarda la parte visiva è stata interamente (regia, scene, costumi e video) affidata a Ai Weiwei senza dimenticare, però, il prezioso contributo di Chiang Ching per i movimenti coreografici e di Peter van Praet per la realizzazione delle luci con interventi del tutto funzionali alle scelte del regista.
In definitiva, ideologicamente, quanto esposto da Ai Weiwei è del tutto condivisibile ma non trova la giusta sponda nell’opera di Puccini. Questo tipo di tematiche potrebbero, a nostro avviso, interessare nuove produzioni operistiche che terrebbero viva questa splendida arte anche perché ci sono, anche in Italia, musicisti e musiciste che hanno tutte la qualità per fornire in tal senso delle prove convincenti.
La realizzazione musicale
Esaminiamo infine la parte musicale che è stata affidata alla direttrice ucraina Oksana Lyniv alla quale occorre presentare i ringraziamenti per la scelta, assai coraggiosa in verità, di avere proposto l’opera senza il finale di Alfano, dandoci la possibilità di osservare Turandot sotto un altro aspetto.
Il capolavoro di Puccini è un prodotto classico del ‘900 che risente particolarmente delle nuove poetiche musicali che ne hanno caratterizzato il decorso nel XX secolo. Chiare sono, per la parte strumentale, le derivazioni dal Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg del 1912 e da La Sagra della Primavera di Igor Stravinskij del 1913, composizioni tra le più emblematiche di tutto il ‘900. Inoltre lo spiccato senso dell’esotismo già presente nelle precedenti opere di Puccini ma che in Turandot entra completamente nel tessuto connettivo dell’opera divenendone parte integrante. Al loro fianco una parte corale di grande rilievo, dove il coro assume un innegabile ruolo di co-protagonista il cui impianto fa pensare alle grandi pagine corali del Boris Godunov di Modest Musorgskij. Peculiarità che la direzione ha certamente messo in giusto risalto grazie anche all’attivo contributo dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, evidenziando la straordinaria orchestrazione che Puccini ha ideato nella quale grande importanza hanno gli strumenti a carattere percussivo. La direzione della Lyniv eccedeva, però, nella ricerca della grandiosità sonora trascurando le parti più squisitamente liriche che hanno condizionato anche il rapporto tra cantanti e parte orchestrale.
Per quanto riguarda la compagnia di canto che abbiamo ascoltato nella recita del 29 marzo era affidata, nelle tre parti principali, al cosiddetto ‘secondo cast’ che era composto da cantanti, sulla carta, piuttosto validi. Ci ha deluso, però, la prova delle due voci femminili Ewa Vesin Turandot e Adriana Ferfecka Liù. Entrambe le loro prove erano molto attese in relazione a loro interpretazioni fornite recentemente proprio qui a Roma. La Vesin fu una più che convincente Renata nell’Angelo di Fuoco di Prokovief e la Ferfecka una buona Ilia nell’Idomeneo di Mozart. Entrambe hanno trovato difficoltà con la vocalità pucciniana che prevede per Turandot una dalla linea di canto spericolata che la Vesin dimostra di soffrire un pò anche se, di base, ne possiede le doti. Per la Ferfecka un discorso analogo; è una cantante ancora giovane che ha ampi spazi per il miglioramento ma le difficoltà della dizione e il suo stile di canto le hanno impedito di regalarci una Liù luminosa. Il tenore Angelo Villari, invece, è stato un Principe Ignoto del tutto credibile fornendo una prova vocale intensa grazie ad una evidente sicurezza delle emissioni. Il trio delle maschere, Alessio Verna Ping, Enrico Iviglia Pang e Pietro Picone Pong ci è sembrato, nella loro fondamentale scena del secondo atto, slegato nell’insieme. Sono tre cantanti di provata esperienza che, a nostro giudizio, hanno sofferto l’impietosa sequenza giornaliera delle recite. Nelle parti secondarie efficace la prova del tenore Rodrigo Ortiz Altoum e del basso Marco Spotti Timur. Poi il basso Andrii Ganchuk Un Mandarino e del tenore Giuseppe Ruggiero proveniente dal coro del teatro che ha dato voce allo sfortunato Principe di Persia i cui movimenti scenici sono stati affidati al performer Chao Hsin.
Un pubblico delle grandi occasioni ha assistito alla recita applaudendo tutti gli interpreti al termine dello spettacolo.
Claudio LISTANTI Roma 3 Aprile 2022