Marcello AITIANI & Luisa PUDDU
«…siamo malati nelle cose perché siamo malati nel cuore. Perciò dobbiamo conservare i nostri beni culturali e paesaggistici, e la città in quanto artefatto complesso che questi beni incorpora».
Marcello Aitiani
Pubblichiamo alcune considerazioni del pittore, musicista e saggista Marcello Aitiani, nel corso della sua conversazione con Luisa Puddu, docente di Psicologia ambientale e di Psicologia giuridica all’Università di Firenze, nella pubblicazione Pluriversi (Aracne editrice, 2022). Questo libro/catalogo d’arte ruota intorno a un intervento urbano (Tessere per la felicità) elaborato da Aitiani, e al percorso espositivo Pluriversi, con opere dello stesso artista (vedi nostro articolo-intervista del dicembre 2022).
Aitiani dice di amare «un’arte che sia attenta all’anima del mondo e che torni ad animarlo», tanto nel frammento pittorico che in più articolati lavori. Attiva allora anche progettualità artistiche di ampio respiro, come quando guarda alla relazione tra arte, paesaggio ambiente urbano «prestando attenzione a quanto accade e ascoltando il punto di vista della civitas, degli abitanti la città. E scrive che
«in questo modo l’arte può assumere il ruolo d’interfaccia tra i pluriversi del nostro tempo. Una sorta di catalizzatore e di cerniera tra opere contemporanee e quelle delle altre epoche, tra se stessa e gli altri saperi: di tipo scientifico, filosofico, tecnologico … In un’epoca così carica di pericoli e di ottusità estetiche ed etiche, l’arte se è viva — non ridotta a chiacchiera e non schiacciata sulle allucinazioni distopiche e mortuarie che spesso ci vengono propinate — si posiziona al confine tra una realtà sempre più ingombra di rovine esistenziali e un’altra realtà, creata dal proprio immaginario. Potrebbero così fiorire percorsi di rigenerazione della città attraverso l’arte, ma anche dell’arte nel suo incontro coi temi della città e della vita».
Come scrive Silvano Tagliagambe, direttore della collana di filosofia della scienza che ospita Pluriversi:
«Il problema, allora, non è quello di cancellare la realtà preesistente, o astrarsi da essa, ma quello di tenerne conto e farla crescere» [1].
“Io sono te”.
Armonizzare Arti, relazioni, città, paesaggio
[…]
[Luisa Puddu] Abbiamo cominciato a parlare del progetto per Prato e il nostro discorso si è allargato un po’, apparentemente divagando dal tema specifico. In realtà le tue considerazioni ci aiutano a comprendere alcune delle idee che ti hanno sostenuto nella fase ideativa di Tessere per la felicità.
[Marcello Aitiani] Sì, e aggiungerei una precisazione sul perché ritengo rilevante la presenza dell’arte, intesa anche nel significato greco di τέχνη (tèchne), sia nell’iniziativa per Prato, sia in generale.
Non penso che l’arte (come ho accennato all’inizio di queste conversazioni) abbia in prima battuta degli scopi pratici, morali o cognitivi; che abbia come sua diretta finalità quella di educare, formare, intervenire nella società per obbiettivi predeterminati, anche se buoni nelle intenzioni. Non lo credo anche perché sappiamo che nella storia questo engagement, questo tipo d’impegno, non infrequentemente ha pregiudicato o limitato la libertà espressiva e creativa degli artisti, provocandone talvolta il decadimento e l’asservimento ideologico. Credo che nell’arte come nella scienza l’espressione e la ricerca siano un fine in sé, non un mezzo strumentale a qualche scopo, magari anche nobile. La ricerca espressiva, come quella scientifica, è bene che sia libera nei mezzi e nei fini, che non vuol dire però arbitraria, cioè libertaria al punto di poter prediligere anche il male. Libera invece di scegliere il bene, evitando il male e dunque esercitando un’autodeterminazione più grande, che supera l’orizzonte egocentrico. Un’arte, come una scienza, libera in questo senso, può condurre a risultati inediti, che dischiudano autentiche fioriture di senso, di qualità e di bellezza, per quanti vogliano e possano goderle e intenderle. In questa possibilità, che dovrebbe essere offerta a tutti, sta a mio avviso la ricchezza e fecondità delle arti, sul piano sociale e individuale, per immettere dinamiche evolutive positive nelle comunità e nei singoli.
L’espressione estetica, che nasce da una immaginazione libera di percorrere sentieri imprevisti è, pertanto, di per sé educativa e formativa. Proprio perché è libera e non strumentale — come lo sono i beni relazionali che, secondo quanto prima si diceva, si maturano, si conquistano e si godono nella libertà — una simile arte ci educa a comprendere la bellezza e il bene e c’invita ad attualizzarli nella vita.
[L. P.] Queste osservazioni sugli effetti delle arti riconducono al tema degli artefatti, degli oggetti e delle cose, per riprendere la distinzione di Remo Bodei [2]. Mi sembrano importanti anche in relazione alla città e all’ambiente. Un ulteriore motivo che rende sostanziale il contributo dell’arte nel progetto di Prato.
[M. A.] Come prima avevi accennato, le creazioni umane materiali (come un oggetto d’uso) o immateriali (quali un insieme di norme giuridiche complesse) sono artefatti che hanno un doppio destino: assorbono e incarnano la progettualità, i sogni e gli ideali dei loro creatori, e anche di chi li usa; e contemporaneamente [3] li rilanciano nello spazio esterno e, nel tempo, anche alle generazioni future. Più che di inerti oggetti parlerei perciò piuttosto di cose che acquistano una propria vita, che è parte della nostra. Un normale oggetto, come la penna che nostro padre usava, non ci serve solo per scrivere, ne assorbe “l’anima” e per noi è preziosa perché ravviva il sentimento della sua presenza.
Quando un artista, un architetto, un artigiano, un designer realizza la propria opera non fa solo un oggetto utile, crea un’entità che può risvegliare memorie, aprire orizzonti mentali, immaginativi, forme inedite di bellezza; o anche di negatività, se tale è l’opera.
Lo stesso, e forse ancor più, accade quando gli uomini, vivendo e intervenendo in un contesto che comprende anche la natura, gli danno forma e senso trasformandolo in paesaggio, come i tanti, bellissimi, della nostra Toscana e dell’Italia, che sono il frutto dell’interazione tra natura e cultura, tra ambiente e sfera umana (sentimenti, idee, azioni…) [4]. Silvano Tagliagambe, commentando la Convenzione europea del paesaggio che definisce il paesaggio una «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità», osserva che esso ha un carattere polifonico, che possiamo comprendere cogliendone le relazioni con i nostri interventi concreti ma anche con i nostri moti immaginativi e con i significati che gli attribuiamo. Il paesaggio è allora una sorta di zona intermedia tra la nostra interiorità e la realtà esterna [5].
Se il paesaggio coagula in sé una particolare complessità e ricchezza di valenze e significati, ugualmente può dirsi che qualunque opera umana ha una capacità significante, pure se nascesse con uno scopo esclusivamente funzionale; perché come osservava Roland Barthes
«la funzione si compenetra di senso; questa semantizzazione è fatale: per il solo fatto che c’è società ogni uso è convertito nel segno di questo uso» [6].
Ogni artefatto umano, cioè, significa sempre qualcosa, anche se non è stato realizzato per comunicare ma solo per una qualche funzione pratica. Perciò genera comunque effetti, che oltrepassano il pragmatismo utilitarista e per certi aspetti la stessa significazione semiotica, esplicando anche un’azione educativa (o diseducativa) e in qualche caso anche simbolica.
Cose e ambienti belli, o brutti, comunicano e insieme favoriscono, col loro muto parlare, il nostro benessere o malessere. I vari edifici senz’anima o i capannoni industriali, che ho visto sorgere nel corso dei decenni nel paesaggio italiano, ci dicono molto della società, del presente e del passato prossimo; ci mostrano il degrado del gusto e la perdita crescente di sensibilità; una caduta est-etica, che “pronuncio col trattino” a indicare che i due termini spesso si compenetrano.
Ti sei mai chiesta come mai le nostre pievi romaniche e anche le successive case coloniche toscane s’intonano perfettamente col paesaggio? O anche perché grandi architetture come i templi o i teatri greci, che pure erano edificati in luoghi naturali di grande qualità, non li deturpano affatto e anzi sembrano donare loro un’armonia ancora più grande? Perché, come si è detto, gli artefatti incarnano il sentire degli artefici; e questi costruttori coltivavano un sentimento religioso, spirituale e comunitario. Il capannone industriale, il centro commerciale, l’outlet… ognuno di questi edifici nasce da un pensiero commerciale. «Per quanto la sua realizzazione sia affidata a insigni architetti — osserva Luigi Zoja —, non usa, bensì abusa la natura circostante» [7].
Anche per quanto ho detto sarebbe molto importante che fossimo consapevoli della responsabilità di ogni nostra azione e omissione sugli effetti, anche non voluti, che generano. Invece abbiamo considerato l’attività costruttiva, produttiva ed economica un valore in sé e non al servizio del bene di tutti; mentre i nostri antenati, tra cui mercanti e finanzieri talvolta anche spregiudicati e rapaci, sentivano comunque la responsabilità di creare e tramandare, a onore di Dio e per la felicità della propria città e degli ospiti, ambienti belli e in armonia con la natura. Ne avvertivano evidentemente le riverberazioni anche sul piano estetico ed etico.
Non si tratta di una bellezza moralistica, astratta, per un mondo sopra le nuvole, ma concretissima e reale, fatta anche di prescrizioni, norme e controlli, come si evince ad esempio dal Costituto del Comune di Siena del 1309, che regolava praticamente tutti gli aspetti della vita della città e ne stabiliva valori e principi portanti. Una magnifica testimonianza di attenzione per i propri cittadini tanto da essere il primo costituto tradotto dal latino in italiano volgare per permetterne la più ampia conoscenza anche alle fasce più semplici della popolazione. Per noi ancora oggi, a distanza di 700 anni, una lezione.
[L. P.] Oggi «siamo malati nel cuore perché siamo malati nelle cose», come diceva lo psicologo del profondo James Hillman [8].
[M. A.] Si, e anche l’inverso, direi: siamo malati nelle cose perché siamo malati nel cuore. Perciò dobbiamo conservare i nostri beni culturali e paesaggistici, e la città in quanto artefatto complesso che questi beni incorpora. Dunque è indispensabile restaurarli e conservali materialmente, ma anche renderli vivi in noi: studiare per conoscerli nelle loro sfaccettature, nella loro storia, nelle loro complessità, assimilarli e quindi amarli e farli evolvere. Il bene culturale, sia dell’artista o del falegname, del letterato o dell’agricoltore, dell’uomo di scienza o del filosofo, non è un cadavere da mantenere in formalina.
[…]
Marcello AITIANI & Luisa PUDDU Siena 19 Marzo 2023
NOTE