di Ciro D’ARPA
Ciro D’Arpa, laureato in Architettura presso l’Università degli Studi di Palermo, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e Conservazione dei Beni architettonici nel 1999 con una tesi sulla committenza oratoriana a Palermo; ha prestato servizio presso il Centro regionale di Progettazione e restauro della Regione Sicilia
Ci scusiamo per la cattiva lettura di alcune immagini
La Prospettiva di architettura della Collezione Torrearsa di Palermo: una “Galleria” di dipinti afferente alla bottega artistica di Agostino Tassi.
Nel 1876 la marchesa di Torrearsa donava al nipote Antonino Salinas – direttore del neo costituito Museo Nazionale di Palermo – due dipinti, uno dei quali una “Prospettiva sopra tela”. Alla morte del Salinas i quadri rimasero nelle raccolte museali così che oggi fanno parte, congiuntamente all’intera collezione Torrearsa, del patrimonio artistico della Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis[1].
L’opera raffigura una architettura monumentale posta in prospettiva con tanti quadri al suo interno (fig.1).
La rappresentazione di quadri in un quadro fa venire in mente le note Gallerie del pittore Giovanni Paolo Pannini (1691-1765), motivo per il quale, ritengo, il dipinto è stato riferito in passato alla bottega romana di questo pittore datandolo alla metà del XVIII secolo[2]. Ma la Prospettiva di architettura palesa piuttosto puntuali e sorprendenti rimandi alla pittura di genere italiana della prima metà del Seicento.
Il dipinto riproduce l’interno di un antico edificio romano – una sala termale o meglio una basilica – con infilata prospettica aperta su un paesaggio urbano connotato da architetture monumentali decisamente più moderne. Dentro questa aulica quinta teatrale vi sono rappresentate figure sia in primo piano che sullo sfondo. Le prime, ben distinte, rimandano chiaramente al mondo mitologico; malgrado le lacune della pittura, si riconoscono Minerva e la Vittoria alata nel gruppo di destra, Mercurio e la Fortuna nel gruppo centrale, mentre a sinistra troviamo la rappresentazione del tema mitologico di Borea che rapisce Orizia.
Le figure in lontananza, rese con pennellate impressionistiche, suggeriscono un’azione diversa, forse un evento tragico dato che le due al centro sono riverse a terra. L’ambientazione antiquaria della scena connota il dipinto come un “capriccio architettonico”, genere pittorico nato in Italia nel Seicento, ma la rappresentazione dei 17 quadri appesi alle pareti rimanda piuttosto alla “galleria d’arte”, un soggetto questo invece più usuale nella pittura fiamminga coeva.
I quadri, sebbene miniaturizzati, riproducono soggetti ben riconoscibili, in maggior parte sono architetture antiche e moderne di Roma, altri invece sono sorprendenti riproduzioni di dipinti di genere riferibili tutti alla prima metà del XVII secolo. L’osservatore è subito attratto dai cinque posti a destra, la loro disposizione incongrua su un piano non complanare alla parete di fondo li fa sembrare come sospesi in aria. Questo effetto surreale li pone in evidenza all’occhio dell’osservatore che è indotto così a soffermare la sua attenzione su ognuno di loro. Il quadro posto al centro riproduce piazza San Pietro con il monumentale prospetto maderniano della basilica vaticana. La rappresentazione della celebre piazza offre i primi indizi utili per indagare il dipinto della collezione Torrearsa. Si osserva in primo luogo che sul sagrato non è raffigurato il colonnato, al suo posto troviamo invece due corsie processionali coperte da velari (fig. 2).
Come documentano antiche immagini di Piazza San Pietro, prima dell’intervento commissionato a Gianlorenzo Bernini nel 1656, per necessità pratiche, in particolari occasioni solenni come per esempio la processione del Corpus Domini, venivano per l’appunto allestite due lunghe coperture provvisorie. Quella a destra si attesta sull’ingresso dei Palazzi Vaticani in corrispondenza della distrutta torre campanaria costruita dall’architetto Martino Ferrabosco nel 1616-1618. In secondo luogo, nel nostro piccolo quadro non è rappresentato sul prospetto della basilica neppure il primo dei due campanili progettatiti dal Bernini[3], costruito nel 1637 ma poi, per motivi statici, abbattuto appena dieci anni dopo.
Il quadro miniaturizzato dunque riproduce un dipinto reale, uno di quelli noti (fig.3)[4]
realizzati per illustrare la piazza in occasioni solenni come per esempio il Giubileo dell’Anno Santo, nel nostro caso tra quelli compresi nell’arco temporale 1625-1656[5]. Di conseguenza l’ignoto autore della nostra Prospettiva di architettura deve essere ricercato tra i pittori che operarono a Roma nella prima metà del Seicento. L’ipotesi trova ulteriori riscontri negli altri quadri raffigurati nello stesso gruppo di destra, anche questi riproduzioni di opere vere identificabili in dipinti di quel periodo e riferibili tutti al pittore Agostino Tassi (1578 – 1644) e alla sua bottega.
Sul fondamentale studio storico-critico di Teresa Pugliatti [6] si incardinano tutti i successivi contributi specialistici tra cui quelli recenti di Patrizia Cavazzini, curatrice della prima mostra monografica dedicata al pittore del 2008[7]. Da questa data il catalogo del Tassi si è arricchito con ulteriori attribuzioni di tele proposte dal mercato antiquariale e dal collezionismo. Il pittore è unanimemente riconosciuto tra i protagonisti della stagione artistica romana di prima metà Seicento in quanto uno dei principali precursori in Italia della pittura di genere, soprattutto nelle declinazioni della rappresentazione dei paesaggi, della marine con navi e dei capricci architettonici, generi nei quali si sono poi specializzati molti suoi epigoni.
Nel quadro in alto a sinistra della nostra Prospettiva di architettura riconosciamo del Tassi Il Ritorno di Agrippina con le ceneri di Germanico[8] (figg. 4,5).
Non è l’unica citazione. Le architetture sullo sfondo, la Porta di Santo Spirito e il Palazzo Capitolino visto di scorcio (fig.6),
sono dettagli che ritroviamo nell’Imbarco di Sant’Elena e nella Veduta del Campidoglio (figg.7,8)[9], quest’ultima per altro è il soggetto di un altro dei quadri miniaturizzati (fig.9).
La stessa ambientazione classica del dipinto e i dettagli architettonici rimandano con evidenza ad altre opere autografe del pittore o della sua cerchia (fig.10)[10].
Gli oculi che forano la volta sono un motivo decorativo presente nella Villa Lante a Bagnaia (1615), poi riproposto dal Tassi nella decorazione delle volte di Palazzo Odescalchi a Roma (1623). Ed ancora le snelle colonne si apparentano con quelle riprodotte in dipinti di certa attribuzione quali l’Imbarco della regina di Saba e il Porto con colonnato classico[11]. Nel dipinto le citazioni ci riservano un altro rimando ancora più sorprendente. Nel quadro posto in basso a destra è riprodotto fedelmente il Capriccio architettonico con porto mediterraneo (figg.11,12) di cui si attribuiscono al Tassi ben due versioni pressoché identiche[12].
Queste evidenze forniscono prove più che sufficienti per confutare la datazione settecentesca del nostro dipinto: è improbabile infatti che il suo anonimo autore, individuato in un contemporaneo del Pannini, possa avere ritenuto le opere di un pittore non più famoso e morto da più di un secolo, esempi di pittura degni di comparire in una moderna Galleria d’arte. Diversamente le opere del Tassi trovano eco nella produzione coeva come dimostra lo stringente confronto tra l’ultimo dipinto citato e omologhe rappresentazioni (fig.13,14) di Francọis De Nomé (Metz 1593 ca – Napoli 1644)[13].
La fedele citazione nel nostro dipinto di questo specifico soggetto pittorico non lascia più dubbi sul fatto che il pittore della tela della Collezione Torrearsa sia un artista pienamente partecipe della cultura figurativa romana e napoletana della prima metà del Seicento.
Ed ancora, la rappresentazione di dipinti in un dipinto è un altro elemento identificativo della produzione artistica del Tassi, la troviamo infatti nel prima citato ciclo decorativo delle logge di villa Lante a Bagnaia, a Palazzo Lancellotti (1620) a Roma (fig.15)
e nella problematica Galleria del Museo Civico di Prato (fig.16).
Per questo quadro la Cavazzini non condivide l’attribuzione al pittore Alessandro Salucci (1590 – 1660 c.a), precedentemente sostenuta anche dalla De Benedictis che data questo ed altro analogo dipinto (fig.17) di collocazione privata ignota tra il 1630 e il 1640[14]. Per la curatrice della mostra del 2008 sarebbe opera certa della bottega del Tassi[15].
Le due Gallerie – solo apparentemente identiche – non trovano nella produzione pittorica italiana coeva altre opere note omologhe oltre alla Prospettiva di architettura di Palermo[16]. Tutti e tre i quadri documentano la stessa temperie culturale manifestando con evidenza più di un elemento di raffronto, come per esempio il particolare dell’oculo che buca la volta. Ma non solo, il nostro dipinto è affine a quello del museo di Prato anche nel contenuto iconologico: in entrambi, i quadri che vi sono esposti costituiscono una sorta di manifesto artistico della pittura di genere.
All’interno della Galleria di Prato assistiamo allo svolgersi di una scena concitata: tra le figure femminili rappresentanti verosimilmente le Muse, due, a nostro parere, sono colte nell’inequivocabile atto iconoclasta di distruggere dipinti dal tema aulico, quello postulato dalle esclusive accademie di pittura di San Luca a Roma e del Disegno a Firenze. Le altre Muse invece ci additano come esempio tutti gli altri quadri esposti, questi chiaramente afferenti alla pittura di genere, a quel tempo non ancora reputata meritevoli di encomio[17].
Sul lato estremo destro il Tempo indica alla Verità svelata la dea Minerva che, come ben noto, presiede alle facoltà intellettuali dell’uomo.
Analogamente nel dipinto del museo di Palermo troviamo una rassegna della più aggiornata pittura di genere e come nel dipinto di Prato i personaggi in primo piano sono funzionali al messaggio che si vuole trasmettere.
Il tema mitologico del rapimento di Orizia, figlia di Eretteo re di Atene, da parte di Borea, il vento del Nord che spazza via ogni cosa, è assimilabile al binomio Tempo-Bellezza, Tempo-Verità. Al centro la Fortuna – riconoscibile nella donna distesa che appoggia un braccio su una sfera – si correla a Mercurio esprimendo così il concetto allegorico di Mercurio versus Fortuna: la virtù umana – personificata dal dio – che si coltiva e si realizza nelle buone arti e nell’industria può vincere la fortuna intesa come sorte mutevole così che homo faber ipsius fortunae. Con Mercurio si relazionano due figure femminili, verosimilmente la Calunnia e la Menzogna. Infine a sinistra la Vittoria pone la palma (?) a Minerva affiancata dalla Verità, che si è definitivamente svelata.
Il messaggio delle due Gallerie è chiaro: la pittura di genere rivendica il suo ruolo nell’arte e i pittori di nuova generazione lo hanno dimostrato con le loro opere ormai universalmente apprezzate come quelle del francese Claude Lorrain (1600 – 1682), il più celebre e pagato tra gli allievi del Tassi. Tra i quadri raffigurati nel gruppo di destra del nostro dipinto il tondo è accostabile proprio ad una sua ben nota opera (figg.18,19).
Un dettaglio della Prospettiva di architettura della collezione Torrearsa ci rivela a chi fosse destinata. Il recente restauro[18] ha messo in evidenza sopra l’arco del vano centrale della rappresentazione architettonica lo stemma di casa Medici. Nella prima metà del secolo XVII si annoverano a Roma ben tre cardinali della illustre casata fiorentina: Carlo (1596 – 1666); Giovan Carlo (1611 – 1663) e Leopoldo (1617 – 1675). Questi emeriti prelati sono stati cultori d’arte e appassionati collezionisti.
Tra i tre, Carlo ha svolto un ruolo importante nella Curia romana, con la sua nomina nel 1635 a cardinale protettore di Spagna presso la Santa Sede fu referente di Filippo IV. Per arredare il suo nuovo palazzo madrileno del Buen Retiro, tra 1630 e il 1642 il monarca spagnolo aveva dato incarico ai suoi emissari in Italia di acquistare a Roma e a Napoli numerosi dipinti, molti di questi, oggi nelle collezioni del museo del Prado, sono pitture di genere[19].
Ma la Prospettiva di architettura della collezione Torrearsa è un pastiche, un’opera imperfetta per un raffinato collezionista quale fu il Medici.
Dunque potrebbe essere un autografo del Tassi ma non finito, sul quale qualcuno maldestramente ha messo mano. Nel 1644 l’artista moriva a Roma. Sappiamo che la sua carriera artistica negli ultimi anni fu caratterizzata da una parabola discendente contrassegnata sino alla fine dei suoi giorni da una vita “torbida”, dal Passeri così apostrofa sarcasticamente: «cose da fare inorridire, e da restare atterriti»[20].
In casa del pittore oltre ai suoi effetti personali fu trovata una “Galaria grande”, la Cavazzini ipotizza che possa essere una perduta replica della Galleria del museo di Prato, ma di formato maggiore[21]. Considerando però che i suoi ultimi lavori erano stati preventivamente portati via dall’amante per non farli requisire[22], è plausibile pensare che la tela in questione fosse piuttosto un’opera di scarso valore perché non finita. Assodato che la “grande” Galleria prospettica con quadri della collezione Torrearsa di Palermo è della prima metà del Seicento ed inoltre ascrivibile all’ambito artistico del Tassi, avanziamo la suggestiva ipotesi che possa essere questa l’ultimo suo dipinto ritenuto perduto. La Prospettiva di architettura con le sue incongruenze infatti si presta ad essere interpretata come una esercitazione di bottega.
L’attività pittorica del Tassi si protrasse stancamente fino all’anno della morte, sempre coadiuvato dal supporto, certo più incisivo, dei suoi ultimi aiuti: Costanzo de Petris, il fiammingo Jori van den Hoek ed il catalano Agostino Burassi[23]. Questi potrebbero avere aggiunto sulla tela in modo libero i cinque dipinti che raffigurano alcuni dei più celebri temi pittorici di genere del tempo, rendendo così omaggio al loro maestro.
La “Galaria grande”, trovata nella casa del Tassi, probabilmente è stata venduta all’incanto entrando subito nel mercato dell’arte attraverso la possibile intermediazione di un pittore coevo romano o forse piuttosto napoletano. A tal proposito il dipinto di Palermo mostra interessanti elementi di confronto anche con la produzione artistica di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro (1612? – 1679?)[24], di cui è ben nota la collaborazione con il bergamasco Viviano Codazzi (1603/04 – 1670) che visse e lavorò tra Roma e Napoli. Di recente è apparso sul mercato d’arte antiquariale un Sansone che distrugge il tempio dei filistei (fig.20)[25], attribuito al Gargiulo.
Nell’ambientazione classica del dipinto a tema biblico troviamo ancora una volta la rappresentazione della basilica romana con colonne allungate. Il crollo del “tempio” ha causato la morte dei filistei raffigurati riversi a terra, molto simili alle figure poste all’interno della Galleria del nostro dipinto. All’edificio sconquassato fa da sfondo un paesaggio urbano con architetture monumentali sovrapponibili a quelle rappresentate dal Tassi nella Prospettiva architettonica con strage degli innocenti (fig.21)[26], e simili,a sua volta a quelle riprodotte anche in uno dei quadri miniaturizzati della nostra Prospettiva di architettura (fig.22).
Per i continui scambi tra Napoli e la Sicilia, l’ipotizzato quadro non finito trovato nella bottega del Tassi, ipoteticamente acquisito da un pittore napoletano vicino al Gargiulo, potrebbe essere entrato in collezioni palermitane già nella seconda metà del Seicento. Il dipinto è pervenuto alla marchesa di Torrearsa dall’eredità del duca Corrado Ventimiglia[27], discendente di una delle più antiche e nobili casate siciliane che annovera tra i suoi avi Carlo Maria Ventimiglia (1576-1662), “principe” dell’Accademia dei Riaccesi, il prestigioso cenacolo culturale rifondato nel 1622 dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia presso il Palazzo Reale di Palermo[28].
Concludendo, il dipinto della Collezione Torrearsa lo dobbiamo valutare più che come opera d’arte come un documento storico, e di rilevante interesse.
Tutto in questo rimanda, con evidenza, alla multiforme temperie culturale della prima metà del secolo XVII, stagione nella quale la pittura di genere si è emancipata a vera e propria espressione d’arte indipendente contando numerosissimi pittori specialisti, alcuni dei quali celebri, molti meno noti al grande pubblico ed i più ancora nell’anonimato. Tutti questi artisti non disdegnarono le collaborazioni così che spesso le loro opere risultano dei veri e propri rompicapo a cui non sempre si riesce a dare una documentata ed univoca attribuzione.
Ciro d’ARPA Palermo 22 novembre 2020
NOTE