di Marcello AITIANI
Negli scorsi mesi di novembre e dicembre si è svolta nello spazio C2 Contemporanea di Firenze la mostra di Mauro Cozzi Mediterranei d’invenzione / Après les migrants.
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Una sintetica presentazione è esperibile nel video di Massimo Beccattini al link https://youtu.be/J-EuRAfO-gU.
Mauro Cozzi ha incontrato il mondo della pittura fin da giovanissimo grazie al padre collezionista e mercante, in relazione negli anni Cinquanta e Sessanta con artisti come Felice Casorati, Giorgio De Chirico, Bruno Saetti; nascono così le prime esperienze e poi le mostre. Parallelamente compie gli studi di architettura e nel corso dei decenni pubblica, oltre ad articoli, numerosi libri di storia dell’architettura e anche dedicati alle arti decorative dell’Ottocento e del Novecento, periodo del quale Cozzi è un apprezzato specialista.
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Ho sempre stimato tale coesistenza di intrecci, che può sfuggire a chi si avvicini con sguardo superficiale alle sue tele o ai suoi piccoli e raffinati affreschi strappati; un lavoro che rimanda a tanta nobilissima pittura del Novecento, qua e là mediata dall’informale o da altri indirizzi e sensibilità. Un fare artistico, scrivevo alcuni anni fa per quest’amico e collega in arte
«la cui dimensione intellettuale […] si sposa con un’attitudine manuale-artigianale, cosicché dato razionale ed elemento meta-logico convivono nell’architettura poetica dei suoi paesaggi, “incline alla commozione davanti ai silenzi, ai tempi lunghi, alla sospensione degli affetti nell’attesa di un evento per cui trasale il cuore” (Antonio Natali) […]»[1].
Paesaggi e isole, visitate e reimmaginate
«dove il racconto degli interventi dell’uomo è appena accennato per architetture primordiali, minimalisticamente partecipi del disegno ora morbido dei crinali, ora puntuto d’ambigue forme piramidali; monticoli erosi dal vento nella densità delle paste pittoriche, nella lucentezza e nell’opacità delle superfici, nella tessitura guadagnata per graffi e abrasioni, nei contrasti di qualità – per rifarsi allaTeoria dei colori di Johannes Itten –, generati dall’inquieto accordo di toni puri con altri offuscati e spenti»[2].
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Non c’è dunque da stupirsi se, connessi all’esposizione di Cozzi, siano state previste due specifiche serate: pause di riflessione e di dialogo, accolte dal titolare dello spazio espositivo Antonio Lo Pinto – anch’egli artista e docente –, che hanno consentito di soffermarsi meglio sulle pitture e di riflettere su temi e problemi del nostro tempo.
La prima iniziativa è consistita nella proiezione del film Firenze, i colori delle razze i colori dell’arte di Becattini, regista e produttore di film documentari destinati alla televisione e commissionati da vari Enti pubblici, film periodicamente inseriti anche nella programmazione cinematografica dell’Auditorium del Museo del Louvre. La presenza di questo regista in occasione della mostra non è casuale, avendo egli operato nell’ambito del “Cinema d’artista”, spesso soffermandosi col mezzo cinematografico proprio su aspetti della storia e dell’arte.
Il secondo momento è stato Artisti & Artigiani, un dibattito aperto al pubblico, dopo le introduzioni dello stesso Cozzi, di Giovanna Uzzani, curatrice della mostra, e di Carlo Bimbi. Sia la Uzzani che Bimbi sono ben noti: la prima ha pubblicato vari saggi e volumi sull’arte del primo e del secondo Novecento e ha curato varie mostre per musei e fondazioni, tra cui quella del Museo Marino Marini di Firenze, per la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, il Museo del Costume di Palazzo Pitti, il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, la Biennale Internazionale di Scultura Città di Carrara. Bimbi è un designer, rinomato per la sua attività soprattutto nel settore industriale del mobile e degli oggetti d’uso, ma anche per la parallela attività di docente a Firenze presso l’Istituto d’Arte, l’I.S.I.A. e il Corso di Laurea in Disegno Industriale. Il suo Tuttuno, mobile polifunzionale tra architettura e arredamento è in esposizione permanente al MoMA dal 2003.
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Nel corso della serata numerosi e pertinenti sono stati gli interventi del pubblico, costituito anche da vari specialisti: del design, delle arti, dello stesso mondo artigiano. Non è qui possibile riassumere gli interventi se non per rilevare, nella diversità dei punti di vista, una comune preoccupazione per la perdita crescente dell’artigianato e del suo ruolo.
I temi dell’artigianato, del design, dell’arte e della loro relazione sono vasti e non facili da dipanare e necessiterebbero di uno spazio che qui non c’è. Mi limito a dire che per affrontarli con una qualche significatività bisognerebbe assumere – come avevo accennato nel dibattito – uno sguardo più ampio, rispetto alla specificità dell’argomento, di cui molte volte e da decenni si parla, ma spesso con una focalizzazione ristretta. Ogniqualvolta si tenta di uscire dalle angustie specialistiche si viene infatti percepiti come astratti sognatori.
Ancora non si colgono i limiti e l’insufficienza di uno specialismo incapace di mettere in relazione il particolare col contesto generale, né si avverte l’importanza di adottare un modello di pensiero complesso, che non vuol dire complicato e astruso (come molti ancora credono) e che può invece anche assumere in sé la semplicità; in tal senso Alain Berthoz ha coniato il neologismo semplessità, originato dalla crasi tra i termini semplicità e complessità[3].
E anche, inversamente, un semplice bacio, avevano scritto Edgar Morin e Mauro Ceruti nel 1988, appare semplice ma «è il prodotto di una prodigiosa evoluzione dei Mammiferi fino all’Homo Sapiens, e mette in gioco la nostra straordinaria complessità psicoaffettiva»[4].
Non posso andare oltre. Aggiungo solo alcune riflessioni, forse di tipo semplesso.
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Diamo senso a ciò che ci circonda a partire dalla struttura del nostro corpo in rapporto all’ambiente.
Già secondo il paradigma fenomenologico di Marleau-Ponty, con il suo carattere processuale e narrativo, il dare senso al mondo e alle cose veniva ricondotto alla struttura del nostro corpo: «il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere» [5].
Anche il filosofo della scienza e fisico Silvano Tagliagambe già diversi anni fa osservava:
«In realtà il cervello che comprende e il cervello che agisce sono tutt’uno, per cui il rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: la percezione risulta immersa nella dinamica dell’azione e ciò comporta l’esigenza di prestare la debita attenzione a una componente pragmatica, sulla quale poggiano molte delle nostre tanto celebrate capacità cognitive»[6].
Ormai varie acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze indicano chiaramente che l’abituale mancanza di integrazione tra il sapere, il capire, il fare e il riuscire e la non sufficiente attenzione rivolta alle disposizioni interne (motivazioni, emozioni, valori, etc.) conduce a gravi deficit individuali e sociali, sul piano esistenziale e dei comportamenti relazionali e lavorativi.
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Mi sembra evidente, da quanto accennato, quanto sia arretrata e insufficiente la linea teorico-artistica puramente “concettuale”, molto presente dalla metà del Novecento, che ha perduto la consapevolezza dell’importanza dell’estetica (nel suo significato etimologico), promuovendo una caduta del gusto e del senso del bello e con essi del bene. Ritengo che tale perdita sia stata una delle cause dell’esaurimento del fare artigianale, che di certo non disprezzava il fare creativo e, in un certo senso, estetico-cognitivo della mano.
Occorre aprirsi a un paradigma che recuperi l’unitas multiplex della persona umana e del mondo, secondo la quale gli aspetti intellettuali e della specializzazione non vengono aboliti, ma posti in dialogo con complementari assunti antiriduzionistici e di attenzione alle dimensioni qualitative. Tali aspetti trovavano una maggiore considerazione nel modo di porsi delle arti e dell’artigianato nei contesti premoderni.
I processi formativi, educativi, creativi e produttivi che riassumo nell’espressione manualità cólta (cioè ricca di esperienza, intelletto e sensibilità) sono oggi importanti proprio per ridare pienezza all’essere umano, ai suoi desideri, alle sue facoltà di giudizio; in ultima analisi per l’acquisizione di una piena coscienza, di sé e del mondo, di una libertà, di una possibilità di apprezzare e godere della bellezza della vita.
Non si tratta allora di riprendere o semplicemente aggiornare come in un re-styling il modello artistico e artigianale che vigeva nel nostro passato storico, né di riproporre anacronisticamente e pedissequamente condizioni, modalità lavorative, stili, gusti e oggetti del passato che possono di certo avere un loro limitato mercato di gusto antiquario, ma non rispondono certo alle aspettative del mondo attuale.
Ritengo invece indispensabile che, dopo aver assimilato e forse riscoperto l’anima autentica dell’antico modo di concepire e coniugare una certa sapienza teorica con quella operativa, tale modello artigiano venga rinnovato pienamente partendo dalle acquisizioni della contemporaneità, ad esempio circa l’importanza del movimento, dell’azione, superando l’idea di una mimesi della realtà puramente passiva, come ancora Tagliagambe osserva[7] . Sono da tempo emersi paradigmi più complessi di ogni “schematismo cartesiano”, nutriti con le acquisizioni, la tecnologia, l’immaginario e lo spirito del nostro tempo.
Negli attuali contesti sociali è sempre più necessario offrire sia ai giovani che agli uomini “maturi” un approccio (immaginativo, estetico e conoscitivo) diverso, prismatico, che lasci spazio anche all’entusiasmo e alla meraviglia. La visione del mondo generata dal mito di un progresso e di uno sviluppo lineari e senza limiti: «è ormai logoro – ha scritto Serge Latouche –
“[…] noi non sappiamo più qual è il nostro compito, perché viviamo, perché moriamo”
Questo è più che mai il disincanto del mondo che Max Weber ha chiaramente analizzato.
Se, tuttavia, “il sacro è il simulacro dell’Abisso”, secondo la definizione di Castoriadis, i poeti, i pittori, gli esteti di ogni sorta, in pratica tutti gli specialisti dell’inutile, del gratuito, del sogno, delle parti sacrificate di noi stessi, dovrebbero essere sufficienti a creare il reincanto»[8].
Avere sostanzialmente distrutto gli antichi modelli della tradizione artigianale o non aver promosso la loro evoluzione, a partire dalla e oltre la modernità; non aver stimolato sia l’arte che l’artigianato ad assimilare aspetti antichi trans-formandoli secondo le esigenze e le mutazioni del mondo, del pensiero e del sentire contemporaneo; non aver armonizzato tutto questo con i dinamismi esistenziali, sempre più accelerati e planetari, della vita e delle culture, ci sta rendendo più deboli, poveri e probabilmente infelici.
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Queste poche parole, portatrici di qualche idea, ho sentito il desiderio di esprimere a seguito della bella iniziativa fiorentina; la mostra, voglio dire, gli incontri connessi, il film, il commento della Uzzani, i colori vitali e carichi di silenzio delle pitture di Cozzi, tanto più apprezzabili nel quotidiano squallore e caos di questo tempo, per altro anche entusiasmante perché in attesa di rinascite e non di variazioni.
Marcello AITIANI Siena 16 Febbraio 2025
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